Cosa resta di un muro

Quando, una sera di 30 anni fa, agli esordi della mia esistenza da maggiorenne, vidi, in una a dire poco memorabile diretta TV, una folla prima assiepata ai punti di frontiera e poi abbarbicata direttamente sul Muro di Berlino, rimasi affascinato dallo spettacolo, ancor prima di comprenderne le implicazioni sul mondo. Soprattutto ricordo i volti delle persone, un’irripetibile mescolanza di incredulità e felicità. E i volti esterrefatti delle guardie di frontiera della DDR non erano da meno.

La storia di quel giorno è ormai piuttosto nota: i moti di protesta che, le settimane precedenti, portarono prima a suggerire la sostituzione di Erich Honecker alla guida del paese, poi a rilassare le restrizioni di viaggio, aprendo il confine con la Cecoslovacchia (che era stato chiuso perché considerato via di fuga preferenziale verso l’Occidente). Tuttavia, anche a seguito della massiccia manifestazione di Alexanderplatz del 4 Novembre, si cercò di mettere ulteriore mano alle regole che consentivano l’espatrio dei cittadini della DDR, specialmente verso la Germania Ovest. Tale regolamento, che apriva la possibilità di richiedere, senza attese, un visto di uscita permanente dal paese, fu approntato molto in fretta, tra varianti e proposte strane (tipo aprire il confine in un solo punto) e presentato quindi in una delle conferenze stampa più famose della storia. Qui, il portavoce del SED, Günter Schabowski, che era stato sommariamente informato, si sottopose alle domande dei giornalisti, tra cui quella dell’italiano Riccardo Ehrman, giornalista dell’ANSA che chiese quando il regolamento sarebbe entrato in vigore. La risposta di Schabowski (“a quanto ne so, immediatamente”) fu l’innesco di quella memorabile serata. In realtà il regolamento sarebbe dovuto entrare in vigore il giorno dopo, probabilmente consentendo una transizione ordinata al nuovo sistema. Ma non lo sapremo mai.

La memorabile conferenza stampa di Günther Schabowski, 9 Novembre 1989

Gli estratti della conferenza stampa furono trasmessi a ora di cena dalle TV ZDF e ARD, occidentali ma perfettamente visibili nella maggior parte della Germania Est. Nel giro di pochi minuti, migliaia di cittadini di Berlino Est si accalcarono su tutti i checkpoint di confine, chi a piedi, chi in bicicletta, chi sulla sua Trabant. Le guardie al confine, non istruite sul da farsi, ebbero i loro grattacapi a gestire una situazione che, solo pochi mesi prima, sarebbe stata risolta con l’uso della forza. Ma quella sera fu presto evidente che nessuno avrebbe sparato un solo colpo e la situazione presto si scelse di non gestirla. I confini furono aperti e i telegiornali di tutto il mondo fecero partire lo spettacolo.

Oggi Berlino è una bella città, votata all’innovazione e alla sperimentazione, che fa tesoro di una esperienza unica e terribile, senza cercare di nasconderla ma anzi, facendone un monito universale. Il percorso del muro è tuttora segnalato tra strade e marciapiedi, e vi sono alcuni punti, come in Bernauer Strasse, dove il Muro si infilò come un enorme coltello in mezzo alle palazzine. Lì oggi vi sono raccontate le storie di chi, quel 13 Agosto del 1961, si trovò a gestire una situazione allucinante di famiglie separate, di fughe dalle finestre, di cambiamento radicale della propria esistenza.

A Bernauer Strasse esiste un frammento della “striscia della morte”

Come qualcuno ha fatto giustamente notare, la Berlino Est presenta ancora oggi notevoli differenze rispetto alla sorella occidentale. Un giro nel quartiere di Lichtenberg e vi troverete ancora i palazzoni di appartamenti rigorosamente standardizzati, che circondano l’ex quartier generale della Stasi, oggi un interessante museo. Rimane anche il frammento più lungo del Muro, la East Side Gallery, dove i problemi del nostro tempo sono tradotti in arte di strada. E probabilmente, tra gli sguardi degli abitanti, vi sarà ancora qualcuno afflitto da Ostalgie, ovvero il “si stava meglio quando si stava peggio” in salsa berlinese, la manifestazione che l’essere umano è resiliente al cambiamento, e che ogni transizione, specie se improvvisa, necessita di tanto tempo per essere digerita.

Il tipico condominio di Berlino Est

E torniamo quindi a quell’incredibile notte. Riguardando i servizi di allora, molti commentavano che, grazie alla perestroika e alla glasnost di Gorbachev, le restrizioni alle libertà personali si fossero ammorbidite, e che avremmo forse avuto un comunismo diverso, ma nessuno ancora si immaginava che di lì a due anni tutto lo scacchiere europeo che incarnava il socialismo reale sarebbe stato abbattuto.

L’occidente aveva vinto la Guerra Fredda.

La gestione di questa vittoria, quarant’anni dopo, è ancora in corso. Sul nostro versante del mondo si pensò che, siccome si era vinto, allora il modello economico occidentale fosse quello “giusto”, e che l’equilibrio tra libero mercato e stato sociale, tutto sommato, poteva tranquillamente sbilanciarsi verso il primo. E abbiamo avuto le bolle finanziarie, Enron e Lehman Brothers, Argentine in default, globalizzazioni nocive. Insomma, è ormai anni che si dibatte su quale debba essere il giusto compromesso, se esista davvero la famosa “terza via”. Non abbiamo ancora una risposta (o tutti hanno la propria), sta di fatto che la storia del Muro di Berlino insegna, ancora una volta e a chi vuol darle ascolto, che i muri non sono fatti per durare (o meglio, funzionare) a lungo. Ma la loro forza simbolica è enorme, e la “soluzione muro” è, come tante altre, il tentativo di risolvere problemi complessi con soluzioni semplici (e, in questo caso, letteralmente toccabili con mano). Per cui non stupisce chi rivorrebbe i confini blindati, i muri da far pagare al Messico, le barriere tecnologiche tra Israele e Gaza. In fin dei conti che cos’è un muro, se non la proiezione fisica dei muri psicologici che, come esseri umani, siamo sempre pronti a costruirci in noi stessi?