Friuli 25 – La decadenza di Venezia

Dalle relazioni del Luogotenente veneziano Giuseppe Duodo del 6 marzo 1695: “I contadini sono fannulloni, beoni, non lavorano i campi, passano il tempo in osteria, e bestemmiano“. (Nel 1622 in Friuli si consumarono 40.000 conzi di vino e un conzo è pari a 79, 3045 litri…). In seguito (11 marzo): ” Contro irriverenti alle Chiese e ai luoghi sacri si eserciteranno li castighi conforme alla qualità degli eccessi, er delinquenti, con le pene cominate dalle Leggi del taglio della lingua, berlina, frusta, corda, prigione e bando…” Dato l’allargarsi di insulti alla religione “si riceveranno denunce segrete, per le quali sono esposte le casselle“.

La scarsa voglia di lavorare, l’abbandono dei campi, la diffusione a macchia d’olio di mendicanti, perdigiorno, imbroglioni è stato oggetto di studi accurati. Che i contadini fossero da poco, che l’agricoltura venisse trascurata, che il gelso, fondamentale per l’industria della seta, non venisse curato, che preferissero far lavorare donne e bambini può essere vero, anche se il pregiudizio nobiliare verso i poveri aveva la sua parte. Il problema è cercare di capire perché. E il perché, oltre lo scoraggiamento centenario che di generazione in generazione, passò alle famiglie per l’eccesso metodico di rapine, ruberie, incendi, furti legali, distruzioni da ogni lato, si troverebbe anche nell’alimentazione.

 

Aquileia – Monastero: Pavone della chiesa della Beligna del V sec. (Museo Paleocristiano)

 

L’intero arco dello sviluppo umano è stato determinato dalla netta divisione di chi lavora e cioè “produce” e di chi non lavora, ma “consuma”. L’ironia sta nel fatto che, per effetto di una complessa costruzione chiamata società, chi produce ha sempre avuto poco da consumare, al contrario di chi non produce che ha avuto molto, quando in astratto dovrebbe essere il contrario. Oggi si conosce il concetto di “caloria” per cui si sa che chi fa lavori pesanti ne consuma di più, mentre chi ne fa di leggeri o non ne fa per niente, ne consuma di meno. Lo stato di chi lavora tanto e consuma poco si chiama “sottoalimentazione” che è la madre diretta e riconosciuta della fame. Chi è sottoalimentato lavora male, come una macchina trascurata nella manutenzione.

La sottoalimentazione ingenera uno stato di spossatezza e svogliatezza, malattie, deformità permanenti ed ereditabili. Un dato indicativo dell’epoca è pervenuto dalla Genova del ‘600. Vennero fatti i conti della spesa di una famiglia nobile da luglio a gennaio (1614-1615) e contemporaneamente l’alimentazione di un galeotto (anche la Serenissima faceva ampio uso di galeotti e molti di essi erano friulani); inoltre il cibo del galeotto non differiva molto da quello di un contadino povero (anche se quello del galeotto era regolare). La famiglia Spinola consumava molto vitello, manzo, maiale, pollame, latte, pesce, pollame, uova, formaggio, zucchero, poco riso e poca pasta.

 

Forum Iulium. Karstia. Carniola. Histria et Windorum Marchie, in Italiae, Sclavoniae et Graecia. Tabulae Geographicae di Gerardo Mercatore, Duisberg 1589.

 

Il galeotto mangiava giornalmente 730 gr di biscotto inzuppato in acqua di mare, tre volte la settimana una minestra con 120 gr di fave e 26 gr di olio. A Carnevale, Pasqua, ai Morti e a Natale riceveva 300 gr di carne, 76 gr di riso e un boccale di vino. In pratica il galeotto consumava 2500 calorie al giorno per l’uomo a riposo, più 250/300 calorie all’ora per lo sforzo da lavoro. Il calcolo del fabbisogno è evidente, pur considerando che non remasse molte ore.

Il cibo del contadino friulano si basava su legumi e verdure, con pochissima carne, scarti di maiale alla macellazione, mentre latte e uova venivano venduti per ottenere il denaro sufficiente a pagare le tasse. L’alimentazione dei lavoratori in città non era diverso, in rapporto allo stipendio e ai prezzi delle derrate alimentari.

