Congo 6 – Ancora guerra

Nella primavera del 1940 l’esercito tedesco invase il Belgio, il governo scappò a Londra schierandosi con gli alleati, mentre re Leopoldo III restò in patria firmando la resa ai nazisti (atto che a fine guerra gli costò la corona). Per diversi mesi il potere coloniale rimase in bilico sul da farsi con pareri contrastanti: se stare con il re e accettare il nuovo ordine fascista o con il governo in esilio. Il potente vescovo del Katanga si era schierato con il re e molti industriali che nutrivano simpatie per l’estrema destra, volevano continuare a fornire la Germania. A dissipare ogni dubbio, assumendo pieni poteri, ci pensò il Governatore Generale Pierre Ryckmans: il Congo Belga unanimamente si sarebbe schierato con gli alleati.

Lo stesso dilemma avvenne nelle colonie francesi dove molte si schierarono con il regime collaborazionista di Vichy, mentre alcune scelsero di unirsi alla Francia libera di De Gaulle. Fu così che il conflitto si estese anche in Africa, oltre al fatto che, pur non essendoci più colonie tedesche, alcuni Paesi erano sotto l’influenza del nazionalsocialismo, con l’Italia che possedeva la Libia e gran parte del Corno d’Africa.

 

L’Africa coloniale nel 1939

 

La Libia era una minaccia per l’Egitto e le colonie italiane del Corno d’Africa lo erano per i possedimenti britannici del Kenya e del Sudan, così Churchill chiese supporto al governo belga in esilio e nel febbraio 1941 l’undicesimo battaglione della Force Publique, composto da circa tremila uomini, 60 ufficiali belgi, e duemila portatori, comandati dal generale Auguste Gilliaert, andò a ingrossare le forze britanniche. Mentre gli inglesi attaccarono da sud, liberando anche la costa eritrea e somala per rendere sicura la navigazione nel mar Rosso, attraverso il Sudan belgi e congolesi invasero l’Abissinia da ovest, conquistando alcune piccole cittadine prima di arrivare a Saio, città di guarnigione italiana, assediandola.

Dopo la resa del Governatore d’Eritrea e rimasti isolati per i rifornimenti, l’8 giugno 1941 gli italiani demoralizzati si arresero. Nella battaglia morirono 462 congolesi e tre volte tanto italiani. Vennero fatti prigionieri nove generali (fra cui Pietro Gazzera, viceré d’Etiopia) 370 ufficiali, 2.574 soldati italiani e circa 2.000 soldati africani.

Ma il trofeo più grosso per la Force Publique fu rappresentato dal bottino di guerra che comprendeva diciotto cannoni, cinquemila bombe, quattro mortai, duecento mitragliatrici, trecentotrenta pistole, settemilaseicento fucili, quindicimila granate e due milioni di cartucce. Oltre a venti tonnellate di materiale radio con tre stazioni radio complete, venti motociclette, venti automobili, due carroarmati, duecentocinquanta camion e soprattutto, per quelle zone impervie, cinquecento muli.

 

Camion presi alle truppe italiane di Saio
Camion catturati alle truppe italiane di Saio.

 

Venne considerata dai belgi la più grande vittoria contro il fascismo, ma soprattutto per i congolesi, l’aver catturato nove generali e alcune migliaia di militari bianchi, fece un’enorme impressione e Saio divenne un simbolo. Inoltre per la prima volta nella Storia, un Paese africano fu decolonizzato con l’aiuto di africani.

Lo stesso generale Gilliaert nel 1943 guidò 2.000 uomini della Force Publique da Lagos (in Nigeria) attraversando il Sahara per quasi 7.000 chilometri, fino al Cairo. Ci impiegarono tre mesi per poi finalmente unirsi a Montgomery contro l’Africa Corp di Rommel. Allo stesso tempo un altro battaglione congolese raggiunse l’Egitto circumnavigando l’Africa fino al capo di Buona Speranza in Sudafrica.

Un altro contributo il Congo lo diede con un ospedale da campo: nel 1943 fu creato the Tenth Belgian Congo Casualty Clearing Station (the 10th BCCCS) munito di due tende operatorie e una per radiografie, formato da ventitré belgi e trecento congolesi al servizio degli inglesi, che prestò assistenza medica a quasi 40.000 persone. Partirono inizialmente per la Somalia, poi si fermarono in Madagascar per proseguire il soccorso a Ceylon, in India e nella Birmania occupata dai giapponesi, dove si fermarono fino alla resa del Giappone.

