Anatomia di un genocidio 11 – L’Occidente

E’ risaputo che la comunità internazionale non è intervenuta su ciò che è successo nell’estate del 1994 in Rwanda. In Francia, il 10 giugno a Oradour-sur-Glane (dove i tedeschi massacrarono 642 civili per rappresaglia) durante le commemorazioni per la caduta del nazismo, Mitterand disse che non ci sarebbero state altre Oradour, senza una parola sul Rwanda, teatro di un genocidio che diverse autorità avevano già cominciato a denunciare, compreso il suo ministro degli Esteri. Nel 1° luglio seguente, il Primo ministro francese, assieme a Simone Veil si inginocchiarono davanti alle vittime di Auschwitz e un editoriale di Libération uscì scrivendo che all’opposto la Francia restava impassibile di fronte a un genocidio.

Lo stesso rifiuto di guardare ci fu all’ONU quando il Segretario Generale e il suo rappresentante a Kigali, occultarono la situazione reale presso il Consiglio di Sicurezza. I massacri vennero descritti come “violenze di strada” commessi fra civili e militari, nel quadro di una ripresa delle ostilità fra il FPR e l’esercito governativo.

Gli allarmi del generale canadese Roméo Dallaire, che l’Onu aveva lasciato a Kigali con 450 uomini per “salvare l’onore dei caschi blu”, rimasero senza effetto. La MINUAR assistette inerme a tutto il massacro, nonostante gli SOS lanciati subito dalle organizzazioni umanitarie come OXFAM o il rappresentante a Kigali della Croce Rossa Internazionale. La parola “genocidio” dovette attendere il 25 maggio per essere pronunciata dalla Commissione dei Diritti Umani dell’ONU. Il 30 aprile precedente, Madeleine Albright a nome degli USA, aveva impedito che l’ONU pronunciasse quel termine. Nel Consiglio di Sicurezza solo i due delegati ceco e neozelandese si adoperarono per ottenere un rinforzo delle truppe ONU, al fine di salvare i civili. Ma l’unico intervento fu quello dell’operazione Amaryilis, per evacuare solo gli europei e parte della nomenklatura hutu.

Roméo Dallaire ricordò amaramente che all’aeroporto di Kigali c’erano 500 francesi, 1000 belgi a Nairobi e 250 americani a Bujumbura e nessuno prese in considerazione di mobilitarli contro i massacri.

 

Veduta aerea del Monte Visoke o Bisoke (3.711 m) vulcano in quiescenza fra il Rwanda e la Repubblica Democratica del Congo, con il Mikeno (4.437 m) dietro. Virunga, Great Rift Valley.

 

Per il Dipartimento di Stato USA, i tutsi erano guerrieri arroganti venuti dal nordest ad imporre il loro controllo sui piccoli indigeni hutu, scatenando una guerra che durava da secoli. Vista la “secolarità” del conflitto non sarebbe stato possibile metterlo a termine. La stessa visione di Mitterand: degli aristocratici contro sanculotti.

Nel 1998 una commissione parlamentare francese arrivò alla conclusione che era stato sottostimato il carattere autoritario, etnico e razzista del governo rwandese e che i diplomatici in loco non avevano fatto un’analisi sufficiente. La stessa conclusione dei rapporti del senato belga e dell’Unione Africana. Quest’ultima sottolineò che si trattò di uno dei casi di genocidio meno ambiguo di quel secolo.

L’attentato al Falcon 50 che causò la morte dei due presidenti, funzionò non solo da innesco alla violenza, ma come alibi per la sua legittimazione. Nelle prime ore gli estremisti accusarono i belgi, per giustificare l’assassinio dei dieci caschi blu, nell’intenzione di far partire tutto il contingente della MINUAR. Il luogo di tiro del missile fu oggetto di innumerevoli interpretazioni e la propaganda di RTLM, da subito indicò un luogo di postazione ONU. In seguito venne incolpato il FPR con la complicità dell’ONU. L’attentato fu strumentalizzato sin dall’inizio dagli estremisti, ma anche negli ambienti francesi, solidali nel voler difendere la loro politica nel Paese. Per cui non venne fatta alcuna inchiesta reale sull’attentato, la dinamica del quale rimase avvolta nella nebbia, incline a tutte le ipotesi. Solo nel 2012 un rapporto di esperti escluse che il tiro provenisse dalla zona controllata dalla MINUAR, ma da un’area sotto il controllo della Guardia presidenziale. Il dibattito mediatico sulla responsabilità dell’attentato durò a lungo, togliendo non poco l’attenzione dal genocidio stesso, nel periodo in cui uscì ogni tipo di congettura.

