Anatomia di un genocidio 5 – La Prima e la Seconda Repubblica

Sotto la Prima Repubblica, la parola “democrazia” appariva in tutti i discorsi. Detta in kinyarwanda “demokarasi“, qualcuno ha chiamato così anche i figli. Veniva celebrata il 28 gennaio, giorno della proclamazione d’indipendenza. Ma la Repubblica rwandese è nata dalle violenze razziali della Rivoluzione, con la generalizzazione che riteneva tutti i tutsi colpevoli di dominazione e sfruttamento, creando una parte di cittadini senza diritti civili. Kayibanda, leader di questa rivoluzione, con l’obbiettivo di restituire il Paese ai suoi proprietari, ha sempre considerato i tutsi come invasori. La democrazia, iniziata con la Rivoluzione sociale, non fece altro che invertire il discorso hamita: dallo stato di “razza superiore” i tutsi passarono a minoranza conquistatrice. La separazione etnica, segnata dalla vecchia disuguaglianza, cambiò solo aspetto.

Nonostante sia stata paragonata al 1789, la Rivoluzione Francese abolì gli ordini sociali, mentre in Rwanda li rafforzò, cambiandoli di segno. Vennero ufficializzate le doppie equazioni antagoniste: feudale=tutsi=razza hamita, popolo=hutu=bantu. L’ordine razziale degli anni ’30 fu mantenuto con un semplice cambio di valori a vantaggio del popolo maggioritario.

Nel gennaio 1963 il presidente dichiarò che non avrebbe mai permesso dei sabotaggi alla democrazia da parte di altri partiti. In seguito si augurò una maggioranza “travolgente”, al fine di non veder proliferare partiti che avrebbero distratto il popolo. La via verso il regime a partito unico, veniva spianata per poter stringere il fronte hutu, una logica di unanimismo etnico che si sarebbe ritrovata fino al 1994.

 

Coltivazione di caffé

 

Ben presto i rifugiati tutsi organizzarono una lotta armata, ma mal equipaggiati e senza addestramento, non rappresentarono mai un pericolo. Per contro Kayibanda rispose ad ogni attacco con vessazioni contro i tutsi residenti, al fine di compattare il partito. Nel Natale 1963 un attacco da parte di qualche centinaio di rifugiati tutsi provenienti dal Burundi, fermato a sud di Kigali da soldati belgi, divenne l’occasione per il regime di resuscitare il Parmehutu, reso fragile da rivalità interne, organizzando nel 1964 una caccia ai tutsi, demonizzandoli collettivamente. Nel nome dell’autodifesa popolare e del furore collettivo, con l’appoggio del governo furono trucidati più di diecimila tutsi. Gli appartenenti ai partiti tutsi come l’UNAR e tutti i tutsi influenti, vennero giustiziati.

La carneficina venne condannata sulle maggiori testate internazionali, Bertrand Russel denunciò i massacri come i più orribili dopo lo sterminio degli ebrei, anche Radio Vaticano fece riferimento all’Olocausto. Di fronte al mondo, il governo di Kigali negò ogni responsabilità, proiettando i crimini su una reazione spontanea della popolazione e allo stesso tempo giustificandola per il cattivo comportamento dei tutsi, incolpandoli di aver perfezionato le loro barbarie dopo essersi rifugiati all’estero, in attesa di ristabilire una nuova dominazione. Tesi sostenuta dal giornale cattolico Kinyamateka e dalla presidente del parlamento durante un’intervista a Parigi. Nessuno ci vide un’avvisaglia del genocidio del 1994, neppure quando nel marzo 1964, in un discorso Kayibanda minacciò di sterminare tutta la razza tutsi, in caso di un altro attacco dei rifugiati.

Il massacro divise la Chiesa, mentre sul campo diversi missionari, con azioni coraggiose, aiutarono la gente in pericolo, le gerarchie presero le difese di Kayibanda. Monsignor Parraudin, svizzero, arcivescovo di Kigali, contestò chi aveva sostenuto la responsabilità del governo nei massacri, accusò i giornali di miopia, per non essersi accorti che il regime cattolico di Kigali era vittima della propaganda comunista e ottenne su un periodico missionario, un’intera pagina per confutare “la mostruosità delle calunnie”. Negare e giustificare ricorrendo all’alibi etnico, furono le stesse argomentazioni del 1994. Da allora venne creato un vocabolario di legittimazione: “i complici”, “il nemico interno”, la “collera”, il “furore” e la “spontaneità” popolare. Il clima era tale che tutto ciò che all’interno del Rwanda era nato tutsi, veniva automaticamente considerato complice. Non erano più dei cittadini, ma ostaggi e vennero chiamati inyenzi (scarafaggi) termine usato fino al 1994.