 

Missioni del Congo Belga durante la II guerra mondiale
Missioni del Congo Belga durante la II guerra mondiale

 

Con la massima riservatezza Edgar Sengier, direttore dell’Union Miniére, s’era premunito che le riserve di uranio non cadessero in mani sbagliate. Nel momento in cui la minaccia nazista si fece seria, poco prima della guerra, imbarcò 1250 tonnellate di uranio per New York e fece allagare la miniera di Shinkolobwe. Nel 1942, quando partì il progetto Manahattan, gli scienziati cercarono uranio di alta qualità, perché quello canadese che stavano usando era debole e con sorpresa si venne a sapere dell’uranio immagazzinato nel porto di New York.

Tramite Sengler ne seguirono trattative con il governo belga, che ricavò dall’operazione 2,5 miliardi di dollari, con i quali avrebbe potuto ricostruire il Paese, oltre all’accesso alla tecnologia nucleare. (Fu creato un centro di ricerca nelle Fiandre e realizzato un piccolo reattore a Kinshasa, il primo in Africa). Gli americani contribuirono anche con la costruzione di due grandi basi aeree, una a Kamina in Katanga e l’altra a Kitona sull’Atlantico..

La bomba di Hiroshima venne costruita con l’uranio del Katanga e fu l’inizio degli interessi che gli USA avrebbero successivamente nutrito nei confronti del Congo, passando per l’indipendenza fino alla fine della guerra fredda.

 

Durante la guerra pacchi con derrate alimentari venivano inviati in Europa. Nella fotografia il Governatore Pierre Ryckmans presenzia la prima spedizione.

 

Ma il periodo bellico ebbe forti ripercussioni nella colonia non solo per l’uranio. Dopo Perl Harbour i giapponesi conquistarono gran parte del sudest asiatico bloccando le importazioni di materie prime, che vennero compensate dal Sud America e dall’Africa, in buona parte dal Congo. Il rame per i bossoli e le bombe, il tungsteno per le armi anticarro, stagno e zinco per bronzo e ottone, impegnando fino allo stremo minatori e operai delle fabbriche. I lavoratori che nel 1939 erano 500.000 salirono fino a 800.000 nel 1943 raggiungendo il milione a fine guerra e il Congo, dopo il Sudafrica, diventò il Paese più industrializzato dell’Africa Sub-sahariana.

Anche l’entroterra fu coinvolto nell’ “effort de guerre“. Il numero di giorni nei quali si doveva lavorare per lo stato passò da 60 a 120, mettendo in difficoltà le piccole aziende agricole. Gli abitanti dei villaggi vennero costretti a raccogliere noci di palma e tornarono a incidere le liane della gomma. Nel 1939 il Congo produceva 1.142 tonnellate di gomma, mentre nel 1944 arrivò a 11.337 tonnellate.

 

Dipinto del massacro di Elisabethville dell’artista congolese Kanda Matulu, raffigurante la Chiesa e lo Stato coloniale (a destra) come mandanti.

 

L’intensità produttiva rivolta all’export non trovò l’equivalente nelle importazioni che scarseggiarono a causa della guerra. Mancavano stoffe e utensili, non si trovavano medicinali e i medici erano partiti, così i prezzi levitarono, le coperte per le freddi notti del Katanga anche del 700%. Furono inevitabili le proteste sociali, che si manifestarono attraverso gli scioperi durante il periodo bellico.

Nel dicembre 1941, a Elisabethville i lavoratori bianchi dell’Union Miniére protestarono contro il potere d’acquisto, la contestazione si estese anche ai lavoratori neri che chiedevano aumenti di stipendio. Dato che lo sciopero era ancora vietato per gli indigeni, il governo e il potere industriale reagirono come sempre: entrarono in azione i soldati ai quali venne ordinato di sparare. Ci furono 60 morti e un centinaio di feriti. Lo sciopero di Elisabethville diventò una pietra miliare, trattandosi della prima manifestazione di protesta urbana.

Nella primavera del 1944, nel Kivu ci fu una rivolta dei lavoratori delle miniere d’oro con tre bianchi uccisi. Venne repressa con centinaia di morti e il caporivolta impiccato. Nel 1945 a Leopoldville, migliaia di lavoratori e boy scioperarono, la notizia si diffuse alla città portuale di Matadi e gli scaricatori aderirono. Un numero imprecisato di uomini, donne e bambini fu ucciso per riportare l’ordine, molti morirono soffocati nelle prigioni ammassate e venne instaurato il coprifuoco.

Finita la guerra i congolesi si apettavano un cambiamento, soprattutto i veterani che avevano visto un altro mondo ed erano entrati in contatto con diversi popoli. I soldati della Force Publique di stanza in Nigeria furono trattati benissimo dagli inglesi e videro che nell’esercito britannico c’erano anche ufficiali africani. Gli allievi migliori li mandavano a studiare in Inghilterra. Niente di ciò esisteva in Congo, continuavano ad essere tenuti in posizione di inferiorità.

