Friuli 11 – La Chiesa e la fine del regno longobardo

I Longobardi erano venuti in contatto con il cristianesimo ben prima di entrare in Italia e vi avevano aderito solo per favorire le loro relazioni con i Bizantini prima e gli Ostrogoti poi. Per motivi simili, prima dell’invasione, Alboino aveva sostituito la religione ortodossa con quella ariana. Ma l’arianesimo fu solo una patina politica esteriore ed ebbe ben poca incidenza sulle loro abitudini, che rimasero a lungo attaccate alle tradizioni pagane.

Come già scritto, il patriarca fuggì a Grado, ma gli altri vescovi e i preti del territorio rimasero al loro posto, con l’organizzazione ecclesiastica che non fu alterata dai nuovi dominatori. Il patriarca da Grado potè comunicare liberamente con i chierici dei territori occupati, anzi fu favorito dal duca longobardo, in quanto, a causa dello scisma dei Tre Capitoli, tale solidarietà assunse un forte sentimento antiromano e antibizantino, in linea con la politica estera ducale. Il patriarca, comunque, preferì rimanere a Grado, in una posizione “anfibia” fra gli uni e gli altri, in parte per sottrarsi all’inospitale e decadente Aquileia, ma soprattutto per poter difendersi da eventuali offensive di Longobardi o Bizantini.

 

 

La situazione si assestò e lo scisma potè continuare senza scossoni anche fra i successori patriarcali: Probino (569-671), Elia (571-586) e Severo (586-607). Elia fece costruire la splendida basilica che ancora Grado conserva, dedicata a Sant’Eufemia, inaugurata nel 579 alla presenza di diciotto vescovi. Ma durante l’episcopato di Severo, le posizioni scismatiche aquileiesi si radicalizzarono: papa Pelagio II fece rapire Severo dall’esarca Smaragdo, che lo condusse con ingiurie a Ravenna, al cospetto del vescovo Giovanni che aveva sempre condannato i Tre Capitoli e con la violenza lo costrinse ad abiurare (Paolo Diacono). Tornato a Grado un anno dopo, Severo trovò l’ostilità del popolo e dei vescovi suffraganei.

Nel frattempo Smaragdo fu sostituito, il papa morì, così Severo ne approfittò per convocare un concilio provinciale a Marano, dove confessò il suo errore e confermò la sua fede trecapitolina ai suffraganei, che andavano da Verona, Vicenza, Trieste, Lubiana, Pola, Trento, Belluno ecc. Furono inutili anche i successivi solleciti di papa Gregorio Magno, che si appellò all’imperatore Maurizio, al quale vennero prospettate dai trecapitolini le conseguenze di un’eventuale azione violenta nei loro confronti, ovvero il ricorso all’appoggio armato dei Longobardi. Così, sia Roma che Bisanzio si rassegnarono.

Alla morte di Severo (607) ci fu un altro episodio che segnò un ulteriore avvicinamento fra i Longobardi e la Chiesa aquileiese. A Grado, l’esarca riuscì ad imporre l’elezione di un vescovo favorevole alla riunione, Candidiano. Gran parte del clero aquileiese si ribellò e trovò rifugio in territorio longobardo, eleggendo un altro vescovo, l’abate Giovanni (607-619) il quale scrisse subito a re Agilulfo, affinchè la fede trecapitolina potesse prosperare sotto di lui. Iniziò così l’epoca dei due patriarchi di Aquileia, uno a Grado, con giurisdizione sulla fascia costiera e l’Istria, soggette ai Bizantini, riunito sotto la fede di Roma. L’altro residente nel castello fortificato di Cormons, con giurisdizione sul vasto entroterra e le regioni vicine, perpetuando lo scisma con il favore dei Longobardi, che riconoscendo Giovanni come legittimo patriarca di Aquileia, restituirono alla Chiesa tutte le terre confiscate durante l’invasione.