 

Catena dei monti Virunga (Parco Nazionale dei Vulcani)

 

Dopo la strage il Parmehutu divenne un partito unico di fatto, avendo annegato nel sangue le uniche formazioni rivali. L’episodio ebbe come conseguenza quella di proibire tutta l’attività politica discordante, anche all’interno del Parmehutu stesso. Kayibanda approfittò dell’esodo e del massacro, per piazzare in tutti i settori dei militanti fedeli, sia a Kigali che nelle province. Il capo dello Stato era presidente del partito, mentre i ministri occupavano il segretariato generale. Si sbarazzò di tutti gli oppositori e nel 1969 venne rieletto per il suo quarto mandato con il 99% dei voti diventando oggetto di un culto della personalità ossessionante. Una canzone popolare lo rappresentò come un nuovo messia, dove Dio gli aveva detto di fondare un partito per liberare gli hutu dalla schiavitù, come Mosé. Iscritto in un piano divino nel quale il lavoro per la liberazione non era ancora terminato, perché c’era il rischio di tornare schiavi.

Nel luglio 1972, in occasione del decimo anniversario dell’indipendenza, venne riproposta la propaganda antitutsi. Kayibanda preferì ricordare la natura dell’antica dominazione tutsi, sottolineando che la Rivoluzione sociale fu molto più importante della decolonizzazione dagli europei. Per l’occasione, l’ufficio d’informazione della presidenza scrisse che il potere tutsi fu all’origine di tutti i mali che gli hutu avevano sopportato perché, come i nazisti, si credevano una razza superiore, che era nata per comandare e succhiare il sangue degli hutu. Nonostante fossero trascorsi ormai 13 anni dalla Rivoluzione, la propaganda diffuse la voce che i tutsi avevano ancora una posizione predominante all’interno dell’insegnamento, mascherando la realtà con cifre contraffatte e in un discorso ufficiale, nell’ottobre 1972 il presidente diede il via a un nuovo rilancio della Rivoluzione.

Così all’inizio del 1973, un’organizzazione chiamata: “Comité du salut” espulse sistematicamente tutti i tutsi dalle scuole, dagli impieghi pubblici e privati, senza risparmiare le chiese e i seminari, arrestandone a migliaia e rinchiudendoli nei campi di prigionia. La persecuzione fu estesa anche ai bambini figli di madre tutsi e padre hutu, che vennero chiamati “ibridi” o “hutsi“. La crisi fece centinaia di vittime, compreso hutu accusati di intrattenere rapporti troppo stretti con i tutsi. La complicità del potere fu incontestabile, non poteva essere frutto di una pretesa collera popolare, né una provocazione degli inyenzi, come nel 1963. Fu una persecuzione meditata e compiuta a freddo, rivelando la supremazia di un razzismo di Stato.

 

Il presidente Juvénal Habyarimana

 

Il 5 luglio 1973, il ministro della Guardia nazionale e della Polizia, il General-maggiore Juvénal Habyarimana, rovesciò il presidente Kayibanda con un colpo di stato. Il giorno seguente rimproverò il predecessore di aver dimenticato il senso dell’unità nazionale e due anni dopo sciolse il Parmehutu. Fece redigere una costituzione, promulgata nel 1978, dove all’art 16 garantiva l’uguaglianza a tutti i cittadini davanti alla legge, senza distinzione alcuna, di razza, di colore, di origine, di sesso, di religione, di opinione o di posizione sociale. Al nuovo partito, il MRND “Mouvement Révolutionnaire National pour le Développement“, il compito di “unire, stimolare e intensificare gli sforzi del popolo rwandese in vista della realizzazione del suo sviluppo all’interno della pace e dell’unità nazionale”.

L’arrivo al potere di Habyarimana con la Seconda Repubblica, che segnò la Rivoluzione morale, fu salutata all’interno e all’esterno come simbolo di apertura. Pareva un uomo ragionevole che girava pagina dal settarismo etnico di Kayibanda. L’impressione fu quella che il Paese potesse uscire dal ciclo infernale di violenze che lo martoriavano da più di vent’anni. In effetti dal 1973 al 1990 non ci furono massacri di tutsi in Rwanda. In un discorso ufficiale vantò lo sviluppo, occultando ogni forma di divisione etnica con la formula che hutu, tutsi e twa erano solo i nomi, ma il cognome era “rwandese”.

