Friuli 18 – I patriarchi guelfi

Dopo il periodo dei patriarchi tedeschi, il Friuli divenne “uno dei punti strategici e più importanti della lega guelfa” (Leicht) ma non riuscì più a conservare la sua coesione politica interna. Il principato, così tenacemente retto dai patriarchi ghibellini, si arrestò bruscamente e iniziò il suo fatale declino. Nessuno dei patriarchi italiani che governarono il Friuli fra il 1251 (elezione di Gregorio di Montelongo) e il 1334 (nomina di Bertrando, Bertrand de Saint Geniès) fu in grado di assicurare tale autorità e prestigio, da scoraggiare le ambizioni dei nobili locali e la cupidigia dei vicini. L’esercizio del potere, contrastato e affidato alle sole capacità personali del patriarca, ebbe l’effetto di svilupparsi senza continuità, sotto la spinta di urgenze immediate, con fatali ripercussioni su tutto il sistema economico e sociale dello Stato.

Al declino dell’autorità centrale, corrispose l’aumento della prepotenza della nobiltà friulana, sia guelfa che ghibellina. Turbolenti e rissosi, più audaci dalla debolezza del vertice, i feudatari alimentarono continue discordie, scatenarono guerre, ordirono congiure e vendette contro il patriarca, contro il conte di Gorizia, contro le altre famiglie. Le alleanze si crearono e si scioglievano senza alcuna logica o coerenza, se non quella del personale interesse di ognuno. Non fu un fenomeno solo friulano, ma comune in gran parte dell’Europa contemporanea.

Nessuna delle famiglie friulane, neppure quella goriziana, riuscì a stabilire, come in altre regioni d’Italia, una vera Signoria sul Friuli. Per contro, alla fine del sec. XIII ci fu una crescente vitalità nei maggiori centri urbani, con commercianti, banchieri, artigiani, che consolidarono cospique ricchezze. La borghesia cittadina, per reazione alla precaria situazione generale e in difesa dei suoi interessi contro l’egemonia feudale, rafforzò le comunità locali, il cui peso cominciò a farsi sentire come terza forza nell’instabile equilibrio dello Stato patriarcale. Fra le città eccelse Cividale, la vecchia Aquileia riprese nuovo vigore per l’incremento dei traffici marittimi. Udine, sempre più favorita dalla sua posizione centrale, cominciò a gareggiare per ricchezza e importanza con Cividale. Ci furono poi Sacile, Portogruaro, Gemona e Tolmezzo in progressione. Gorizia con la contea e Pordenone, soggetta a signoria straniera.

 

Basilica di Aquileia – capretto con uova od ostriche, forse altro simbolo gnostico

 

L’accostamento di Bertoldo alla lega guelfa non fu plebiscitaria. La resistenza ghibellina interna si fece sentire e i ghibellini trovarono il loro naturale alleato nello stesso advocatus ecclesiae aquileiensis, il conte di Gorizia, allettato dai vantaggi che ne avrebbe potuto ricavare. Gorizia divenne da allora il principale e più temibile avversario della sovranità patriarcale. Alla metà del sec. XIII possedeva oltre a Gorizia e i territori lungo i corsi dell’Isonzo e del Vipacco, altre terre sparse nella regione, come Latisana, Sedegliano, Codroipo ecc. Ma negli ultimi tempi i suoi territori si erano ampliati anche fuori dal Friuli, nella Carniola, nella Stiria, nella Carinzia e nel Tirolo, feudo originario della famiglia. Inoltre parentele e interessi di varia natura avevano fatto del casato goriziano uno dei più importanti dell’impero, ravvivando le brame espansionistiche del conte ai danni del patriarcato.

Pordenone fu un’altra base operativa avversa al patriarcato. Già “curtis regia” all’epoca longobarda, mantenne tale caratteristica nello Stato patriarcale, passando dal possesso degli Eppeenstein a quello degli Spannheim, successivamente dei Babemberg, fino agli Asburgo nel 1277.

