Friuli 24 – Lingua, arte e cultura nel periodo rinascimentale

Una caratteristica dell’arretratezza storica è quando una società civile non è in grado di costruire, formare e organizzare alcuna classe dirigente autonoma. Pur producendo dirigenti che fungevano da intermediari fra la classe dominante e quella dominata, parlando la lingua locale, sarebbe stata necessaria una forte incentivazione, perché questo gruppo di intellettuali riescisse a emergere e allo stesso tempo elaborare un sistema d’idee originali, basato sulle proprie tradizioni. In tutta la storia del Friuli questa categoria di intellettuali autonomi non si è mai formata. Dalle origini del sistema feudale, passando dagli Ottoni, con i Patriarchi ghibellini e quelli guelfi, la cultura friulana fu sempre bilingue, con il popolo che parlava friulano, lingua dei dominati, mentre i signori feudali il tedesco, lingua dei dominatori, ma soprattutto la cultura fu sempre quella della classe dominante. Per cui i pochi friulani più istruiti, impararono a usare il tedesco.

 

Basilica di Aquileia – Asini

 

La Chiesa riuscì a esprimere un’universalità che trapassò la cultura germanica, esprimendosi nella lingua dei dotti: il latino. Anche se l’alto clero fu feudale, in maggior parte tedesco, nel Patriarcato, dove aveva organizzato un eccellente rete capillare di potere sulle anime, il basso clero fu locale e usò la lingua friulana per comunicare con i cittadini e i contadini. Un fatto che consolidò lungo i secoli uno stretto rapporto prete-contadino, che continuò fino ai tempi moderni. Infatti scrittori e giornalisti, durante il sisma del 1976, riportarono che i preti erano i soli intellettuali organici dei friulani, ovvero gli unici che potevano coordinare i bisogni della gente.

Diverso fu l’aspetto della cultura laica. L’effetto politico di un potere feudale che guardò sempre all’Impero, impedì l’interesse di rivolgere lo sguardo all’Italia dei Comuni. La Chiesa fece costruire luoghi di culto con influenze romaniche, ma Gemona e Venzone, nel massimo del loro potere economico, presero il gotico come forma espressiva dominante. Solo tardivamente ci fu un volgersi definitivo verso l’Italia, con i maestri scultori di Como (maestri comacini) e Vitale da Bologna che con le loro opere, tutt’oggi evidenziano questo cambiamento. Contemporaneamente anche l’arte figurativa veneta fece breccia nel Friuli, nonostante l’area tedesca continuasse a inserirsi fra gli artisti del legno carnici.

 

Duomo di Pordenone – Madonna della Misericordia (Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone)

 

Ogni pittura evidenziava, nel paesaggio dietro la scena, commissionata da un privato, da una chiesa o una confraternita, la tendenza economica al possesso fondiario che il’500 ebbe come caratteristica costante e il ‘600 stabilì in modo definitivo. La campagna lavorata a regola d’arte non interessò più i pittori e questo non avvenne per ispirazione fantastica, ma perché faceva parte dello spirito del tempo. Tutto ciò è evidente nel massimo pittore friulano del Rinascimento: Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto il Pordenone (1483-1539). Nella Madonna della Misericordia, conservata nel duomo di Pordenone, si scorgono case rustiche, torri, dirupi, castelli merlati, alberi e pastori con le greggi. Lo stesso si osserva negli affreschi di un altro grande pittore friulano, Pomponio Amaldeo (1505-1588) nella chiesa dei Battuti di San Vito al Tagliamento. Nell’adorazione dei Magi l’unico dettaglio legato a una certa tradizione della visione idilliaca della campagna, può essere il contadino con il fieno e la ragazza con il secchio del latte. Ma si scorgono sempre rupi bizzarre, castelli e cacciatori.

Fra gli artisti locali da ricordare c’è anche Giovanni Nani meglio conosciuto come Giovanni da Udine (1487 – 1561), pittore, decoratore e architetto che lavorò nella bottega di Raffaello. Lasciò opere a Roma, Firenze e Venezia. Dopo il sacco di Roma (1527) da parte di Carlo V, tornò a Udine. Sua è la torre dell’orologio che si innalza su piazza Libertà, sopra la Loggia di San Giovanni.

 

Udine, piazza Libertà: torre dell’orologio di Giovanni da Udine (in primo piano a sinistra, la colonna con la statua della giustizia (1614)

 

La mutazione ideologica e degli interessi ebbe effetto anche sulla letteratura. Dopo il minnesanger ghibellino, gli intellettuali si interessarono allo stile romanzo e provenzale, riconoscendoli come parenti linguistici. Fra la fine del ‘300 e l’inizio del ‘400 apparve la prima poesia in lingua friulana da parte di un trobadour (trovatore). Un’altra, del 1416, è stata trovata in un libro manoscritto a Cividale. Il Conte Ermes di Colloredo (1622 – 1692) considerato fra i massimi poeti in lingua friulana, portò avanti un’operazione letteraria più complessa, manipolando la lingua dei contadini, per introdurla nella poesia pastorale, ponendo una netta separazione fra le figure retoriche e la considerazione realistica del mondo. Restò un tipo di poesia che comunicava sentimenti tra pochi, solo fra una ristretta cerchia di amici, che aveva come strumento di misura i pastori, la notte che calava, Diana, Amore, Apollo e le Muse. Ma la libertà di considerare il friulano come un “passatempo” (erano quasi tutti manoscritti) permise l’introduzione nitida e secca di particolari realistici nudi e “licenziosi”. Anche il notaio Eusebio Stella compose diversi manoscritti con poesie in friulano, che vennero scoperti e affidati alle stampe solo recentemente. Ma quando iniziò un’attività culturale, organizzata, con stampa e comunicazione, che aveva come meta l’Italia o la sola Venezia, quegli stessi autori scrissero nell’italiano dell’epoca.

Quindi, per secoli, la poesia fu privilegiata come forma letteraria della lingua friulana. I motivi si possono trovare nel fatto che una società arcadica e pastorale, la quale aveva come caratteristica una stragrande massa di contadini, con una piccola e debole borghesia cittadina, entrambe immerse in una complessa e articolata feudalità, trovò nell’elegia della campagna la fuga dalla realtà qotidiana e la negazione della dura fatica del contadino, cancellata dalla memoria e sostituita con alberi, cervi, pastori, pecore e capre belanti. L’affermarsi del genere che oggi si definisce “romanzo” avvenne solo nell’Ottocento.

Tutti le storie del Friuli, che i saggi storici riferiti a un determinato secolo, riportano i nomi di personalità dell’arte, della scienza, della cultura che il Friuli ha espresso. Lo studioso Giuseppe Marchetti (1902 – 1966) ci dedicò persino un libro: “Il Friuli – Uomini e tempi”. Eppure non si riuscì a cogliere l’esistenza di un gruppo dirigente intellettuale, sia pur modesto, in nessun secolo della millenaria storia raccontata, un ceto che abbia potuto rivelarsi, in qualche modo, elaboratore autonomo del modo di esistere e del vivere sociale del popolo friulano.

 

San Vito al Tagliamento, chiesa dei Battuti: “Adorazione dei Magi”  (Pomponio Amaldeo)

 

Una constatazione che vale per i laici, in quanto i preti (come s’è scritto) sono sempre stati un vero gruppo dirigente come componenti di una concezione del mondo universale (katholikós significa universale) e allo stesso tempo diffusori in tutti gli strati della società friulana (dai più bassi ai più alti). Per parlare agli strati bassi e più numerosi, hanno sempre usato il friulano e fu la stessa Chiesa friulana a ribadirne la necessità. Il Patriarca G. Dolfino, nel 1660 codificò la necessità di celebrare parti della liturgia in lingua “materna e vernacula” (vernaculus=domestico).

In realtà intellettuali ci sono stati, ma sempre assoggettati all’influenza di tedeschi, veneziani, austriaci, francesi e italiani. La miseria della loro condizione fu quella di poter avere, come garanzia d’esistere, la possibilità di entrare nel circuito della lingua e delle idee dei dominatori. Non usare il friulano per le loro opere fu quindi una fatale necessità imposta dalla Storia.

 

Organo del duomo di Valvasone (1533).

 

La storia del popolo friulano è sempre stata una storia fra dominanti e dominati, nel cui contesto ognuno delle parti usava una sua lingua. La lingua del “volgo”, del popolo, viene definita “dialetto”. La differenza sta nel fatto che la lingua entra in contatto con tutti i problemi sociali e storici. mentre il dialetto si riduce alle piccole comunità. Per cui chi parlava il dialetto, era costretto, per sopravvivere, a conoscere la “lingua”: leggi, carte bollate, comunicazioni ufficiali, petizioni, e chi non la conosceva era perduto. Per difendersi il dominato diventò bilingue, quando l’istruzione diventò un fatto esteso, sempre nella lingua dominante. All’oppressione del lavoro, il “villano” si vide aggiungere l’oppressione della lingua. Una forma di “dominio”, velata inconsciamente dall’altra lingua. Ma capì che se perdeva la sua lingua, non era nulla.

Fu un fatto storico l’ostinata resistenza del friulano. Per quanto un tempo si estendesse fino a Muggia e a Portogruaro, resiste ancora. Mentre nella stessa città di Udine, che avrebbe dovuto rappresentarlo come capitale storica, si imparò dai padroni veneziani un dialetto veneto, che solo negli ultimi decenni sta scomparendo, pur avendo (in parte anche ora) diviso l’assetto sociale: i poveri parlavano friulano, mentre i ricchi il dialetto “udinese”. (Negli ultimi decenni, grazie a leggi apposite, la lingua friulana si è estesa avendo il suo ruolo, Udine compresa, assieme alle minoranze storiche che parlano lo sloveno e il tedesco.)

 

Udine piazza Libertà: la Loggia di San Giovanni (1448 – 1517).

 

Allo stesso modo, tradizioni, proverbi, modi di dire, di essere, sono sprofondati nei secoli e vi affiorano solo frammenti di monumenti, elementi di un gigantesco puzzle, che solo una passione attenta e sincera può sforzarsi di ricostruire. La memoria collettiva tramanda riti e modi di essere ben più antichi del cristianesimo , anche se molti sono stati “cristianizzati”. Purtroppo non ci è dato di conoscere molto, perché il popolo non sapeva scrivere e la sua “saggezza”, le sue tradizioni, furono solo “orali”. Da tener conto che, in molti casi, ingenuamente, quello stesso popolo si sforzava di copiare i “signori”. Così tradizioni e costumi devono essere studiati “fra le righe”, perché ciò che a volte passa per costume popolare, non è altro che un’imitazione e lo stesso vale per i mobili popolari, che appartenevano solo ai contadini benestanti, lo stesso per le case.

Un ultimo colpo venne inferto alla musica popolare friulana, la villotta, di provenienza antica, dalle complesse esperienze aquileiensi: come si conosce oggi è solo un arrangiamento mielato e sentimentale. In questo modo chi costruisce un’immagine friulana su questi testi, inventa una realtà che non esiste. E’ molto più facile trovare la realtà di quei tempi leggendo gli interrogatori che la Santa Inquisizione faceva alle streghe, agli eretici e ai “beneandanti”. Fra le centinaia di confessioni (più o meno spontanee) che vennero estorte ai contadini, fra la fine del ‘500 e tutto il ‘600, con verbali molto accurati e pignoli, da dove emerge un tessuto che nel suo insieme, forma l’arazzo di un popolo.

 

Fonti:

Gianfranco Ellero: Storia dei friulani
Tito Maniacco: Storia del Friuli
Tito Maniacco: I senzastoria