Tuttavia il controllo della popolazione divenne più serrato e il MRND come partito unico, si confuse integralmente con le strutture dello Stato. Il territorio fu diviso in modo piramidale in prefetture, comuni, settori e cellule. I borgomastri vennero nominati direttamente dal presidente. Tutti i rwandesi erano per definizione “militanti del Movimento”, secondo l’art 7 della costituzione. Ogni settimana dovevano partecipare alle sessioni di propaganda, chiamate “animazioni” dove con canti e balli promuovevano il lavoro agricolo, il MRND e il presidente.

 

Paesaggi rwandesi

 

In questo “Stato modello” le relazioni di cooperazione si moltiplicarono: nella metà degli anni ottanta erano in corso un centinaio di progetti, che toccavano quasi la totalità dei 143 comuni. Nel 1988 si contavano circa 500 cooperanti e 300 volontari operanti nel Paese, la maggior parte provenienti da ambienti cristiani. Ci furono gemellaggi come quello con i democristiani del Land tedesco Renania-Palatinato. Tutto era focalizzato sullo sviluppo, l’assemblea nazionale del MRND si chiamava: “Conseil national du développement“. Il supporto ideologico proveniva dalla Chiesa, con un discorso che mescolava cristianesimo sociale e moralismo.

L’intimità del legame fra Stato e Chiesa si prolungò, come ai tempi della colonizzazione e con Kayibanda. Alla fine degli anni 1980 il Rwanda contava 60% cattolici e 30% protestanti, quindi 90% cristiani con 1% islamico. 109 parrocchie vigilavano sul Paese altrettanto bene che il partito unico. Negli anni 1980 l’arcivescovo di Kigali era il confessore della famiglia presidenziale e membro del comitato centrale del MRND. Le élites rwandesi di quegli anni, impregnate di uno spirito moralista e paternalista, rafforzarono una chiusura culturale: le parole chiave erano famiglia, lavoro fatto bene, disciplina e valori rurali.

Tuttavia, nonostante la cultura politica di una coscienza pulita, oltre il buonismo, l’essenza del razzismo, ereditato dall’epoca coloniale e coltivato durante la Prima Repubblica, era stata preservata, se non rafforzata. La discriminazione continuò sotto una forma metodica e ufficiosa, attraverso la politica delle quote e l’approccio al problema dei rifugiati. In effetti Habyarimana non modificò lo statuto speciale dei tutsi. Il Manifesto dei Bahutu aveva chiesto di mantenere l’etnia nelle carte d’identità, per permettere di effettuare un controllo sociale sugli arruolamenti, che con Kayibanda erano stati fissati all’85% per gli hutu, 14% ai tutsi, 1% ai twa e nulla fu rimosso.

Un mese dopo essere salito al potere, Habyarimana disse che quella politica di “equilibrio” avrebbe dovuto continuare, come esigenza di “giustizia sociale”. Una “giustizia sociale” dove il merito veniva sostituito dall’importanza numerica del gruppo etnico a cui apparteneva. Allo stesso modo si conosceva la percentuale delle origini regionali ed etniche, del personale di qualunque ministero o qualsiasi impresa pubblica o privata.

 

Il Paese delle mille colline

 

Dietro una facciata di trasparenza, si celava un profondo segreto, con regole non scritte, dove i tutsi erano sempre visti come stranieri. E si doveva evitare che gli occidentali accedessero a tali informazioni. Fu in materia di educazione che la Rivoluzione sociale si manifestò maggiormente nella Seconda Repubblica. Una ossessione lancinante, dovuta a un complesso di inferiorità, voleva che gli hutu soffrissero di un ritardo ereditato dalla monarchia e dalla colonizzazione, incomprensibile dopo oltre 20 anni dalla Rivoluzione. L’appartenenza etnica di ogni bambino venne seguita durante tutto il periodo di scolarità, tanto che un rapporto del 1985 mostrò l’evoluzione delle proporzioni etniche delle scuole secondarie e superiori sin dal 1962, a prova che le schede vennero ben conservate.

In più si prese nota (con disappunto) che tutti gli anni il numero degli allievi tutsi ammessi alle scuole superiori, oltrepassavano il numero concesso. Così venne applicato un complicato indice correttivo che poteva offrire molteplici manipolazioni. Infatti la pubblicazione dei risultati del concorso di chi entrava alle scuole superiori era vietata. Lo stesso indice si applicò in ambito regionale, favorendo i bambini che provenivano dalle province del nord, luogo natale di Habyarimana e anche l’università fu spostata da Butare (ex Astrida) dove la presenza di tutsi era maggiore (18,2%) a Ruhengeri, città del presidente, una provincia prevalentemente hutu dove i tutsi erano lo 0,65%.

