Anatomia di un genocidio 10 – Hamiti e bantu in Congo (Zaire)

Questo grande Paese, colpito duramente dalle ricadute del genocidio, vide diffondersi una propaganda direttamente ispirata dalle opinioni originarie sulle “razze”. Il fenomeno non era nuovo in Congo, che aveva già subìto una divisione etnica dagli antropologi ed etnologi coloniali (come già scritto nella storia del Congo). I vari “giochi” etnici, conosciuti da tempo nei dibattiti politici congolesi, suscitarono nel Kivu una polemica contro i banyarwanda. Culturalmente rwandofoni, ci resiedevano da prima che fossero state delimitate le frontiere coloniali. Si aggiunse in seguito l’ondata di rifugiati tutsi all’epoca della Rivoluzione sociale del 1959.

In questo ambiente, nel 1994 si installarono centinaia di migliaia di hutu nei campi a nord e a sud del lago Kivu. Questi, dopo un tragico inizio segnato da un’epidemia di colera, fondarono delle città con case in lamiera, gestite inizialmente dall’UNHCR, formando una specie di Rwanda fuori dal Rwanda. Ci si trovavano commerci, scuole, parrocchie e la gente si ritrovò riunita sotto le vecchie autorità comunali. Le milizie interahmwe si riorganizzarono, intimidendo coloro che volevano solo tornare a casa. Alcuni campi erano popolati da intere unità militari, dove si riunivano in attesa di una rivincita, sotto il controllo del loro Stato maggiore, partito in esilio con in testa il generale Augustin Bizimungu.

Il senatore belga Alain Destexhe scrisse nel 1996 che: “al costo di un milione di dollari al giorno, l’aiuto umanitario internazionale manteneva delle strutture controllate da un potere, proveniente dal precedente regime rwandese, che si preparava a riprendere la guerra, mentre uccideva zairesi sospetti di essere culturalmente vicini ai tutsi rwandesi”.

 

La città di Goma ai piedi del vulcano Nyiragongo

 

Fin dall’inizio, fu la negazione a prevalere. Il redattore di un periodico, “Traits d’union. Rwanda“, diffuso fra le ONG cattoliche belghe, scrisse che contrariamente ai tedeschi, i quali dopo Norimberga avevano accettato la verità storica, nei campi numerosi hutu si irrigidivano su un’autodifesa che negava la realtà e la specificità abominevole del genocidio, o a metterlo sullo stesso piano di un genocidio del quale erano vittime dal 1990. Nell’agosto 1994 un gruppo politico di rifugiati affermò che il genocidio era solo una messa in scena di esperti di comunicazione. Gli stessi giornalisti di RTLM in esilio a Goma, denunciarono la “lingua cosparsa di sale” che aveva intossicato Le soir, il giornale di Bruxelles.

Il governo provvisorio, responsabile del massacro, si disse pronto a una riappacificazione, ma non essendo riconosciuto come legittimo, a causa dell’ostinazione dell’FPR, ciò non era possibile. In seguito lo stesso ex governo ridusse il genocidio a un semplice episodio all’interno della guerra, incolpando l’FPR di averla iniziata. 29 preti scrissero a papa Giovanni Paolo II per denunciare “il complotto internazionale” dove “tutta l’umanità s’era lasciata ingannare dalla bugiarda e dannosa campagna del FPR” che aveva fatto credere a un genocidio.

La propaganda “en miroir” che aveva accompagnato il genocidio, proseguì immediatamente dopo la caduta del potere che ne era stato responsabile. Dietro la copertura nella difesa dei “diritti umani” e della “verità sulla crisi rwandese”, il massacro dei tutsi non sarebbe stato altro che una reazione in risposta a un “genocidio” programmato dai tutsi stessi. Quindi, secondo loro, tutti avevano massacrato. In questo scontro reciproco a somma zero, gli hutu democratici, vittime dei génocidaires, erano stati dimenticati. Non era avvenuto alcun genocidio, solo una guerra inter-etnica. Dei militanti rifugiati a Bukavu sostennero che a fronte di 500.000 tutsi uccisi c’erano stati 1.500.000 hutu massacrati dopo il 1990, una cifra esageratamente voluta per impressionare l’opinione internazionale, allo scopo di distrarre dalla realtà del genocidio dei tutsi.