Fra i nemici italiani, assieme al conte di Gorizia, vanno innoverati al primo posto la famiglia guelfa dei signori da Camino, conti di Ceneda e signori di Treviso (1283-1312). Ma la più temibile nemica del patriarcato fu Venezia, che mal tollerava una crescente potenza alle sue spalle. La Repubblica cercò con ogni mezzo di contrastare il dominio del patriarcato sull’Istria, volle condizionare lo stesso governo del patriarca stringendo accordi con le più potenti famiglie friulane. Questo periodo della storia patriarcale, venne condizionato più da fattori esterni, che da quelli interni.

 

Disegno del castello medievale di Udine sul colle (crollato a causa di un terremoto nel 1511) e della I cerchia di mura.

 

Il governo di Gregorio di Montelongo (1251-1269) iniziò sotto buoni auspici. Il patriarca, già legato pontificio in Lombardia, fu uno delle più abili e capaci menti di cui disponeva la parte guelfa e venne nominato direttamente da Innocenzo IV. Si mise subito all’opera per conosce le reali situazioni del patriarcato, con la sua disagiata situazione finanziaria, e per difendere l’unità territoriale con energici provvedimenti contro i signori di Duino, di Prata, i Caporiacco, ma soprattutto i Savorgnan, signori di Udine. Nel 1259 ci fu gerra aperta contro i conti di Gorizia, Mainardo IV e Alberto II, che avevano occupato Cormons, Lucinico e altre terre patriarcali, eregendo un castello sull’Isonzo.

L’autorità patriarcale di Gregorio venne umiliata quando la spregiudicata violenza del conte Alberto II lo sorprese nel sonno. Il Patriarca fu tradotto su un ronzino al castello di Gorizia, dove venne tenuto prigioniero per oltre un mese. Gli interventi stranieri che portarono alla sua liberazione, con i trattati che ne seguirono non furono proporzionati alla gravità dell’affronto. L’anno seguente il consigliere del patriarca venne barbaramente assassinato dai sicari del conte goriziano. Nacque una nuova guerra che si concluse ancora con un nuovo umiliante compromesso.

 

Duomo di Udine – Vitale Da Bologna. Storie di San Nicolò, affresco nell’omonima cappella (dettaglio) esequie di san Nicolò – 1349

 

Gregorio morì il 31 agosto 1269, a cui successe una lunga vacanza che gettò nel caos il Friuli, il quale sembrò riaversi solo dopo la nomina del successore, Raimondo della Torre, (1273-1299), figlio di Pagano I della Torre, signore di Milano ed energico esponente del partito guelfo. Riprese la politica del predecessore, affrontò i problemi con il re di Boemia, Ottocaro, che all’epoca deteneva il feudo di Pordenone e affrontò il conte di Gorizia, che continuava con i suoi violenti progetti di espansione. Inizialmente, grazie a una cospiqua forza militare e l’amicizia con Rodolfo D’Asburgo, re di Germania, nel primo decennio raggiunse buoni risultati diplomatici.

Riuscì anche a tenere a bada il conte di Gorizia, con il quale strinse un’alleanza contro Venezia. Infatti nel 1283 la vecchia contesa sull’Istria degenerò in una sanguinosa guerra, imponendo al Patriarcato numerosi sacrifici, come la leva di massa dai 18 ai 70 anni, tasse ecc. compromettendo gravemente la vita dei porti e delle terre patriarcali. Nel 1291 fu raggiunta una pace, che praticamente ricostituì lo status quo nell’Istria. A fine guerra, colui che ottenne più vantaggi fu il casato goriziano, che vide confermato il possesso di Cormons e aggiunse Venzone, strategico per il Friuli settentrionale.

 

Sarcofago di Raimondo della Torre – Capella Torriani, basilica di Aquileia.

