Anatomia di un genocidio 7 – L’assassinio della speranza

Non riuscendo a raccogliere tutti gli hutu nel CDR (Coalition pour la Défense de la République) gli estremisti si orientarono verso la strategia chiamata Hutu Power, che racchiudeva le ideologie più radicali. Progressivamente i partiti di opposizione si divisero al loro interno fra coloro favorevoli a un accordo e quelli che ne erano contrari. Persino nel PSD, la sinistra socialdemocratica, si videro apparire correnti dell’Hutu Power, che voleva destabilizzare la democratizzazione in corso. Una linea che offrì un nuovo pretesto al gruppo politico-militare al comando per strumentalizzare l’odio razziale, al fine di mantenersi al potere.

Il sabotaggio contro la pace, iniziato in concomitanza con l’inizio degli accordi di Arusha nel luglio 1992, fu rilanciato l’anno seguente sulla scia della nuova ondata di disordini nel nordest, che ebbe come conseguenza l’esodo di centinaia di migliaia di persone verso sud, facilitando così un rilancio della campagna contro gli accordi con il Front Patriotique Rwandais e l’inasprimento della propaganda antitutsi. Nel febbraio 1993, Ferdinand Nahimana, professore universitario vicino al presidente (ex direttore di Radio Rwanda e co-fondatore di radio RTML) diffuse una nota sulla necessità di un’autodifesa di civili in appoggio all’esercito, indirizzandosi a universitari, funzionari, religiosi e militanti. Si trattava di difendere una Repubblica pura e dura sia contro il FPR, che contro gli oppositori interni.

Kangura nella sua propaganda scrisse che la debolezza dei tutsi consisteva nel fatto che si incrociavano fra loro e per questo sarebbero scomparsi. Si allacciò ad un loro primordiale dominio, definendo la guerra fra le due etnie datata di oltre 400 anni, continuando in una logica dove gli estremisti erano per definizione gli unici rappresentanti degli hutu. In un discorso simile alle estreme destre europee, quando dicono ciò che suppongono essere pensato dal popolo.

 

La solitudine di un silverback (Vulcanoes National Park)

 

Malgrado ciò, dopo un anno di intensi dibattiti, il 4 agosto 1993 ad Arusha, in Tanzania, il governo rwandese firmò un accordo di pace con l’FPR. Il Paese respirò, perché l’accordo venne visto come la fine della guerra civile e un ingresso nella democrazia. Nelle negoziazioni furono implicati direttamente la Tanzania, il Burundi, l’Uganda e lo Zaire, mentre Francia, Belgio e USA le seguirono come osservatori. Attraverso i loro ambasciatori, il lavori furono accompagnati anche da Canada, Gran Bretagna, Paesi Bassi, Unione Africana e ONU. Dai contenuti le parti si sarebbero impegnate a instaurare uno Stato di diritto in Rwanda, cancellando ogni discriminazione etnica o regionale e avrebbero messo fine alla politica delle quote. La prima conseguenza fu il rimpatrio dei rifugiati, con molte famiglie che si ritrovarono dopo trent’anni.

Ma i conoscitori del Paese nutrirono seri dubbi. Habyarimana e il suo entourage avevano sempre cercato di sabotare il processo di pace e il MRND con la CDR fecero di tutto per impedirne l’applicazione. Non stupì quando Kangura pubblicò un comunicato della CDR che rifutò l’accordo “perché avrebbe portato la guerra civile nel Paese, con il rischio che un gruppo minoritario potesse impossessarsi del potere, pregiudicando le regole democratiche delle quote per l’85% della popolazione”. Tornarono i caposaldi della Rivoluzione.

Nonostante tutto, nel dicembre 1993 si realizzarono due punti dell’accordo: l’arrivo a Kigali dei caschi blu con la “Mission des Nations Unies pour l’Assistance au Rwanda” (MINUAR) e dei rappresentanti del FPR. Ma la situazione stava degenerando giornalmente, accellerata dai contrasti interni ai partiti, fra i partigiani del compromesso e i contrari, in vista delle nomine per l’Assemblea nazionale di transizione, il capo del governo e i ministri. In un clima dove l’assassinio del presidente burundese, il 21 ottobre precedente, aprendo un’ondata di violenze in quel Paese, aveva alzato la tensione e il contesto burundese venne sfruttato dai partigiani dell’Hutu Power in Rwanda.