 

Il Masisi, la piccola svizzera del Congo – Nord Kivu

 

Il concetto di società civile, che dal XIX secolo indica delle strutture sociali autonome indipendenti dagli Stati, ha conosciuto un successo all’ombra del neoliberalismo, ma anche dalla dottrina sociale della Chiesa e particolarmente in associazione con l’attuale sviluppo delle ONG. In Africa, dopo la fine della guerra fredda, questo quadro ha iniziato a ospitare innumerevoli associazioni che tendono a influenzare le opinioni nei confronti degli Stati. Presso i rifugiati rwandesi la posta in gioco era quella di farsi valere sia contro il nuovo regime di Kigali che contro lo Stato zairese, in relazione alla rete di ONG europee. L’obbiettivo politico era quello di non lasciare i rifugiati liberi delle loro scelte nel disordine o di fargli creare un altro Stato rwandese all’estero.

I responsabili delle ONG rwandesi che lavorarono a Gitarama all’ombra del governo genocidario, lo seguirono nei campi del Kivu e gli servirono come intermediari. Si organizzarono in un Collectif de la société civil con due poli, a nord e a sud della regione del Kivu. Combinando attività di mutuo soccorso e circoli di riflessione, questo Collettivo organizzò, alla fine del 1994 e nel 1995, incontri di lavoro a Goma e Bukavu, ma anche a Nairobi. I suoi dirigenti, usciti dalla nomenklatura del vecchio regime, si presentarono come i rappresentanti democratici dei rifugiati nei negoziati con l’UNHCR, sotto la doppia benedizione di questa organizzazione internazionale e del governo ad interim in esilio. Per cui, di fatto, i campi erano controllati dai precedenti responsabili dello Stato rwandese. Diverse grandi ONG internazionali, nel 1995 protestarono per questa presa in ostaggio dei rifugiati.

I Collettivi del Kivu trovarono anche l’appoggio della rete di ONG belghe legate al movimento cristiano-sociale, che avevano avuto contatti dal maggio 1994 con il governo génocidaire di Gitarama, favorendo una normalizzazione di quel potere. Qui si ritrovò la sorprendente confusione fra la “teologia della liberazione” e il progetto etnico-sociale che aveva ispirato, una generazione prima, il sostegno senza riserve al partito estremista Parmehutu. Anche diverse ONG francesi si ritrovarono coinvolte, loro malgrado, in questa intricata situazione. Gli obbiettivi riconosciuti erano l’inquadramento dei rifugiati, la raccolta di informazioni e il lobbismo politico.

 

Tramonto sul lago kivu

 

Il sostegno cristiano-sociale al vecchio regime proseguì senza esitazione, poiché aveva sempre ritenuto democratica una repubblica fondata sulla schedatura etnica, ed erano convinti di agire all’interno del loro credo cristiano. In questo contesto gli equivalenti tedeschi e belgi di Secours catolique (una branchia francese di Caritas Internationalis), Misereor e Caritas, si trovarono anche loro coinvolti in una lotta coordinata di fatto da una struttura più discreta: l’Internazionale Democratica Cristiana (IDC). Questa, conosciuta soprattutto per le sue azioni contro le dittature sudamericane e contro il totalitarismo comunista (compresa la caduta del regime di Allende in Cile) ha funzionato a lungo in questa regione d’Africa come una lobby, al servizio del “modello” messo in opera da Kigali dal 1961. Si trovava la sua mano in quasi tutte le iniziative a favore dell’integralismo etnico hutu, sia in Rwanda che in Burundi. Negli anni 1990 l’IDC preferì sostenere il vecchio partito unico MRND di Habyarimana, piuttosto che i nuovi partiti democratici. Quando nel 1994 una delegazione dell’Intenazionale Democratica Cristiana visitò i campi in Zaire, vide negli interahamwe solo un movimento giovanile un po’ “particolare”, come fece notare la giornalista di Le soir, Colette Braeckman.