 

Dopo questi fatti, la situazione si deteriorò ulteriormente. Il conte goriziano occupò altre città del Patriarcato, soprattutto nell’Istria, e ovunque in Friuli divamparono notevoli lotte che permisero a Gerardo da Camino (il “buon” Gherardo, descritto da Dante – purg. 16, 124-38) di inserirsi nelle lotte friulane. Il panorama si offuscò maggiormente dopo la morte del patriarca Raimondo, sotto i governi nominati da Bonifacio VIII, con Pietro Gera (1299-1301) e Ottobono Razzi (1302-1315). Durante la reggenza di quest’ultimo, parve compromessa la stessa sopravvivenza dello Stato patriarcale, quando il conte Enrico IV di Gorizia e Rizzardo da Camino con molti feudatari locali lo costrinsero a fuggire. Il periodo sancì il predominio goriziano sul Friuli. Il conte Enrico IV risiedette a Cividale occupando terre e castelli. La storia di quegli anni fu punteggiata da guerricciole, colpi di mano, vendette, ricatti e squallidi episodi.

Con la nomina di Pagano della Torre (1318-1332) arcivescovo di Milano, si attenuarono le discordie interne. Contribuì il fatto che il conte di Gorizia, acclamato signore di Treviso, si dedicò al governo di quel feudo, estraniandosi dalla politica friulana, lasciando la contea goriziana alla saggia e tranquilla reggenza della contessa Beatrice. Pagano della Torre riuscì a tener testa alla nobiltà locale, già indebolita dalle guerre, potenziò gli istituti parlamentari, favorì l’espansione commerciale, provvide a rinforzare le difese delle città e i castelli patriarcali, tenendo così compatto il Friuli, mentre oltreconfine infuriava l’ultima grande lotta fra papato e impero, dopo la scomunica nel 1324 di Giovanni XXII contro Ludovico II il Bavaro.

 

Udine – Via Mercatovecchio (oggi) antica sede del mercato, della Zecca Patriarcale e la Cancelleria della Patria

 

Con il patriarcato di Pagano, si sviluppò ulteriormente Udine, che si accingeva a diventare la capitale effettiva. Come già scritto contribuirono le presenze bancarie toscane, ma pesò molto l’attività della famiglia Savorgnan. Di origine ungherese, il loro nome venne assunto dai vassalli liberi del castello di Savorgnano, presso Tricesimo. Acquisirono assoluta preminenza sulla città, ponendosi con il tempo fra i primi feudatari del Friuli. Godettero inizialmente dei più alti favori dal patriarca, ebbero il consenso della borghesia artigiana e commerciale, di cui si fecero paladini. Alla morte di Pagano, nei diciotto mesi di vacanza, si ebbero nuove tensioni: riemersero tutti i segni del malessere di cui soffriva lo Stato, dopo un secolo di politica guelfa, dopo un secolo di lotte civili.

Il cinquantennio tra gli anni 30 e 70 del XIV sec. vide l’ultimo sforzo dei patriarchi per dare dignità e prestigio alla Chiesa di Aquileia e allo Stato patriarcale. Anni che videro legati i nomi di quattro principi: Bertrando di San Genesio (Bertrand de Saint Geniès, 1334-1350),  Nicolò di Lussemburgo (Nikolaus von Luxemburg, 1350-1358), Ludovico della Torre (1359-1365) e Marquardo di Randeck (Marquard von Randeck, 1365-1381). Pur diversi, ebbero come fine la volontà di occuparsi tenacemente del patriarcato. Purtroppo il successo dei loro propositi fu parziale e temporaneo, non tanto per loro incapacità, quanto dovuto alle avversità dei tempi e, soprattutto, alla gretta mediocrità della classe dominante friulana.

 

Castello Savorgnan di Artegna – XIII secolo

 

La scelta di Bertrando di San Genesio (Guascogna) fu ispirata da papa Giovanni XXII, che da Avignone, l’8 settembre 1334, promosse alla sede aquileiese il suo stesso capellano, già celebre professore di diritto all’università di Tolosa, con l’idea di una restaurazione. A tal fine gli rilascò particolari facoltà atte a costituire la sua corte e provvedere alle necessità più urgenti del patriarcato. Pur non essendo in giovane età, mantenne energico vigore e arrivò in Friuli con un preciso piano di ricostruzione territoriale ed economico, di consolidamento del potere patriarcale contro le forze interne ed esterne, riforme istituzionali e riforme ecclesiastiche. Un vasto programma, ma l’unico per chi in quel periodo voleva governare il Friuli. Alla realizzazione del progetto sacrificò tutte le sue forze, per cui non si sbaglia nello scrivere che Bertrando fu “una delle più grandi e belle figure fra i patriarchi aquileiesi” (Leicht).