Con l’ascesa di Habyarimana molti rifugiati tutsi avevano sperato di poter rientrare, ma un appello al ritorno non fu mai pronunciato. Per contro disse che era stato un loro errore fuggire, mentre i beni e le terre che avevano lasciato erano stati presi da altri, imputandone la colpa al regime precedente. Nel 1975 il ministro dell’Interno diede a tutti i borgomastri l’istruzione di legalizzare il diritto di proprietà dei beni lasciati dai rifugiati, rendendo così impossibile il loro ritorno. Nell’ottobre 1982 il presidente dell’Uganda, Obote, scacciò oltre confine 25.000 rifugiati tutsi con le loro mandrie stimate in 70.000 capi, che si installarono nel nordest. In violazione dei diritti internazionali furono rispediti in Uganda. Pur riconoscendo che erano rifugiati rwandesi, Habyarimana spiegò che avevano trascorso troppo tempo all’estero e che non c’era più posto nel paese dei loro avi, aggiungendo che la politica di unità non si poteva applicare ai rifugiati, in quanto fra loro c’era ancora gente che continuava a nutrire sentimenti di vendetta.

 

Kigali

 

Nel 1990 un osservatore europeo disse che il conflitto hutu-tutsi era largamente sorpassato. Ma malgrado la ripetizione dell’affermazione “trasparenza”, continuavano a regnare un mucchio di “non detto” e la storiografia delle migrazioni e delle razze rimaneva onnipresente. Tutta una generazione aveva appreso a scuola che i tutsi erano degli stranieri, arrivati dall’Abissinia, colorati da episodi di malvagità da parte loro. Una generazione cresciuta con un cliché di odio, senza che nessuno avesse trovato qualcosa da ridire.

Un’altra divisione interna fu messa a punto da Habyarimana: tutti gli uomini influenti del sud e del centro del Paese furono arrestati o assassinati, mettendo il potere economico e politico nelle mani di uomini della sua regione, il nord, che lo tennero fino al 1994. Nel passato la regione a nord fu l’ultima ad essere conquistata dalla monarchia e restò intatta dalla “contaminazione hamita”, per cui si consideravano degli hutu veri, puri bantu. Il pensiero dei dirigenti dell’epoca divenne esplicito quando, durante il XX anniversario dell’indipendenza del 1982, l’eroe belga della Rivoluzione sociale, il colonello Logiest venne decorato, ma soprattutto nella riforma scolastica del 1973, dove il programma di storia riprese in modo caricaturale lo stereotipo dei miti razziali, ereditati dagli anni 1950 che continuò fino al 1994. La continuità ideologica fu totale lungo tutta una generazione.

 

Colline di Ruziza

 

Durante le due Repubbliche, la demonizzazione dei tutsi facilitò la cristallizzazione di una vera dittatura. Prima con Kayibanda, poi con Habyarimana, Il governo della “maggioranza” (Rubanda nyamwinshi) garantì attorno ai due presidenti e le rispettive élites politiche, una maggioranza automatica del 90%, portando il clientelismo al limite di una appartenenza etnica ereditaria. Il potere  potè avere una specie di elettorato perenne, a fondamento di una oligarchia, forte della sua coscienza maggioritaria.

Quando Kayibanda si trovò ad affrontare delle difficoltà, scosse gli slogan fondatori della Repubblica, ovvero il potere hutu. Allo stesso modo fece Habyarimana quando il FPR (Front Patriotic Rwandaise) attaccò nell’ottobre 1990 e l’opposizione interna alzò la testa. Ma ciò avrebbe potuto funzionare solo se la coscienza della divisione etnica fosse rimasta fortemente interiorizzata. A prova che il regime della Seconda Repubblica, dietro a delle apparenze impeccabili, ritenne sempre basilare questa differenza.

Il mantenimento della divisione avrebbe potuto non essere ineluttabile, il crollo del potere monarchico avrebbe potuto portare, almeno qualche anno dopo la Rivoluzione, all’abolizione della marcatura razziale, ormai proveniente da un’altra epoca. Ma la Storia non si lascia mai programmare dalla sorte e può rivelare delle sorprese, come avvenuto nell’Africa del Sud nello stesso periodo. Infatti una rottura tragica e definitiva intervenì nel destino di questo Paese apparentemente “senza storia”.


Fonti:
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien et Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique
Université Nationale du Rwanda: Histoire du Rwanda – Des origines a la fin du XX siecle