 

Mercato

 

Un capitano francese vicino ad Habyarimana, affermò che l’attentato era stato commesso dal FPR e che tutte le notizie sul genocidio erano solo disinformazione. Falsità emblematiche che la Francia voleva nascondere la realtà del genocidio. In Francia un giornale nazionale uscì con un falso scoop, terrificante quanto assurdo, nel quale denunciava che era stato l’FPR stesso a commettere il genocidio, per incolpare gli hutu e poter salire al potere, accusando i tutsi di essere dei mostri. Su Le Monde un giornalista d’inchiesta scrisse tempo dopo (senza mai essere stato in Rwanda) che i morti hutu erano superiori ai morti tutsi, descrivendo gli orrori commessi dal FPR e presentando Paul Kagame come un nuovo Pol Pot. Altri giornalisti in Francia descrissero i tutsi come un popolo di bugiardi e violenti. Già nel giugno 1994 un giornale belga scrisse che solo gli hutu erano i veri rwandesi e che i tutsi, arrivati dal nord, li avevano sottomessi, usando il solito pregiudizio dei tutsi intelligenti e furbi contro gli hutu balordi e gentili.

Da ormai mezzo secolo le scienze umane avevano fatto enormi progressi nella conoscenza delle società africane: il rinnovamento dell’antropologia sociale, i lavori di geografia rurale, la linguistica, la nascita di una storiografia degna di questo nome, che avevano messo il continente africano al posto che gli spettava nel campo della conoscenza, estraendolo dall’esoterismo e dalle fantasmagorie razziali. Ma la crisi rwandese dimostrò che gli schemi pregiudiziali c’erano sempre.

Più o meno tutti i media Occidentali hanno sempre preso come oro colato la deriva razziale di quella’area africana. La caricatura dei tutsi alti, guerrieri aggressivi e furbi, contro gli hutu piccoli e indifesi non è rimasta solo nella cronaca, ma si è estesa a fumetti, film, romanzi, canzonette e ha conquistato tutto l’Occidente.

 

Ritratti rwandesi

 

La Francia è sempre stata imperversata da una “psicologia etnica”, rimasta esattamente come l’aveva sviluppata negli anni 1930 Geoge Hardy, direttore della Scuola Coloniale: i nomadi sahariani sono “furbi, bellicosi, perfidi, ma molto intelligenti con un temperamento aperto”, i mandingo sono “litigiosi e imbroglioni”, i serere “ubriachi e collerici, ma buoni lavoratori” e così via. Una rappresentazione differenzialista e disuguale delle diversità molto diffusa. Fra gli abitanti dei Grandi Laghi, le considerazioni sulle origini razziali e le etnie sono sempre state instancabilmente rimescolate a colpi di cifre: l’85% di bantu venuti dal Congo e il 15% di tutsi arrivati dall’Etiopia. Il passaggio dall’antropometria a l’antropologia genetica, fondata sui marcatori del sangue, ha continuato con gli stessi pregiudizi. Di fronte a risultati che riflettevano la complessità delle situazioni, venivano evocati incroci o adattamento all’ambiente, per salvaguardare il ritratto tipo “originale”. Alla fine degli anni 1960, dopo che è stato contestato il concetto hamitico sui tutsi come incrocio fra africani e caucasici, cominciarono medici e biologi a voler verificare la classificazione etnica tradizionale in base al “lavoro storico”.

Ma il caso del Rwanda e dell’ideologia hamita si inserisce in un movimento più generale, che va al di là della stessa Africa: si tratta dell’interpretazione della storia attraverso una logica razziale. Secondo Hannah Arendt (storica ebrea tedesca) il razzismo di Stato messo in opera dai nazisti, si basava anch’esso su quel “pensiero della razza” che era penetrato nelle opinioni occidentali del XIX secolo. Di fatto verso il 1850 la scelta si pose fra due grandi ideologie, supposte avere le chiavi della Storia e degli enigmi del mondo, presentando un resoconto globale dell’evoluzione dell’umanità: la lotta di classe o l’antagonismo delle razze. L’opzione si manifestò anche quando in Francia si dovette interpretare la Rivoluzione in termini di rivolta del Terzo Stato o come una vendetta della razza storica dei galli, contro i nobili discendenti dalle conquiste germaniche. La risposta razziale che rappresentò l’antisemitismo nella Germania degli anni 1930, fu concepita come barriera al bolscevismo. Simile al gioco della Chiesa in Rwanda negli anni 1950.