Rizzuto da Camino fu il primo avversario che affrontò, il quale durante la vacanza della sede aveva occupato castelli patriarcali e assaltato Sacile. Bertrando lo sconfisse in campo, recuperando non soltanto i castelli, ma tutto il Cadore che fin dal sec XII era rimasto nelle mani dei caminesi (1335). Riuscì abilmente a stringere accordi con Venezia e il duca d’Austria, in seguito anche con Carlo di Moravia, futuro imperatore antagonista di Ludovico il Bavaro. Alleanze che gli consentirono di riscattare il patriarcato dalla soggezione di Gorizia. Con un esercito da lui comandato riebbe Venzone e la rocca goriziana di Braulins, nel 1340 riprese Cormons e assediò lo stesso castello di Gorizia, costringendo il conte Alberto IV alla tregua.

 

Duomo di Udine – Teca con il corpo del Beato Bertrando di San Genesio

 

Bertrando si dedicò con tenacia anche a una vasta opera di riforme in tutti i settori, Rafforzò le opere di difesa ai valichi delle Alpi, garantì la sicurezza delle strade, combattendo i briganti, giudicò e punì severamente i feudatari rei di soprusi, diede allo Stato nuovi ordinamenti militari, riordinò le strutture parlamentari, favorì l’artigianato, l’arte e la cultura: a tal proposito nel 1344 fondò l’Università di Cividale e nel 1347 incaricò Vitale da Bologna di affrescare il duomo di Udine. Ma non dimenticò i suoi doveri di metropolita, con riforme ecclesiastiche e religiose nella Chiesa aquileiese. Con tale operosità, la compagine dello Stato riprese nuova coesione, il benessere e perfino il lusso ripresero a fiorire.

Nel 1348 il Friuli venne colpito da un altro grave terremoto che distrusse Gemona, Venzone, il palazzo patriarcale di Udine e la parte alta della basilica di Aquileia, insieme alla sciagura della peste nera che stava dilagando in tutta Europa.

Purtropppo l’attivismo del patriarca suscitò ire e invidie dei piccoli tirannelli locali. La sua inflessibilità nel punire i soprusi e l’arroganza dei feudatari, uniti ai favori concessi ai suoi sostenitori, come i Savorgnan, fecero serpeggiare rancore e gelosia. Anche le preferenze per la Città di Udine suscitarono risentimento a Cividale e Aquileia, che permisero all’immancabile conte di Gorizia (Enrico III) di pescare nel torbido, spingendo le cose al peggio. Ancora venne alzata la bandiera della rivolta, raccogliendo la complicità di Cividale e numerosi altri feudatari, decisi ad assassinare il patriarca.

Si trattò di una vera e propria congiura: il sei giugno 1350, il patriarca ormai novantenne, mentre tornava a Udine da Sacile a cavallo con il suo seguito, a tre miglia da Spilimbergo incontrò i congiurati. I patriarcali vennero sopraffatti e Bertrando, indifeso, fu barbaramente trucidato. Il suo corpo, per disprezzo, venne inviato a Udine su un rozzo carro agricolo. Si concluse così la vita dell’ultimo grande principe friulano. Tre anni dopo, le sue spoglie, venerate dagli udinesi, furono deposte nel duomo, all’interno del sarcofago che lui stesso aveva fatto costruire per porvi le reliquie di Sant’Ermacora, dove ancora riposano. Venne beatificato nel 1760 da papa Clemente XIII.

 

Fonti:

Gian Carlo Menis: Storia del Friuli
Gianfranco Ellero: Storia dei friulani
Tito Maniacco: Storia del Friuli
Tito Maniacco: I senzastoria