 

Paesaggi rwandesi

 

La stampa estremista fra l’agosto 1993 e l’aprile 1994, fu la dimostrazione che i suoi vari organi avevano fatto di tutto per sabotare gli accordi di pace, appellandosi al “popolo” per riprendere in mano la situazione. Agli inizi 1994 iniziò un clima di terrore quando Kangura svelò un progetto di “piano finale”, accompagnato da chiare minacce contro i tutsi interni, come Kayibanda nel 1964. Gli estremisti dell’Hutu Power trovarono altri capri espiatori nei soldati belgi della MINUAR, accusandoli di parteggiare per i tutsi. Il loro comandante, il generale canadese Roméo Dallaire, venne descritto in modo ignobile come un burattino delle prostitute tutsi. Di fatto gli attacchi all’ONU cercavano anche di proteggersi contro eventuali procedimenti giudiziari, in seguito ai massacri del 1990, con l’obiettivo di coinvolgere tutta la popolazione.

Fra luglio 1993 e luglio 1994 gli estremisti poterono contare su un nuovo media: la “Radio-Télévision Libre des Milles collines” (RTLM). In un Paese dove la maggioranza della popolazione non sapeva leggere, la radio si rivelò un potente mezzo di diffusione delle idee. Venendo finanziata principalmente dalla famiglia Habyarimana, da suoi fidi, ufficiali, imprenditori e leaders politici del nord, dispose di notevoli mezzi economici. L’azionista principale era un uomo d’affari legato in via parentale con la famiglia del presidente.

Privando Radio Rwanda dei migliori giornalisti, riunì velocemente una redazione di qualità. Tre di loro erano cresciuti all’interno dell’ORINFOR (Office Rwandais de l’Information) la cui esperienza si dimostrò utile per iniziare un nuovo modello di “radio rurale”, con toni interattivi, stile e vocabolario “seducenti”. Trasmettendo buona musica ed intrattenendo in maniera simpatica, in breve tutti l’ascoltarono. I giornalisti non si presentarono come ideologi, ma gente semplice che discuteva, preoccupati soprattutto di dire la “verità” ai paesani nei confronti della guerra ai tutsi e al tradimento dei politici. Nel marzo 1994 coprì la totalità del Paese, mentre Radio Muhabura, l’organo del FPR, raggiungeva solo una zona ristretta, trasmettendo poche ore al giorno. Diffondeva messaggi ostili al governo senza mai ricorrere a discorsi di odio etnico.

 

Kigali Genocide Memorial

 

Fin da subito un giornalista dell’opposizione la chiamò radio Habyarimana e scrisse che incitava all’odio tramite falsità con lo scopo di dividere hutu e tutsi. Lamentandosi inoltre di quanto fosse triste vedere persone che avevano scelto di fare i giornalisti, disonorare la professione seminando zizzania, mettendosi al servizio di criminali, venendo manipolati attraverso il denaro. Nel dicembre 1993, appena arrivato a Kigali il battaglione del FPR, il caporedattore di RTLM mise in guardia coloro che pensavano la guerra fosse finita, in quanto “la collera” non era ancora spenta. La parola “collera” fu una di quelle che i media estremisti si impegnarono a mantenere nella propaganda. E per mettere definitivamente fine alla speranza, RTLM cominciò a moltiplicare le pseudo-rivelazioni allarmiste, come un piano per assassinare Habyarimana da parte dei tutsi e di hutu traditori.

A fine 1993, un funzionario del ministero dell’Informazione, fece notare che RTLM metteva sistematicamente in relazione il FPR con i tutsi interni e gli hutu dell’opposizione, rendendo i tutsi sempre responsabili di tutti i mali, tanto che il ministro dell’Informazione, nel febbraio 1994, indirizzò alla radio una diffida, mettendola severamente in guardia per le sue responsabilità. L’azzardo di questo uomo politico gli costò la vita, venendo successivamente assassinato dalla Guardia presidenziale.