 

Laguna di Grado
Laguna di Grado

 

Così per i Longobardi, che stavano lasciando l’arianesimo, la fede trecapitolina divenne quasi il loro cattolicesimo nazionale. Milano, che inizialmente aveva supportato Aquileia, era tornata velocemente alla fede ortodossa dopo l’invasione longobarda, mentre la diocesi di Como ruppe la dipendenza da Milano, diventando suffraganea di Aquileia. Nella diocesi di Como viene ancora venerato il vescovo Agrippino (607-617) che si è sempre mantenuto rigidamente nelle posizioni scismatiche in opposizione a Roma. L’abate Secondo di Trento, fu esponente di spicco della Chiesa trecapitolina di Aquileia, presso la corte regia al tempo di Agilulfo e Teodolinda, tanto che nel 603 venne scelto come padrino nell’occasione del battesimo dell’erede al trono Adaloaldo, il primo re longobardo a essere battezzato secondo il rito cattolico trecapitolino.

Ma dopo la morte del re ariano Grimoaldo (671), prevalse a corte la corrente cattolica, favorevole a un’intesa con Roma. I re si preoccuparono di togliere ogni dissidio e quindi anche lo scisma aquileiese. Re Cuniberto (688-700) convocò a Pavia nel 699 un sinodo che sancì la riunificazione della chiesa di Aquileia con quella di Roma. L’accordo fu recapitato personalmente dal vescovo di Pavia, al patriarca Pietro I (692-705) a Cormons, nei cui termini venne anche riconosciuta la curiosa situazione della divisione del patriarcato di Aquileia in due titolari, che durava da 90 anni. Entrambi furono delegati al titolo, quello di Grado per essere stato il primo a riunirsi alla sede romana, quello di Cormons per aver dovuto rinunciare alla giurisdizione sull’estuario veneto-bizantino e sull’Istria…

 

Cividale
Centro storico di Cividale

 

Durante il secolo VIII la posizione del patriarca di Aquileia-Cormons si era rafforzata grazie ai re longobardi, ma anche per la felice situazione politica inaugurata dall’avvento del duca Pemmone e dei figli Ratchis ed Astolfo, dei quali s’è scritto. Il patriarca Callisto (730-756) ne approfittò per trasferire la sua sede da Cormons a Cividale, scacciando il vescovo suffraganeo Amatore. Pemmone si oppose alla violenza e imprigionò Callisto nel castello di Duino “e di qui lo voleva gettare in mare” (Paolo Diacono). Fu in tale occasione, come precedentemente scritto, che re Liutprando, irritato, depose Pemmone, liberò Callisto e assegnò il ducato a Ratchis (739). Callisto potè risiedere nella capitale, dove fece costruire il palazzo patriarcale, la cattedrale e il battistero del quale rimane ancora la fonte battesimale.

Il pontificato del patriarca longobardo Sigualdo (756-786), segnò il periodo di massima intesa spirituale fra Longobardi e Romanici. Il crescente prestigio del patriarcato di quegli anni può essere letto anche tramite i ripetuti tentativi di riunire in un’unica giurisdizione Aquileia con Grado e l’Istria. L’ideale cristiano penetrò a ogni livello nel popolo longobardo, mutando mentalità e costumi. Sorsero fondazioni pie e monasteri, due duchi, Ratchis e Anselmo si fecero monaci, tre nobili fratelli fondarono i monasteri di Sesto al Reghena e di Salt, dove si ritirò anche la madre. Ebbero inizio le prime spedizioni missionarie presso gli Slavi.

 

Basilica di S. Eufemia – Grado (VI Sec)

 

Ma la politica di collaborazione con Roma, perseguita già ai tempi di Cuniberto e continuata fino a Liutprando e Ratchis, fu interrotta da suo fratello Astolfo (749-756), il duca friulano chiamato al trono dalla fazione nazionalista. La rottura di quell’equilibrio, tanto faticosamente raggiunto, avrebbe trascinato nella rovina il regno. Papa Stefano II, minacciato dalle ripetute incursioni da parte di Astolfo nei suoi territori, abbandonato dall’imperatore bizantino, chiese aiuto ai Franchi. E questi risposero ben volentieri, perché avrebbero potuto allargare la loro potenza e intervenire nelle vicende italiane. Le trattative fra il papa e re Pipino si conclusero con un’alleanza difensiva e offensiva antilongobarda, stipulata a Quierzy nel 754.