 

Ritratti rwandesi

 

“Si sa che è inutile discutere sulla veridicità o meno di un’ideologia che, in quanto tale, richiede più convinzione o fede, che ragionamento. L’aspetto scientifico diventa secondario, poiché in questo quadro non è un mezzo di riflessione, ma un’arma politica”, insiste Hannah Arendt. In Africa la civilizzazione moderna credeva di aver trovato i suoi titoli nobiliari, infatti gli europei si ritrovarono tutti eredi dei popoli parlanti il sanscrito, di fronte alle razze africane che apparivano come cugini molto lontani, più o meno attardati. Per cui anche questi gruppi inferiori avrebbero dovuto essere classificati in base alla loro genealogia, che venne impostata come criterio determinante. Ancor oggi i cliché dell’etnologia razziale di un secolo fa persistono. Nel 2011, secondo la rivista di scienze americana, Discover Magazine, la fotografia di Paul Kagame venne pubblicata come “modello” tutsi (come nel passato fu applicato dal ritratto di un capo, quello di un’intera popolazione) e dei diagrammi genetici (dove i luhya del Kenya venivano paragonati agli hutu) per provare che i tutsi erano dei quasi-masai che avevano dominato i bantu, prendendo in prestito la loro lingua.

Il razzismo non è solo affermare la superiorità di una razza su un’altra, esiste già quando si afferma l’esistenza stessa delle “razze”, come gruppi biologici, psicologici e culturali omogenei.

Di fatto l’ideologia iniziale che ha condotto il genocidio in Rwanda, è radicato in un pensiero di disprezzo per tutta l’Africa. Un continente che deve avere il coraggio di rifiutare quell’africanismo delle razze e delle tribù, che si è infiltrato, su un modello sarcastico o paternalista, nella cultura contemporanea africana.

 

Ritratti rwandesi

 

Fin da subito nacquero assurde teorie complottiste che coinvolgevano tutsi e americani, aiutati da inglesi e israeliani, inizialmente spinte dai negazionisti e i nostalgici di Habyarimana, ma toccarono anche ambienti politici e militari francesi. Quest’ultimi, perlopiù sovranisti di destra e di sinistra, riuniti dai valori dello Stato Repubblicano, erano dichiaratamente preoccupati di difendere l’onore dell’esercito francese in Rwanda e la politica francese negli anni antecedenti il genocidio. Il pretesto fu dato dall’appoggio degli USA a Kagame, espresso come ravvedimento per non aver impedito il massacro, ma pure per occupare lo spazio vuoto lasciato dai francesi, con i quali il nuovo regime di Kigali non volle più averci a che fare. Un anti-americanismo disposto a sposare le tesi dei génocidaires, dove pesò anche la riconosciuta diffidenza di Mitterand nei confronti degli anglosassoni.

Le tesi sulle responsabiltà americane nell’affair Rwanda, vennero diffuse dal settimanale di sinistra Marianne, ma riprese anche negli ambienti della destra nazionale. In Francia un noto giornalista d’inchiesta scrisse un’opera di 544 pagine dove sostenne le idee cospirazioniste, contestò la relazione della Commissione parlamentare, negò ogni coinvolgimento francese, accusò il FPR come autore dell’attentato al Falcon 50, ribadendo che i tutsi erano promotori di una “cultura di menzogne”, suscitando non poche polemiche e accuse di “provocazione all’odio razziale” da parte di SOS Racisme, ma anche di aver scritto un libro su comando per minimizzare le responsabilità della Francia.

I giornalisti francesi offrirono altri esempi “surreali” per suffragare il complotto tutsi-americano, portando in causa pure le origini di Obama nilo-hamita paragonandole a quelle tutsi di Kagame, quando la differenza fra i luo keniani di lingua nilotica e i tutsi di lingua bantu, è come quella fra un polacco e uno spagnolo. Diverse manipolazioni dei fatti uscirono anche negli Stati Uniti e in Canada, che si riallacciarono ai complotti sull’11 settembre, ai serbi come le principali vittime in Jugoslavia e che in Rwanda c’erano stati più morti hutu che tutsi.

 

Sobborghi di Kigali

 

La buona fede che ispira i pregiudizi populisti, è simile a ciò che successe nel 1959, quando i cristiani di sinistra belgi parteggiarono senza riserve per la Rivoluzione sociale, credendo di trovare lo spirito paesano dell’America latina, quella che più tardi venne chiamata la “teologia della liberazione”. Una confusione che ancor oggi trova riscontro presso un gruppo cattolico con base in Catalogna e alle Baleari, che riprende tutta la letteratura dell’estremismo hutu, con a capo un catalano molto religioso, amico del premio nobel per la pace 1980, Adolfo Perez Esquivar, che s’è fatto coinvolgere, attraverso i padri bianchi spagnoli, nelle idee cospirazioniste.

