Friuli 15 – Il Patriarcato del Friuli o Patria del Friuli.

Quando si parla del Friuli, della sua complessa e tormentata storia, alcuni periodi assumono definizioni che diventano patrimonio di tutti, diventando “patrimonio” in maniera passiva, prendendo concetti senza nessuno sforzo attivo di analisi, per cui si stratificano i luoghi comuni. Da queste definizioni risulterebbe, ad esempio, che il Patriarcato era “bene”, mentre Venezia fu “male”. Come altri pensano che l’Austria fu “bene” mentre l’Italia, arrivata nel 1866, fu “male. Ci si può porre davanti al Patriarcato in diversi modi, uno dei quali è quello di collegare antiche vicende , rapportandole a significati politici contemporanei. Così il Patriarcato diventa il simbolo di quello che si sarebbe voluto avvenisse riempiendolo di segni sostanzialmente favorevoli, come il fatto sia stato il periodo più felice nella vita del Friuli e ricordarlo come un mito (il mito è la favola dei desideri irrealizzati degli uomini) indicandolo come paragone contro il presente.

E’ vero che il periodo dei Patriarchi, specialmente dalle origini a tutto il 1300, fu il periodo in cui si può parlare di una Patria del Friuli, quindi di una certa unità attorno ad un’autorità centrale che si è sforzata di dare parvenze e strutture di Stato al territorio. Ma è anche vero che questa autorità, per la sua natura, la sua provenienza etnica, sociale e culturale, ha prepotentemente operato per tener staccato il Friuli dal resto dell’Italia borghese e comunale, dando così origine a quel processo di arretratezza storica ininterrotto fino ai tempi moderni.

 

 

Durante il Patriarcato, per oltre tre secoli, il Friuli visse la sua esperienza autonomista. Chiaramente si trattava di uno Stato feudale, un’istituzione diversa da uno Stato sovrano moderno. Tuttavia l’esempio friulano rappresentò una forma di organizzazione politica unitaria e accentrata, tra quelle sorte in Europa nell’Età di Mezzo. Fra il XII secolo e il XV secolo la società friulana si evolse, modificando di pari passo le strutture politiche e amministrative esistenti, per cui la sua storia assunse aspetti particolarmente dinamici, che nel contesto introdusse elementi permanenti, i quali portarono a una sostanziale unità.

Da premettere che i diplomi di Enrico IV del 1077 non ebbero l’effetto di realizzare un territorio compatto; la matassa dei vincoli feudali era troppo intricata e altrettanto avide le ambizioni dei vicini e dei feudatari locali. I Principi difesero con forza i loro feudi. In effetti la Carniola non entrò mai nell’amministrazione dello stato, nonostante gli sforzi dei patriarchi, le conferme imperiali e le dichiarazioni di sudditanza. Di fatto la marca restò in mano a potenti famiglie tedesche e nel 1261 divenne feudo dei duchi di Carinzia, per passare più tardi alla casa d’Austria. Anche nell’Istria il patriarca ebbe forti concorrenti. Si estese su tutta la penisola solo all’inizio del XIII secolo, per poi ritirarsi gradualmente sotto la pressione dei conti di Gorizia, di Venezia e del duca d’Austria. Il Cadore, aggregato al patriarcato, fu gestito come feudo dai signori di Camino (Treviso) che lo amministrarono come contea indipendente e solo a metà del XIV secolo venne reincorporato.

 

Pavoncelle (Basilica di Aquileia)

 

In pratica solamente il ducato del Friuli rimase ininterrottamente sotto il governo del principe patriarca, dalla fondazione alla sua caduta. Confini che tradizionalmente furono fissati: “ab Aqua Liquentia” (Livenza) usque ad ducatum Meranie (Carniola) et a montibus usque ad mare” (Ugo di Ostia, 1221). Un’unità geopolitica simile al ducato longobardo e che fin dal sec XII venne denominata con il nome di Patria, oltre quello comune di Forum Iulii.

All’interno del Friuli c’erano isole che interrompevano la giurisdizione patriarcale, e fra esse ci furono i territori soggetti al conte di Gorizia, vassallo e avvocato del patriarca inizialmente.  Successivamente Gorizia si rese sempre più indipendente, soprattutto quando l’avvocatura divenne ereditaria nella famiglia del duca del Tirolo e il conte cercò di sottrarre al patriarca sempre più territori, fino a costituire un grosso possesso fra Gorizia e Vipacco (Slovenia) costituendo una costante minaccia per la sovranità patriarcale che, all’arrivo di Venezia, diventò netto antagonismo fra due diverse concezioni della politica. Altre isole minori, soggette a signori tedeschi, furono Pordenone, Codroipo, Latisana, Maniago, Venzone.

 

Castello di Gorizia, XI sec.

 

All’unità territoriale, corrispose una più compatta unità etnica e culturale, caratterizzata dalla classe media e inferiore, che costituivano la maggior parte della popolazione. Tale quadro etnico culturale può essere definito “friulano”, in quanto prodotto maturo e differenziato delle molteplici componenti che avevano agito sull’azione genetica delle popolazioni di antica origine autoctona. La complessità etnico-culturale, fu la lingua popolare che si configurò con caratteristiche peculiari, a dominanza gallica. Inizialmente lo Stato fu nettamente ghibellino, con la composizione etnica della nobiltà, dovuta a una prevalenza di patriarchi germanici fino al XIII sec. Allo stesso tempo la politica del patriarca non poteva non tener conto degli interessi che lo legavano al papato, che divennero più fluidi attraverso la mutata politica guelfa del XIV secolo, con i patriarchi italiani.

Già nel XII secolo apparirono, accanto alle espressioni ufficiali in latino e alle produzioni colte in lingua tedesca, provenzale o veneta, le prime documentazioni scritte in friulano (rotolo censuale del capitolo di Aquileia, 1150) e le prime produzioni letterarie. La poesia friulana primitiva partecipò alle esperienze poetiche tardo medioevali (Virgili). (Anche se fu denigrata con disprezzo da Dante Alighieri, nel “De vulgari eloquentia“). Nel contesto la vita culturale segnò momenti di intensa vivacità, stimolata dalla corte civile ed ecclesiastica del patriarca, dalla scuola superiore della capitale, dai traffici ecc. La pittura e la miniatura presente nel XI sec. rivela influenze straniere (Reichenau), rapporti documentati con l’ambiente artistico umbro-romano dell’XIII sec. “Dal bisantinismo delle pitture aquileiesi o della pala argentea di Cividale, ai modi romagnoli degli affreschi udinesi in S. Francesco, al gusto renano delle sculture gemonesi, alle suggestioni del gotico nel duomo di Udine e di Venzone…” (Marchetti)

 

Messa dello spadone, Cividale.

 

All’unità spirituale del popolo friulano diede il suo contributo il comune credo religioso, radicato nella lunga credenza cristiana locale. Le pievi in cui era suddivisa la diocesi di Aquileia, che con quella di Concordia si spartiva il territorio friulano, estendendosi a oriente, comprendendo l’attuale Slovenia e a nord la valle della Drava, furono centri di polarizzazione della vita delle comunità. Soprattutto per la partecipazione diretta del popolo all’elezione dei camerari, amministratori delle chiese, opere pie e caritative, riti tradizionali, fraterne, ecc. La solidarietà cristiana riunì un popolo diviso socialmente e giuridicamente dall’eredità del passato e dalle rigide strutture feudali. Fino alla caduta del potere patriarcale la popolazione restò divisa in tre classi sociali: quella più numerosa dei servi, addetti alle coltivazioni o ai servizi della casa padronale (servi di masnada). I diritti erano limitati, ma a tutti restava aperta la via del riscatto. Molti di essi divennero liberi coloni, entrando a far parte delle comunità rustiche.

La classe dei liberi era varia, ci appartenevano, oltre ai servi riscattati, feudali minori, antichi arimanni longobardi, artigiani, commercianti, notai, maestri, banchieri, appaltatori ecc. in genere tutte le categorie che con il loro ingegno avevano realizzato notevoli ricchezze e costituivano la borghesia. I nobili erano suddivisi in due gruppi: i ministeriali del patriarca (nelle due categorie dei ministeriali e dei consorti d’abitanza posti alle dirette dipendenze del principe patriarca) e i feudali liberi, di origine straniera.

 

Antico vessillo patriarcale, facente parte del corredo funebre del Beato Patriarca Bertrando (1258 – 1350).

 

La sovranità del patriarca raggiunse la sua forma più completa nei primi decenni del sec XIII, parallelamente a quanto avveniva nei principali principati ecclesiastici della Germania. Il patriarca assommava nella sua persona la massima autorità ecclesiastica e civile: come metropolita era soggetto direttamente al papa ed aveva giurisdizione ecclesiastica su tutti i vescovi della Venezia e dell’Istria. Come vescovo di Aquileia aveva giurisdizione canonica diretta nella sua vasta diocesi. Ma come principe temporale era soggetto al solo imperatore ed aveva piena sovranità su tutti i suoi territori, deliberava sia in politica interna che estera, giudicava in materia feudale, sentenziava le accuse civili e penali, batteva moneta con il proprio nome, riscuoteva le imposte, comandava l’esercito e decideva la guerra o la pace.