Ben presto tutta la mobilitazione associativa si trasformò in struttura politica con la creazione, già dal luglio 1994, del Comité rwandaise d’action democratique (CRAD) con a capo un ex dirigente delle Banche popolari ed ex ministro, il quale l’anno successivo fondò un nuovo partito, il Rassemblement pour la democratie et le retour des refugiés (RDR). Presentandosi come moderato e come rappresentante dei rifugiati, chiese la “verità” sui crimini commessi da entrambe le parti dopo il 1990. La sua filosofia trovò spazio nel bollettino Trait d’union, ma anche nell’influente rivista cattolica rwandese Dialoque, la cui redazione era partita ugualmente in esilio. Trovò altrettanto il sostegno dei leaders del movimento cristiano-sociale belga, cioè dei vecchi amici del regime di Habyarimana e del partito MRND. Un altro segno di continuità, fu l’immediato sostegno al RDR della gerarchia delle vecchie Forces Armées rwandaises (FAR) in esilio in Zaire. Nell’aprile 1995 l’alto comandante delle FAR, assieme ad altri ufficiali implicati nel genocidio, si unì al RDR, considerandolo “una soluzione di ricambio” al vecchio governo ormai screditato. Il RDR funse successivamente da asilo e ispirazione, per le formazioni creatisi in Europa dagli oppositori rwandesi in esilio.

 

Scorcio di Bukavu – Kivu del Sud

 

Un soccorritore della Caritas a Goma, spiegò nel 1995 che i rifugiati erano addolorati dai terribili avvenimenti, in quanto ritenevano tutti i rwandesi responsabili di ciò che era successo, invocando sempre il duplice genocidio, uno alla luce del sole, l’altro “durante la notte, di nascosto”. In virtù del torto condiviso, veniva rifiutata in anticipo ogni sanzione. Il tema della riconciliazione si diffuse su tutta una popolazione umiliata e disorientata e fu strumentalizzato politicamente dal governo del genocidio e i suoi amici stranieri. Mentre le ONG belghe diffondevano vignette raffiguranti immagini di pace, i leaders dei campi continuarono a contestare gli accordi di Arusha, con le stesse argomentazioni usate dai media estremisti nel 1994. Fosse cecità o il pensiero perverso di una globalizzazione etnica, ciò non permise alcuna apertura nei confronti di opzioni ideologiche o responsabilità politiche. Le stesse ONG pretendevano che i moti genocidari colpevolizzassero tutta l’etnia hutu, lasciando intendere che lo sterminio di un gruppo umano poteva solo essere stato fatto da un altro gruppo umano.

Il dramma dei rifugiati hutu negli anni 1994-1996, fu quello di un’incapacità morale e politica di rimettere in causa la piaga dentro la quale il loro Paese era precipitato, compiendo una vera conversione allo stesso modo dei tedeschi dopo la II guerra mondiale. Resta da determinare se i principali responsabili di questa alienazione furono i rwandesi stessi o i loro partners stranieri, rifugiandosi in una visione settaria che si rifiutarono di rinnegare. Comunione di interessi, indifferenza sulla sorte della popolazione, pigrizia intellettuale, o fanatismo, sono situazioni per niente banali nella storia umana e il Rwanda non è fuori dal mondo.

 

Villaggio nel Kivu del Nord

 

Il Congo non era estraneo ai massacri tribali, nel 1992 in Katanga (allora Shaba) ci fu un’epurazione dei luba provenienti dal Kasai, che fece migliaia di morti e circa 800.000 sfollati, nel silenzio internazionale. Anche il Kivu fu esposto allo stesso fantasma di purezza etnica fra autoctoni e alloctoni, puntando agli zairesi di lingua rwandese, molto numerosi al nord e al sud della regione. Le migrazioni dell’epoca coloniale avevano rinforzato questa presenza, prima dell’arrivo dei rifugiati tutsi scappati dalla Rivoluzione sociale. Ma gran parte dei rwandofoni (banyarwanda e banyamulenge) erano semplicemente i discendenti di gruppi di cultura rwandese (agricoltori e allevatori) che avevano sviluppato le loro attività fuori dai confini politici del Rwanda, prima dell’epoca coloniale.