Lo stesso Colonello Jaques Hogard, responsabile dell’operazione Turquoise nel giugno 1994 (dove i francesi protessero gli hutu génocidaires dal FPR e li aiutarono, con armi e soldi, a fuggire in Zaire) intravise “l’ombra” degli Stati Uniti, del Regno Unito e di Israele, dietro l’esercito di Kagame, definendolo “allievo di Museveni che vuole superare il suo maestro”.

Sembra che i tutsi, che negli anni 1960 vennero associati a complotti filo-sovietici, negli anni 2000, ancora visti come nilo-hamiti, vengano fantasticati in pseudo complotti americani per creare uno Stato “hamita”, simile a Israele, nell’Africa Centrale. Una tesi che negli ambienti congolesi anti-tutsi è ancora attuale, visti come “ebrei africani”, in un sentimento razziale non molto distante dall’antisemitismo.

 

Ritratti rwandesi

 

I legami fra coloro che esercitano una spiegazione criminale semplicistica di questa tragedia, i cospirazionisti antiamericani legati ad un ricorrente antisemitismo e la “priorità” razziale, sempre presente nei confronti degli africani, hanno creato una barriera, impedendo la comprensione di ciò che è successo in Rwanda. Fantasmi che hanno contribuito a prolungare le ombre che hanno caratterizzato per più di un secolo la visione della regione dei Grandi Laghi. Interi settori dell’opinione pubblica in Europa e in Nord America hanno relativizzato la realtà, semplificando il razzismo in questione, riducendolo a una specie di caratteristica etnografica. La banalizzazione di un’ideologia razzista, mortale quanto l’antisemitismo.

Prosperata dalla metà del XIX secolo nei rapporti fra Europa e Africa, si ritrova ancora dopo uno spaventoso genocidio e il mondo intero sembra essersi familiarizzato con l’idea iniziale di un contenzioso africano. La sindrome hutu-tutsi è una sorprendente passione che dai primi esploratori del XIX secolo, si ritrova ancora sui media del XXI secolo, ispirando prese di posizione fra le più radicali, coinvolgendo di fatto questioni di civiltà estremamente gravi, che trascendono i confini del continente.

 

I vestiti di coloro che vennero uccisi durante il genocidio del 1994 esposti per la commemorazioni a 25 anni dalla tragedia. Kigali, Ruanda, 06 aprile 2019
I vestiti di coloro che vennero uccisi durante il genocidio del 1994 esposti per la commemorazioni a 25 anni dalla tragedia. Kigali, Rwanda, 06 aprile 2019

 

Recentemente (febbraio 2020) la giornalista d’inchiesta britannica, Linda Melvern ha scritto il libro “Intent to Deceive“, in cui analizza il modo in cui i génocidaires rwandesi hanno diffuso la propria versione degli eventi nel mondo. “Se la negazione è parte integrante del genocidio, il genocidio tutsi ha la particolarità di essere apertamente messo in discussione anche all’interno di circoli perfettamente rispettabili al di fuori dei social media e dei blog di teorie del complotto”, scrive. Come la BBC che nell’aprile 2014 ha trasmesso “Rwanda’s Untold Story“, un documentario dove ha presentato il conflitto come un doppio genocidio le cui vittime principali erano gli hutu e Kagame il responsabile dell’uccisione di Habyarimana.

Il libro di Melvern mostra anche l’impatto catastrofico che ebbero i modi fuorvianti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, sulla creazione del Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda (l’ICTR). Oltre a operare con un budget e uno staff inadeguati, la restrizione della sua giurisdizione all’anno 1994 gli ha impedito di poter fare riferimento a documenti chiave, come prove di acquisti di armi prima del 1994 e documenti del governo che dimostrano che il razzismo del regime era diventato sempre più virulento dal 1990.

Nonostante tutto, questa tragedia, se può essere comparata ad altre crisi avvenute nel continente africano alla fine del XX secolo, si caratterizza in maniera indelebile per un elemento specifico, che impedisce ogni tipo di discredito o di banalizzazione: la perpetuazione di un “genocidio”. Una parola che non descrive approssimativamente un gran numero di morti, ma traduce un piano di sterminio sistematico, basato su un’ideologia delle razze.


Fonti:
Rapporto dell’Unione Africana: Rwanda: Le Génocide qu’on aurait pu stopper
Discover Magazine: Tutsi Probably Differ Genetically from the Hutu, 30/08/2011
The Africa Report: Genocide in Rwanda: The mechanisms of denial – Laetitia Tran Ngoc, 12/03/2020
The Guardian: The west did intervene in Rwanda, on the wrong side – Linda Melvern, 05/042004
Wikipedia France: Négation du génocide des Tutsi au Rwanda
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien et Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique