Friuli 22 – La dominazione veneziana

Dal 1330 al 1420, l’aspetto bifronte e bilingue del Friuli iniziò il suo lento, ma inesorabile spostamento verso l’area linguistica e culturale italiana. La scuola tedesca continuò il suo modello in Carnia e nelle zone interessate commercialmente con la Carinzia. Gli esempi del duomo di Venzone e di Gemona lo dimostrano. Un influsso ancora avvinto al potere feudale, che ebbe nel gotico la sua massima rappresentitività, ma in generale, l’influsso italiano si fece sempre più forte e deciso. La presenza di Vitale da Bologna, indicò nella sua centralità come il duomo di Udine, che lo sguardo corrispondeva a interessi più vasti e complessi. L’osservazione dei codici miniati ne dà ulteriore conferma: mentre i primi testi furono di origine carolingia o germanica, i successivi, oltre che avere influssi bizantini, cominciarono a essere di origine locale o italiana. E molti testi vennero redatti, oltre che in latino o tedesco, anche in friulano, soprattutto quelli aventi funzioni pratiche, come le carte dei notai. Documenti che si esprimevano in una lingua usuale e intendevano comunicare con altri che l’avevano in comune. In pratica, il friulano aveva tutte le caratteristiche che si possono riscontrare attualmente.

 

Basilica di Aquileia – Ritratto di un donatore

 

A questo punto La Repubblica di Venezia entrò definitivamente nella storia del Friuli. Anche su Venezia, come sul Patriarcato s’è fatto gran uso di luoghi comuni, come “influsso negativo” o “influsso positivo”. Non si può giudicare, dal punto di vista friulano, se Venezia ha governato bene o male, ma seguire quali erano le condizioni storiche e sociali quando è entrata nella Patria: quali fossero le sue intenzioni e i suoi interessi. La visione friulana di vari storici, che si riperquote attualmente nella cultura (ma anche nella politica) popolare, non si può porre, poiché il Friuli fu solo un fattore, all’interno di una complessa rete di fattori e di situazioni oggettive. Dal punto di vista friulano si potrebbe scrivere che Venezia ha disboscato la Carnia (con gravi danni all’ecosistema visibili tutt’ora), ha imposto tasse pesanti, ha tolto ogni potere al parlamento della Patria. Ma storicamente è solo un lato nel passato di questa regione, seppur negativo.

Sulla Serenissima ho già lungamente scritto, in altro sito,  riguardo la sua millenaria storia. L’invasione della Patria, immediatamente connessa a quella della terraferma veneta, fu parte integrante di una strategia pianificata. Stabilita la sua superiorità sul mare, Venezia cominciò a pensare a uno Stato di terraferma. In primis come funzione strategica per allontanare i confini dall’Austria, successivamente come supporto economico per l’alimentazione e per le materie prime, soprattutto il legname indispensabile all’industria navale. Fra la fine del ‘300 e i primi del ‘400, Venezia respinse gli Scaligeri da Verona e Vicenza, si impossessò di Padova arrivando fino a Brescia e Bergamo. Inizialmente il Friuli non rappresentò il legname della Carnia, ma solo un ulteriore allargamento difensivo contro l’impero. Eppure, nonostante gli sforzi, non riuscì ad avere il totale controllo sul litorale, perché le mancò sempre Trieste.

 

Duomo di Gemona (dopo la ricostruzione)

 

Quando esiste una classe dominante, è la sua politica a essere dominante. sono le sue idee a essere dominanti. Qualcuno ha scritto che quando un’idea si scontra con un interesse, è sempre l’idea che ha la peggio. Nella classe dominante sorgono contrasti di potere che oggi vengono risolti (per lo più) facendo cadere un governo, eleggendone un altro. All’epoca le cose non erano diverse, a parte i metodi spicci, come le uccisioni e le guerre. Anche se la guerra non è molto diversa dalla politica, anticamente non si ricorreva alla guerra facilmente, perché costosa e il profitto spesso era poco e non ne valeva la pena.

La guerra, descritta nell’articolo precedente, fu lunga, fra periodi di pace e ritorno alle armi. Nobili che trovarono più comodo un padrone come la Serenissima, presero la via dell’esilio, tornarono, scapparono e ritornarono ancora, ostinati come la famiglia Savorgnan. Armi e diplomazia in mano, i Veneziani si mossero come anguille, abbracciando vecchi nemici e fancendosene di nuovi. Abbandonarono alleanze e ne rinnovarono. Dove i loro attenti ambasciatori non riuscirono con il denaro, lusinghe e promesse, smobilitarono gli eserciti.