Pipino, diventato patricius Romanorum, scese in Italia due volte, costringendo Astolfo ad asseragliarsi a Pavia e imponendogli umilianti condizioni di pace. Quando Astolfo morì (756) lasciò il regno in piena crisi, pesantemente condizionato dall’egemonia franca. Il successore Desiderio (756-774) continuò sulla stessa linea nazionalista e quando nel 773 attaccò i possedimenti papali dell’esarcato, devastandoli e minacciando Roma, papa Adriano I invocò nuovamente l’intervento dei Franchi. Carlo scese con il suo esercito, mentre Desiderio si rifugiò a Pavia e il figlio Adelchi a Verona. Nel 774 le due città caddero. Desiderio venne preso prigioniero, mentre Adelchi scappò fra i Bizantini. Carlo si proclamò rex longobardorum, quasi fosse solo un cambio di dinastia, mentre in realtà fu la fine del regno longobardo.

Il duca del Friuli Rotgaudo, dopo aver combattuto contro i Franchi a Pavia e Verona, cedette per l’inganno di alcuni suoi nobili, corrotti da Carlo e si sottomise al vincitore. Ma durante l’inverno 775-776, approfittando della guerra di Carlo contro i Sassoni, organizzò un piano per portare Adelchi al trono. Coinvolse i duchi di Benevento, Treviso e Spoleto, assicurandosi l’appoggio dei Bizantini e dei Bavaresi. Ma il piano fu scoperto e i congiurati non riuscirono a mettere insieme le forze prima dell’arrivo di Carlo. L’esercito di Rotgaudo si scontrò direttamente con quello di Carlo, soccombendo e anche lui perse la vita. Il re franco si spinse fino a Cividale, dove diede luogo a una dura repressione. Nonostante le suppliche del patriarca Sigualdo, Carlo tolse al clero il diritto di elezione del patriarca. La pubblica amministrazione rimase inalterata, ma i longobardi vennero sostituiti con ufficiali franchi. I beni della nobiltà confiscati, mentre furono premiati i collaborazionisti, come il grammatico Paolino. Anche la famiglia di Paolo Diacono fu privata di tutti i suoi beni, il fratello Arichi imprigionato e la cognata costretta a mendicare per mantenere i quattro bambini. Lo stesso Paolo si ritirò in convento a Montecassino. Così miseramente finì il ducato longobardo friulano dopo duecento e otto anni di vita. Massellio fu il primo duca franco del Friuli.

 

Louis-Félix Amiel – Carlo Magno imperatore d’Occidente (742-814)

 

Spazzato il potere politico longobardo, in Friuli rimasero presenti ovunque i fattori etnici e l’eredità culturale. Quest’ultima si riconobbe, oltre al perpetuarsi di consuetudini, di miti, di sistemazioni fondiarie, di preferenze estetiche, soprattutto in una diffusa coscienza popolare di unità regionale. Il ducato friulano, rigorosamente accentrato, dominato da una politica fieramente nazionalista e autonomista, era riuscito a creare, fra il Livenza e il Timavo, quasi un piccolo stato nello stato, raggiungendo una gran compattezza e stabilità geografica, politica, economica e sociale.

Fra i toponimi lasciati, frequenti quelli derivanti da fara, come il Monte Fara, Farla (diminutivo di fara), Farella, Farra d’Isonzo ecc. La lingua longobarda non ha lasciato molte tracce negli sconfitti, si stima siano 280 le parole in tutta Italia, mentre in Friuli: balcòn, bancje, pale, imbastì, slapagnà, sbrisijà, sgrifignà… Uno storico linguistico come Francescato, pose attenzione a questo fatto. Nonostante la lunga durata del ducato (il primo a nascere e l’ultimo ad estinguersi) e ai grandi ritrovamenti di oggetti, armi, opere d’arte, edifici, perché la lingua non fu così incisiva? Per lo stesso motivo per cui non lo fu nel seguente periodo medievale caratterizzato dal potere degli imperatori germanici. (L’influsso tedesco nella lingua avvenne molto più tardi, con gli Austroungarici). La lingua della classe dominante divenne quella del gruppo dirigente, esprimendosi attraverso leggi e consuetudini tipiche dei dominatori. Il popolo era lontano, non sapeva leggere, nessuno aveva alcun interesse a istruirlo e possedeva la propria parlata. Per questo quando periscono i vari dominatori, le loro leggi e le loro espressioni, se non sono entrate nella vita del popolo, spariscono, portate via dal vento della storia.

 

Fonti:

Gian Carlo Menis: Storia del Friuli
Gianfranco Ellero: Storia dei friulani
Tito Maniacco: Storia del Friuli
Tito Maniacco: I senzastoria
Elio Bartolini: I Barbari.