 

Paesaggi rwandesi

 

Nei mesi che precedettero il genocidio, i giornalisti estremisti e radio RTLM lavorarono fianco a fianco per impedire la nascita del governo di transizione, come stabilito dagli accordi di Arusha, fomentando un vero e proprio odio razzista. E si vide che la propaganda di RTLM assieme a quella in mano a Kangura, non si limitava più a militanti e giornalisti, ma proveniva apertamente da dirigenti di rango superiore, traducendo senza mezzi termini la posizione degli ambienti politici legati al MRND e alla presidenza, tanto che con il senno di poi, ci si potrebbe chiedere come mai gli osservatori internazionali non se ne fossero accorti.

La logica dell’odio divenne sempre più chiara, da un lato la teorizzazione razziale ricorrente, dall’altro la raccapricciante profezia che annunciava fiumi di sangue. Prese forma l’esaltazione della differenza razziale, ricordando la Rivoluzione sociale. A fine novembre, un giornalista di RTLM gioì alle parole di Madame Agathe Uwilingiymana, Primo ministro del governo di transizione, quando disse che un hutu era sempre un hutu e che un tutsi rimaneva un tutsi. Lo stesso giornalista si lanciò in considerazioni che distinguevano le due etnie, concludendo che la differenza era come fra un bianco e un nero.

Seguirono dibattiti nei quali alcuni hutu del nord, forti della poca presenza tutsi nella regione, dichiararono che l’area rappresentava il Rwanda originario, prima della “conquista” tutsi. Una storia locale, ipotizzata nel nome della purezza razziale, divenne la chiave per tutta la Storia politica e sociale del Rwanda intero. Il nord del Paese era il nucleo geografico dell’akazu di Madame Habyarimana e il cuore del progetto Hutu Power, per cui l’ideologia razziale venne richiamata per rinforzare il regime.

 

Piantagione di tè

 

Un altro segno di preparazione al peggio, fu il ricorso a rivelazioni sotto forma di profezie catastrofiche. Kangura annunciò che gli oppositori dell’accordo di Arusha avrebbero attaccato i caschi blu per ucciderli e costringerli a partire. Sarebbero stati versarti fiumi di sangue e i tutsi, assieme agli hutu stupidi, sterminati. Affermazioni che nei primi mesi del 1994 si fecero sempre più precise, come se i loro autori avessero delle informazioni dirette, provenienti da qualcuno che stava pianificando l’apocalisse. Infatti nel febbraio 1994 Kangura scrisse che la guerra sarebbe iniziata il primo di aprile.

Giorni prima del macello, un giornalista di RTLM annunciò che una “piccola cosa” (akantu) avrebbe fatto iniziare una lotta finale “che non avrebbe risparmiato nessuno” (simusiga). La mobilitazione del “popolo”, “la vera armata” che non lascerà scappare alcun nemico, al costo di un bagno di sangue, venne evocata da RTLM con una soddisfazione che il giornalista non riuscì a contenere.

Il clima mantenuto dai media radicali mescolava un’esuberanza gioiosa, come nell’atmosfera quasi festiva della caccia ai tutsi, a un’espressione di angoscia che esprimeva l’impressione di trovarsi in un vicolo cieco. Una propaganda che utilizzò il sentimento di una situazione senza uscita, ovvero caos, nel quale il Paese sarebbe rimasto intrappolato e non poteva far altro che uscirne nella maniera più folle. Già riscontrato sia in Germania che in Turchia con gli armeni: ogni volta la nazione si trovò davanti a grandi fallimenti, visti come un’ingiustizia in rapporto alle speranze di modernità e di grandezza. Secondo Mark Levene, il genocidio sarebbe un “atto dei regimi disperati”.

L’attribuzione delle responsabilità al FPR, preannunciava già la giustificazione e la negazione della realtà nei nostagici di Habyarimana nel post-genocidio. Ma la campagna per riprendere la guerra fu concepita e lanciata, da parte dei dichiarati oppositori degli accordi di Arusha, i fanatici del potere hutu preoccupati per il loro futuro politico, molte settimane e mesi prima dell’attacco all’aereo presidenziale. Attacco che non fu commesso dal FPR, in contraddizione a ciò che venne pubblicato in Europa. Fu anche questo un contrario utile agli estremisti, i quali volevano che la responsabilità dell’attentato venisse attribuita ai tutsi, ultima espressione della propaganda “en miroir”.

 


Fonti:
THE MUTSINZI REPORT
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien e Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique
Université Nationale du Rwanda: Histoire du Rwanda – Des origines a la fin du XX siecle