Già dagli anni 1960 la politica locale trovò utile denunciare una morsa “straniera” in certe zone a maggioranza di lingua rwandese. Agli inizi del 1990 cominciarono i contenziosi con l’avvento del multipartitismo, ma fu nel 1993 che iniziarono dei veri massacri ai danni dei banyarwanda nel Kivu del Nord. L’installazione nel 1994 di centinaia di migliaia di profughi diede fuoco alle polveri. Il contraccolpo materiale e umano sulla popolazione zairese locale fu brutale. Gli aiuti internazionali che si riversarono nei campi, non si occuparono più dei congolesi, sopraffatti da questo vicinato (e neppure dei rwandesi rimasti nel loro paese ferito e devastato). Il conflitto del 1996-1997, che condusse alla caduta di Mobutu e fece rientrare la maggior parte dei rifugiati, produsse diverse vittime fra la popolazione zairese, stretta in una morsa fra i rifugiati che scappavano all’interno e le forze di Kabila alleate con Rwanda e Uganda. La guerra proveniente dal Rwanda causò centinaia di migliaia di vittime nel Congo orientale e fu fin troppo facile rendere il Rwanda responsabile di tutte le disgrazie di un Paese, che malgrado la sua potenzialità economica e la sua grandezza, si trovò politicamente umiliato.

Fu così che il sentimento antirwandese si trasformò in razzismo. Non venne messa in causa l’ideologia delle razze, come in Burundi, ma dalla fine anni 1990, la retorica di un antagonismo bantu e nilotici, fu degna delle parole incendiarie nella propaganda estremista precedente al genocidio. La tensione iniziò nel 1995 sotto forma di un nazionalismo che voleva espellerli (da ricordare le feroci milizie ipernazionaliste mai mai, citate negli articoli sul Congo) nel gennaio-febbraio 1996 migliaia di tutsi furono massacrati nel Nord Kivu da congolesi e rifugiati hutu, sostenuti dalle autorità locali, leader religiosi e rappresentanti di “associazioni dei diritti umani”.

 

Aerial View of Camps for People Displaced by Conflict – North-Kivu, Democratic Republic of the Congo

 

Il successivo intervento rwandese che smantellò i campi, venne accompagnato da un’ostilità nei confronti dei rwandesi, al punto da denunciare un complotto internazionale contro la nazione zairese. Vennero accusati, assieme all’Uganda e il Burundi di voler ricostruire un impero hema e gli venne ordinato di tornare in Etiopia, in quanto né lo Zaire, né il Rwanda gli appartenevano. Le stesse parole di Kangura e di RTLM. L’ondata antitutsi del 1998, durante il secondo intervento militare, trasformò l’odio in razzismo. Nel 2000 l’appoggio americano a Israele venne applicato in Africa Centrale, dove un giornale di Kinshasa paragonò il Congo al Medio Oriente in un piano americano di destabilizzazione attraverso i tutsi, al fine di creare un altro Israele in Africa per controllare l’area. False agenzie stampa, dal 1998 denunciarono periodicamente come scoop, un piano di colonizzazione tutsi nel Kivu, per appropriarsene.

Dall’inizio del XXI secolo continuarono a moltiplicarsi gli attacchi contro i “nilotici”, la metodica diffusione di notizie false e le alterazioni della realtà rievocanti la propaganda “en miroir” sperimentata in Rwanda negli anni 1990. Una nuova cultura di odio razziale, nell’est del Congo, soffiò sull’ideologia che produsse il genocidio. Un sito annunciò che il Senato francese aveva dimostrato che non ci fu alcun genocidio, riunioni segrete a Kigali per ripartirsi il Congo, un piano rwandese per destituire Mugabe ed altre amenità senza dar limiti alla fantasia.

Alcuni intellettuali congolesi che denunciarono questa deriva sui giornali, dimostrando indignazione nei confronti del genocidio e condannando l’ossessione etnica, furono accusati di distorcere gli avvenimenti.

I congolesi furono chiaramente influenzati dagli hutu in esilio, ma l’orrore del 1994 ha letteralmente coinvolto i paesi vicini che hanno subìto una caduta morale, come se il destino di quell’area dipendesse da questa ossessione razzista. Lo stesso Rwanda, malgrado l’attuale ricusazione ufficiale delle classificazioni etniche, rimane minacciato dalla piaga della riduzione globale di una situazione complessa a un semplice antagonismo razziale fra bantu e hamiti. Nella terribile esperienza del genocidio, nella lotta contro le tentazioni di rivincita, di negazione o di oblio e le strategie politiche nell’ambito dirigenziale che mantengono il Paese sicuro, rimane pur sempre il rischio di ricadere nella logica razziale. Un contesto dove la posizione dei partner stranieri, anche a sessant’anni dalla decolonizzazione, resta cruciale.

 


Fonti:
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien et Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique