Algeria

Penso che, parlando di kasbah, potrebbe essere interessante rammentare la guerra d’Algeria, l’ultimo sanguinoso conflitto coloniale che durò otto anni (1954-1962) nella quale divenne pratica comune l’uso indiscriminato di ogni tipo di violenza (mutilazioni da un lato e torture dall’altro) che provocò un milione di morti algerini (un decimo della popolazione) e un numero considerevole di parà francesi e di pieds-noirs che persero la vita portandosi il peso del “fardello dell’Uomo Bianco”, convinti di difendere un baluardo della civiltà occidentale. Un conflitto che portò la Francia sull’orlo della guerra civile, fece cadere sei primi ministri, e causò un colpo di Stato contro De Gaulle, mentre più di un milione di europei furono espulsi dalle proprie case perdendo ogni avere, oltre alle ripercussioni internazionali.

 

La “Guerra d’Algeria” dei francesi o la “Rivoluzione” degli algerini è una pagina di Storia emblematica del colonialismo e delle sue successive ripercussioni, anche attuali. Riassumere otto anni di guerra in un blog sarebbe uno sforzo enorme, anzi utopico e impossibile, quindi in questa kasbah virtuale voglio limitarmi a raccontare, nei prossimi articoli, la battaglia di Algeri (unito a qualche spunto di riflessione sulla tortura) l’episodio più drammatico e più pubblicizzato dell’intero conflitto, che si è svolta in tutta la sua violenza, nella kasbah della capitale algerina, in due articoli abbastanza “consistenti”.

 

Sulla guerra d’Algeria esistono migliaia (sì, migliaia) di pubblicazioni in Francia, in Algeria, e altrove, naturalmente ognuna di parte (ho trovato anche discrepanze di date) e nel prossimo (pur lacunoso) racconto ho preso spunto da Halistair Horne nella sua: “Storia della Guerra d’Algeria“, scrittore inglese che ne ha tratto un resoconto abbastanza voluminoso frutto di notevoli ricerche e interviste ai protagonisti di quegli anni, con una visione esterna e probabilmente più obiettiva di un francese o di un algerino, non molti anni dopo la fine del conflitto (l’edizione che posseggo è del 1977) con riferimenti all’ottimo film di Gillo Pontecorvo sulla battaglia di Algeri del 1966, nel quale alcuni protagonisti della sanguinosa battaglia, come Saadi Yacef, eroe della “Rivoluzione”, ha impersonato sé stesso.

 

 

Io arrivai in Algeria la prima volta nel 1980 e ci rimasi fino a metà 1982 con gli italiani, poi ci tornai nel 1986 e il 1987 con i francesi, ma si sentiva ancora l’ambiente post rivoluzionario (le bandiere dell’FLN, il Front de Libération Nationale, sventolavano ancora) anche se, come Stato italiano non eravamo coinvolti e all’epoca abbiamo saputo approfittare delle diaspore franco-algerine, con senso pratico e non ideologico come ora, dovuto ai personaggi dell’epoca, Gianni Agnelli in primis, a giudicare dagli enormi carichi navali di automobili e di bisarche cariche di FIAT che si vedevano circolare frequentemente, contrapposte (tramite il nostro onnipresente ENI) ai milioni di m3 di gas che l’Algeria inviava, e invia tutt’ora, in Italia. Ma anche le nostre più grosse imprese di costruzioni erano presenti per rimodernare l’Algeria post coloniale, in costante competizione con i francesi.

 

(E qui vorrei sottolineare un appunto riguardo alle recenti polemiche nazionaliste contro i francesi che vogliono appropriarsi del petrolio libico, come fosse cosa di nostra proprietà, quando da diversi decenni l’Italia importa (tramite il gasdotto subacqueo Transmed) 30 miliardi di m3/anno di gas dall’Algeria, ex colonia francese, ex territorio metropolitano francese. Forse all’epoca certi conflitti potevano avere un senso (vedi caso Mattei) ma oggi, con l’UE, sono solo frutto di becera propaganda.)

 

L’Algeria occupa un territorio vastissimo che va dalle coste mediterranee ai Paesi del Sahel come Mauritania, Niger e Mali con un’escursione nord-sud fra Algeri e Boghassa (Mali) di 2300 km, altrettanti nella sua massima estensione est-ovest fra Marocco e Libia ed è il più esteso Stato africano. Dire che gli algerini sono arabi è riduttivo, i touareg nel deserto sono una popolazione a sé stante, come lo sono i berberi della Cabilia (a est e a ovest di Béjaia, sul mar Mediterraneo) gente con capelli chiari e spesso occhi azzurri, isola dimenticata di ciò che furono le antiche dominazioni. Ma la stessa popolazione algerina si differenzia moltissimo dagli abitanti della penisola arabica. L’ Algeria possiede parecchi resti di città romane, la più parte rimaste indenni e immacolate da duemila anni, come Djémila, Timgad o Tiddis (le cito perché le ho visitate, ma non sono le uniche). S. Agostino, di etnia berbera, nacque nell’attuale Algeria.

 

Timgad
Le rovine della città Romana di Timgad

 

Il Paese che ho conosciuto in quegli anni era certamente diverso da quello attuale, di questo mondo (non solo il nostro, ma anche il loro) sempre più impaurito e spaventato dal radicalismo, dal terrorismo islamico e dalla propaganda terrorista che ne segue, anche se pur a quell’epoca ricordo che, nonostante l’OLP, la Baader Meinhof, le nostrane Brigate Rosse contrapposte alle stragi del terrorismo nero, in un contesto globale di “guerra fredda”, con l’atomica che avrebbe potuto distruggere il mondo, sempre in agguato, stranamente la ggente non reagiva in modo pauroso come ora, dando credito al più squallido sciacallaggio dello squilibrato di turno e dimenticando ogni parvenza di razionalità.

 

Negli anni ’90 l’Algeria ha combattuto internamente una guerra civile (non molto diversa da quelle che ingenuamente gli occidentali hanno definito diversi anni dopo “primavera araba” in altri paesi) durata diversi anni. Il Presidente Chadli Bendjedid (in carica dal 1979) nel 1990 perse le elezioni contro i vari partiti islamici e dopo diversi disordini, due anni dopo l’esercito prese il potere con un colpo di Stato. (Due decenni dopo, con più clamore, in Egitto ci fu una fotocopia di quegli eventi). Dal 1999 Abdelaziz Bouteflika è Presidente dell’Algeria, ex attivista della guerra di indipendenza ed ex segretario amministrativo di Boumédiène, dal 2003 è anche Ministro della difesa. Uno dei suoi primi atti fu di interrompere ogni relazione con l’IRAN. Quasi come al-Sisi una decina d’anni dopo, ma fra il disinteresse della comunità internazionale. Ed è tutt’ora uno scandaloso oblio dei nostri media, essendo noi un Paese confinante (282 km di mare fra Annaba e Cagliari) che dipende in parte energeticamente da loro con molte relazioni economiche, che la politica algerina venga completamente ignorata. Dove attualmente il fior fiore delle nostre più grosse imprese di costruzioni stanno realizzando commesse miliardarie fra autostrade, ferrovie e metropolitane. E’ un Paese pieno di contraddizioni, di contrasti causa di conflitti, dei quali buona parte, arrivano ancora da relativamente lontano, dai 132 anni di colonizzazione francese.

 

In quegli anni ’80, pur nella sua essenza islamica, ho conosciuto un’Algeria che oltre a delle buonissime baguette, aveva imparato dai francesi a produrre un ottimo “Blanc de Blanc”, che veniva esportato e il rimanente servito agli europei (e ad alcuni fidati connazionali) solo in pochi esclusivi ristoranti, con una ipocrisia (non dissimile ideologicamente da quella cattolica) in brocche nascoste sotto il tavolo. Con due colleghi capitammo quasi per caso in un locale d’élite ad Algeri dove, durante la cena, assistemmo ad uno spettacolo di danza del ventre con spogliarello incluso (l’immaginario di “Mille e una notte”). Inoltre, lo scrivo con certa riluttanza per descrivere l’Algeria di quegli anni, che era simile, anzi più chiusa della Tunisia e l’Egitto, ho visitato i bordelli di Annaba, di uno squallore tale che mi sono rimasti solo come memoria storica e ci ho consumato, nonostante il paese mussulmano, un pastis e qualcos’altro di più forte, come un cognac. Anche a Constantine c’era il bordello gestito dallo Stato, nel quale finivano ragazze per libera scelta, ma anche le “adultere” o rinnegate dal marito. Le stesse che ai giorni nostri in Arabia Saudita vengono lapidate o impiccate. Forse era un compromesso fra le leggi islamiche e il socialismo post-colonialista, ma ripensando all’epoca, poche decine di anni prima in Italia, il moralismo radicale cattolico non differiva di molto, pur con metodi diversi, ma non meno crudeli. Sono stati anni in cui i rapporti con i locali erano socievoli e nonostante la diversità culturale, raramente ho avuto attriti o dissapori e tutt’ora mi chiedo quanto i bottegai, gli operai, i fornitori di frutta e verdura e la gente comune, sia cambiata da allora.

 

Pont de Sidi Rached di Constantine – Progetto dell’ing Gustave Eiffel (1850)

 

Oggi nessun occidentale si immaginerebbe una produzione vinicola (di qualità) o dei bordelli statali in un qualunque Paese islamico. Né locali notturni osé. Non so se ci sono ancora (non lo escludo a priori) ma dopo l’indipendenza in Algeria si intravedeva come una “brutta copia” dell’Occidente che cercava spazio fra l’islamismo, perché un gran numero di persone, nei 132 anni di colonizzazione del Paese, che dal 1947 divenne territorio metropolitano francese, andarono a vivere in Francia dove potevano anche chiedere la cittadinanza, grazie a un vecchio editto di Napoleone III, per poi tornare in patria, dopo l’indipendenza, con mentalità diversa dai locali. In contrapposizione, negli stessi anni Paesi come la Tunisia o il Marocco (ex protettorati, non colonie, né territori metropolitani francesi) si erano più occidentalizzati, ovvero più aperti all’occidente che ora, tanto da essere mete ambite per il turismo, che l’Algeria non lo è mai stata. Eppure oggi molti cittadini di quegli stessi Paesi si sono radicalizzati, su certi aspetti, più degli algerini. Cos’è successo nel frattempo? Perché nessuno se lo chiede?

 

In meno di 40 anni i popoli del Maghreb si sono radicalizzati, rinnegando i governi socialisti post-coloniali che (dal nostro punto di vista) avevano garantito più libertà e più diritti civili dell’islam integralista, anche e soprattutto alle donne. (Ma pure l’ex Yemen del sud, con inclinazioni decisamente sovietiche, godeva di libertà cancellate dopo la riunificazione con il feudale Yemen del nord e le sue leggi coraniche). Le recenti “primavere arabe” sono state una rivolta contro i dittatori corrotti che avevano ereditato il potere dai predecessori visionari e rivoluzionari del post-colonialismo, quali Bourghiba, Boumédiène o Nasser. Le “primavere arabe” hanno avuto una corrente liberal-laica, ma con una grossa fetta islamica radicale che successivamente è stata repressa con la violenza, come nell’Egitto di al-Sisi e due decenni prima nell’Algeria di Bouteflika. La Siria ha rivelato pienamente in modo violento tutte le contraddizioni e le complessità del mondo arabo, che vanno ben oltre alle semplificazioni religiose sciiti-sunniti.

 

Ecco, l’immagine attuale di questo Maghreb e di tutto il sud Mediterraneo, così tormentato e complesso, pieno di conflitti e repressioni, la più parte nascoste, a quattro passi da noi, e la marea di persone che chiedono asilo all’Europa, la lascio come sfondo per i prossimi articoli raccontando la battaglia di Algeri, fulcro di un più ampio apice non solo del colonialismo, ma fonte di riflessione sugli orrori e le barbarie che ogni popolo, sia esso europeo o africano, in determinate condizioni, può espletare.

 

(In contrapposizione agli orrori, come immagine di copertina ho scelto il fennec, la piccola volpe del deserto, uno degli animaletti più graziosi con cui abbia avuto contatto. Le sue grandi orecchie gli servono per ascoltare le prede da grandi distanze nello sconfinato silenzio del Sahara)