Il patriarca veniva eletto dal capitolo di Aquileia, ma riceveva dal papa l’investitura canonica e dall’imperatore l’investitura feudale. L’investitura ecclesiastica avveniva ad Aquileia, mentre quella temporale a Cividale. Il momento culminante era quando il patriarca riceveva dall’imperatore, seduto sulla sua cattedra marmorea, una spada nuda che riponeva nel fodero. Ancor oggi, ogni anno nel duomo di Cividale si svolge la messa dello spadone, dove il diacono, con in capo un elmo piumato, tiene nella mano destra la spada di Marquardo di Randeck (1366-1381) in segno di investitura del dominio temporale sul Friuli.

 

Castello di Villalta, XII sec.

 

Nel governo spirituale il patriarca veniva assistito dal capitolo di Aquileia e dalla sua curia, con il vicedomino o vicario “in spirituabilus“, che sostituiva il patriarca in caso di assenza, e l’arcidiacono. Spesso davano il loro consiglio i prepositi o decani degli altri capitoli e gli abati dei principali monasteri. Mentre nell’esercizio dei suoi molteplici compiti di sovrano temporale, era assistito dalla sua curia civile, composta da nobili ed ecclesistici investititi di feudi tra i quali venivano distribuite le massime cariche dello Stato. Fra queste c’era l’avvocato della chiesa aquileiese, cui spettava il compito di difendere gli interessi dello Stato, di difenderlo in giudizio e di sostituire il patriarca negli uffici incompatibili con il suo stato sacerdotale. Ma con la carica ereditaria dei conti di Gorizia, che la sfruttarono esclusivamente per il loro profitto, venne sopressa.

Gli altri ufficiali superiori erano il vicario “in temporalibus“, che sostituiva il patriarca in campo civile, il capitano generale che comandava l’esercito, il maresciallo a cui spettavano i compiti di polizia e il siniscalco, che teneva i rapporti con i gastaldi e i feudatari. Come in genere i sovrani medioevali dell’epoca, anche il patriarca non aveva una residenza stabile, ma dimorava ora in uno ora in altro dei suoi molti castelli sparsi nel Friuli, seguito dalla sua corte di cui facevano parte molti ministri come il marescalco o vessillifero, il pincerna o coppiere, il dapifero, il cellerario, il cannipario ecc. Ma frequentemente il principe abitava nel suo palazzo di Cividale, dove avevano sede la cancelleria e l’archivio patriarcali, così questa città può essere considerata la capitale del principato temporale, come Aquileia lo era della diocesi e della provincia ecclesiastica. Come già scritto, solo dall’inizio del sec. XIV i patriarchi preferirono risiedere nel castello di Udine.

 

Aquileia - le uniche due colonne rimanenti del palazzo patriarcale
Aquileia – le uniche due colonne rimaste del palazzo patriarcale

 

Compito primario del principe era quello della difesa militare, cui sovveniva sia attraverso una complessa organizzazione permanente (castelli, città, borghi, abazzie, fortificati, cortine e torri) sia a carattere mobile. La dislocazione delle fortezze patriarcali, ricalcò più o meno quella longobarda e carolingia. Ma i castelli aumentarono di numero e il sistema di difesa venne modificato in modo da poter fronteggiare assalti da tutti i lati. L’esercito consisteva in circa 400 cavalieri corazzati, un centinaio di balestrieri e tre/quattro mila pedoni. (Leicht)

Il territorio dello Stato era suddiviso in una fitta e intricata rete di circoscrizioni amministrative, dove la giurisdizione veniva esercitata, sotto il nome del patriarca, da feudatari ecclesiastici come il vescovo di Concordia o gli abati di Moggio, Sesto ecc. e i laici come il marchese d’Istria o il conte di Gorizia, altrimenti da gastaldi, detti capitani, come il capitano del Cadore, di Udine ecc. che possedevano un proporzionato numero di ufficiali.

 

Abbazia di Moggio

 

Inizialmente, per quanto sostanzialmente ghibellina (e non poteva essere altrimenti) la politica dei patriarchi dovette tener conto anche degli interessi del papato. All’epoca degli scontri guelfi-ghibellini, il patriarca Wolfger di Ellenbrechtskirchen o di Leubrechtskirchen (Volchero di Erla, 1204-1218) seppe mediare fra il suo signore spirituale e quello temporale. Nobiltà, alto clero germanico, luoghi, legami con Ottone IV lo tenevano legato alla sua storia, alla sua cultura e agli interessi di signore feudale, ma la religione e il suo apparato gli posero di non tirare troppo la corda contro il papa, che quanto a scomuniche era svelto di mano. E all’epoca una scomunica aveva un effetto dirompente.

Durante il sec XIII, sotto la spinta di un’evoluzione sociale, che fermentava soprattutto la classe media, si formarono due nuovi istituti, che avrebbero aperto la via ad una maggior partecipazione popolare: il Comune e il Parlamento.

 

Fonti:

Gian Carlo Menis: Storia del Friuli
Gianfranco Ellero: Storia dei friulani
Tito Maniacco: Storia del Friuli
Tito Maniacco: I senzastoria