 

Codice miniato – Biblioteca Guarneriana di San Daniele del Friuli.

 

Venezia non cambiò nulla nella struttura del piccolo Stato patriarcale, salvo sostituire i vertici con funzionari veneziani. A capo dell’intero territorio della Patria nominò un Luogotenente, che “sfrattò” il patriarca, prendendo dimora nel castello di Udine, in cima al colle. Incrementò le fortificazioni, non solo contro il pericolo austriaco, ma pure per difendersi dalle frequenti incursioni turche. A questo scopo vennero costituiti gruppi (oggi sarebbero chiamati di “autodifesa”) di contadini e cittadini armati chiamati “cernide”. A capo delle cernide, fra proteste e diffidenze dei nobili, fu messo un Savorgnan. In realtà la loro efficienza militare rimase limitata, in quanto non bastò armare dei contadini privi di addestramento militare. Inoltre sarebbe stato troppo pretendere dagli stessi contadini, soggetti a metodiche spoliazioni dei loro beni e di soprusi, la difesa di un sistema, che mentre vivevano del loro lavoro, li irrideva.

Il successivo, lento, spostarsi dell’appoggio contadino verso Venezia, fu solo la prova della disaffezione che il servo della gleba provava per i suoi signori feudali. Di tale appoggio Venezia avrebbe goduto in tutto il suo territorio per secoli. Lo stesso Macchiavelli scrisse, stupito, nel 1509: “…e tutto di occorre che uno di loro preso si lascia ammazzare per non negare el nome viniziano. E pure iersera ne fu uno innanzi a questo Vescovo, che disse che era Marchesco, e Marchesco voleva dire morire, e non voleva vivere altrimenti; in tal modo il Vescovo lo fece appiccare…” (Dove per Marchesco si intendeva S. Marco).

 

Loggia del Lionello – Piazza Libertà (ex Piazza Vittorio Emanuele II dopo l’Unità d’Italia, Piazza Contarena sotto Venezia, Piazza del vino in epoca medievale). Udine

 

I Turchi, che non preoccupavano ancora la Repubblica sul mare, arrivarono via terra. La loro cavalleria scorazzò in lungo e in largo nel Friuli per tutto il ‘400. Si infiltrò attraverso le vecchie strade dei barbari, devastando, uccidendo e bruciando. Percorsero all’incirca la zona degli Ungari, con danni spaventosi. L’esercito veneto non riuscì a seguire i loro spostamenti, le cernide poco poterono e i villaggi dovettero difendersi alla meglio. Un cronista veneto ha lasciato traccia che nel 1499 i Turchi bruciarono 132 villaggi. Oltre ai danni, per la popolazione si aggiunse l’obbligo di alloggiare, rifornire e pagare tremila fanti e seimila cavalieri. Per difendersi, la Repubblica fece costruire e rinforzare la fortezza di Gradisca e, visto il perdurarsi della minaccia, nel 1593 diede inizio alla costruzione della gigantesca fortezza di Palmanova. Opera che alla fine di eterni lavori rimase inutilizzata, nonostante l’enorme apporto di braccia e di denaro provenienti dalla Patria.

Fin dai primi anni della conquista, i Luogotenenti, diligenti, gelidi e disinteressati, mandarono rapporti al Consiglio dei dieci: “…Trovai che per il mancamento di popolazione, sono stati lasciati incolti 3.000 campi”. “…In questo Paese è una totale confusione”. “…Da sei anni la popolazione è diminuita di più di un quarto, dicono per sterilità, ma io stimo per il malgoverno dei feudatari”. “…I contadini sono in rovina e non hanno alcuna speranza di miglioramento”. Ecc. Nonostante ciò, il governo veneziano sancì in una sua Ducale: “Nostrae intentione fuit ed est quod nobiles omnes gaudere debent sine diminutione privilegis, concessionibus et immunitatibus…” In parole povere, i nobili avrebbero goduto “senza diminuzione” dei privilegi, delle concessioni e delle immunità.

 

Palazzo patriarcale (oggi Palazzo arcivescovile) di Udine – Sala del Trono e degli Affreschi.

 

Gli operai delle città erano nelle stesse condizioni, pagati metà in denaro e metà in pani, biave e vino, in modo da essere sempre frustrati e ingannati. Nel 1475, viste le inaudite condizioni di miseria, una legge Ducale vietò di sequestrare ai debitori gli strumenti di lavoro e i letti dove “j acent etquescunt a laboribus suis” (giacciono e riposano dalle loro fatiche). Venezia iniziò alla fine del ‘400 un processo inarrestabile di crisi monetaria, mentre contemporaneamente la diminuzione della popolazione generò effetti disastrosi nelle campagne. Il contadino, legato alla terra, fu soggetto a un sempre più forte indebitamento, che le tasse non contribuirono ad alleviare.

Da un lavoro di Tagliaferri su Udine, nel ‘500 si vide che dal secolo ‘400 al ‘500, il frumento subì un aumento del 250%, il miglio (cibo del povero) del 300%, il vino del 370%. Una casa piccola con orto costava d’affitto 24 lire, una media 31 lire e una con cortile e orto 74,8 lire, mentre il bracciante agricolo riceveva al mese 6 lire e 4 soldi con l’aggiunta di “polentam et caseum pro vieto suo“, ovvero polenta (non di mais, che arrivò solo nel 1600) e formaggio per il proprio vitto. Un mastro artigiano, “murarius“, un operaio molto specializzato, riceveva 26 soldi al giorno (una lira=20 soldi). I salari rimasero fermi, con l’aggiunta che di tanto in tanto, soprattutto fra gli impiegati pubblici (e Udine era una città di servizi) vigeva l’abitudine, nei momenti di difficoltà, di ridurre o togliere del tutto il compenso.

 

Duomo di Venzone (dopo la ricostruzione)

 

Nel frattempo un re di Francia scese in Italia con un esercito alla fine del ‘400, tornò in Francia dopo una battaglia di scarso valore apparente, ma lasciando cadere alle sue spalle il castello di carta della società italiana. In quella battaglia distrusse tutto il sistema feudale delle guerre. Quando il duca di Mantova, il giorno dopo la battaglia, si presentò al campo francese per riscattare i prigionieri nobili, secondo le antiche consuetudini feudali, si trovò di fronte alla notizia che erano stati tutti massacrati. Crollò il modo di fare la guerra, che l’artiglieria spagnola, pochi anni dopo a Pavia, avrebbe spazzato definitivamente dai campi di battaglia. Per cui anche la politica successiva dovette adattarsi.

Di Venezia si potrebbe dire ciò che Macchiavelli ha detto rivolto al Papato: “troppo debole per poter unificare l’Italia, troppo forte per essere distrutta”. E’ da qui che ebbe inizio il declino degli Stati nazionali, con la scoperta dell’America, ma pure l’occupazione turca degli spazi commerciali del levante. Le crepe si allargarono a causa della mancanza di un mercato nazionale unificatore, un controllo ferreo sulla nobiltà ribelle e la “rivoluzione dei prezzi” che avrebbe investito tutta l’Europa, dopo l’arrivo dell’argento e dell’oro americano. Venezia avrebbe continuato a commerciare con il suo arsenale, ma erano già nati in Olanda e in Inghilterra cantieri navali tecnologicamente più avanzati, quindi più concorrenziali. Continuò a resistere alla concorrenza, ma come corpo che svelava le rughe della vecchiaia. L’industria della lana, a fine ‘400 era già decadente, nel 1423 Venezia possedeva più di 300 navi, nel 1499 solo 107, mentre pagava ai Turchi forti somme per commerciare nel mar Nero.

Il rapporto fra la città e la terraferma non si stabilì su basi di parità, ma su quello del “dominio”. Allo stesso tempo ci fu un altro fatto che coincidette con la crisi che si abbattè, non solo a Venezia, ma sull’Italia intera. Lo storico francese Braudel, dimostrò che la scoperta dell’America non fu la sola causa del crollo economico e politico degli Stati mediterranei, ma vi contribuì il ritorno alla campagna da parte della nobiltà e della borghesia cittadina, per tutto il secolo successivo e il 1600 nella sua massima espansione. Fenomeno che alcuni storici chiamano: periodo della “reazione feudale”.

 

Fonti:

Gianfranco Ellero: Storia dei friulani
Tito Maniacco: I senzastoria