Ma molti sapevano bene che la colonia si era dimostrata più forte della metropoli: mentre il Belgio era stato calpestato, come nella I guerra, la Force Publique si era comportata meglio dell’armata belga e il governo in esilio era rimasto in piedi solo grazie alla sua colonia. Anche per la ricostruzione il Belgio avrebbe dovuto appoggiarsi al Congo. In pratica i belgi avevano più bisogno del Congo che i congolesi del Belgio.

 

Léopoldville 1950

 

Dopo Yalta il mondo assunse un nuovo ordine: gli USA erano refrattari a vedere le colonie in mano agli europei, mentre l’ideologia dell’URSS ne era contraria. Nel 1946 vennero create le Nazioni Unite e l’art 73 della carta fondativa, obbligò espressamente gli Stati a sviluppare l’autogoverno nei territori non autonomi (colonie).

Così nel 1949 il Belgio varò un piano di sviluppo decennale che avrebbe dovuto dare ai congolesi maggiori diritti ed eguaglianze, ma si dimostrò iniquo e non cambiò nulla. Al contrario molti belgi si trasferirono in Congo, incentivati dallo stesso piano e dall’industrializzazione del Paese. Famiglie intere che si chiusero in quartieri eleganti con i loro confort, senza contatti con la popolazione locale, a parte il boy e lo chauffeur. Così le differenze fra bianchi e neri, invece di avvicinarsi, si ampliarono.

Anche il piano decennale, che doveva risollevare l’agricoltura con tecniche e mezzi di produzione moderni, si dimostrò un fallimento. I contadini erano nella miseria durante la guerra e lo restarono anche dopo, tanto che il tasso di natalità si abbassò in modo preoccupante.

 

Jean Depara. l’atmosfera all’interno dell’Afro Negro Club, Leopoldville 1958 (Silver Bromide Print © Jean Depara Courtesy Galerie MAGNIN-A, Paris.)

 

Non ci furono ribellioni nel decennio post bellico, ma per fuggire dalla miseria dei villaggi i giovani si riversarono nelle città (Léopoldville che aveva 50.000 abitanti nel 1940 arrivò a trecentomila nel 1955) mentre nelle campagne rimasero gli anziani: secondo le stime nel 1947 il 40% della popolazione rurale era sopra i cinquant’anni. Una percentuale alta, considerando l’aspettativa di vita. Coloro che restavano non avevano studiato e subivano pazientemente il potere coloniale. La denutrizione era tale che la popolazione locale venne incoraggiata a mangiare bruchi, termiti e larve, fonti di proteine. Inesistente alcun tipo di organizzazione agricola, cooperativa o sindacato, quindi impossibile gettare le basi per una rivolta.

Le città offrirono ai giovani nuove opportunità, senz’altro migliori dell’indigenza che avevano lasciato. Le prime donne cominciarono a lavorare, a prendere la patente e crearono una nuova cultura urbana controllando il commercio al dettaglio, determinando il successo di abiti, musica, danze, dando forma a un nuovo stile di vita africano.

La sindacalizzazione fu vietata fino al 1946 quando vennero permesse le prime associazioni, piuttosto flebili in quanto venivano imposti consiglieri bianchi, così che alcuna ribellione potesse sfuggire a un funzionario o un capellano. Nel 1955 su circa 1.2 milioni di salariati, solo 6.160 erano iscritti al sindacato. I lavoratori vennero incentivati a partecipare ai consigli di fabbrica dove poter dire la propria, ma senza alcun potere. Furono solo esili tentativi di dare ascolto a lamentele e aspirazioni dei neri, rimandando il più possibile misure incisive.

 

Una famiglia di èvoluè, Léopoldville 1955

 

Sembrava tutto tranquillo e stava nascendo una nuova classe sociale che si faceva chiamare évolué. Li accomunava l’essere nati in città nel periodo interbellico e l’aver frequentato le scuole missionarie. Lavoravano per aziende europee e nutrivano rispetto per lo Stato coloniale, non avendo mai conosciuto un altro modello sociale.

Studiavano in biblioteca, leggevano il giornale, ascoltavano la radio, frequentavano cinema e teatri e leggevano libri, vivendo all’europea e innamorati di anything Belgian. Si ritrovavano nei cercles des évolués, circoli culturali per discutere di libri e per dibattere: nel 1950 in tutto il Congo ce n’erano circa trecento. Gli évolué erano arrampicatori sociali che avevano assorbito i frutti dell’opera colonizzatrice, sudditi leali e fedeli, ma che stavano maturando una coscienza politica. E fu proprio da questo ambiente che scoppiò la bomba.

 

Fonti:

Congo” di David Van Reybrouck – Feltrinelli Editore

“Storia del Congo” di Fortunato Taddei

“Wikipedia”