 

Castello di Udine – Sala del Parlamento

 

Nel ‘500, la galeazza fu l’ultima innovazione navale della Serenissima, impiegata nella battaglia di Lepanto (1571). Così pesante che i suoi 50 remi avevano bisogno di sette uomini ciascuno. Aveva sei cannoni a prua, sei a poppa e 18 al fianco. Poco più di 60anni dopo, nel 1637, la “Sovereign of the Sea” inglese aveva tre ponti e 100 cannoni, pesava 100 tonnellate e sparava proiettili da 32 libbre a una velocità elevata. Olanda e Inghilterra stavano dando inizio a una produzione standardizzata, cominciando a distanziare Genova, Firenze e Venezia, avendo già tutti gli elementi che secoli dopo avrebbero dato inizio alla rivoluzione industriale e al trionfo del capitalismo, mirando alla quantità, più che alla qualità.

Si stava entrando in un periodo storico dove nessuna società era un’isola a sé stante. La crisi che investì la Spagna ebbe ripercussioni in tutta Europa. Nessuno ne fu immune, soprattutto gli Stati più deboli economicamente. A Venezia le incapacità di ripresa economica furono proporzionali al suo peso fiscale in terraferma e le “colonie” di terraferma pagarono gli ultimi splendori della Serenissima. Il Friuli pagò per l’inutile fortezza di Palmanova: un grande ingegno militare, ma un peso inerte sul territorio, mentre 30.000 campi restarono incolti per debiti, tasse e insolvenze varie.

La costruzione della fortezza di Palma (Palmanova) iniziò il 7 ottobre 1593 a difesa del confine orientale contro il pericolo dei Turchi e delle incursioni degli Uscocchi, pirati del Quarnaro. Il governo austriaco protestò vivacemente, temendo che Venezia potesse servirsene per occupare la contea di Gorizia. Gli austriaci non poterono impedirne la costruzione, ma ci videro giusto, perché proprio dalla fortezza di Palma, con il pretesto degli Uscocchi che avevano messo a ferro e fuoco le terre di Monfalcone, a fine 1615, Venezia si mosse per occupare i territori arciducali sulla destra dell’Isonzo. Una mossa premeditata da tempo, il cui scopo era quello di riconquistare Gradisca, la città fortezza situata in posizione chiave.

 

Gradisca d’Isonzo – Porta Nuova

 

Il 24 febbraio 1616, il generale Pompeo Giustiniano assediò la città. A fianco dei veneziani c’erano le truppe friulane guidate da Carlo di Strassoldo, Urbano da Savorgnano, Vaterpoldo di Spilimbergo e Antonio da Manzano. La fortezza fu duramente bombardata, ma il comandante veneziano non vide possibilità di assalto. I morti veneziani e friulani arrivarono a circa quattromila, impressionando il Senato che ordinò di togliere l’assedio. La guerra continuò sanguinosa per mesi e mesi, spezzettata da azioni tattiche slegate tra loro. Le perdite veneziane furono tali da dover ingaggiare mercenari svizzeri e olandesi. Fu posto nuovamente il blocco a Gradisca, ma la città fortezza resistette ancora, pur a corto d’acqua e di viveri. Nel mese di novembre 1617 i veneziani erano pronti alla spallata finale, ma sopraggiunse un armistizio per opera di Filippo III di Spagna, che avrebbe ricostituito la situazione ante guerra con meticolosa precisione. Gli austriaci restituirono tutte le terre conquistate e i veneziani fecero lo stesso.

Lo storico inglese Sir John Rigby Hale (1923 – 1999) a proposito della guerra di Gradisca citò: “La guerra di Gradisca, ufficialmente non dichiarata, inconcludente, dispendiosa e ricomposta formalmente soltanto un anno dopo la sua conclusione, fu una guerra d’attrito atroce e interminabile, in cui non fu combattuta alcuna battaglia di qualche conto, né fu occupato alcun centro abitato importante.”

Fu una guerra che dimostrò l’arretratezza storica ed economica della Serenissima. Nello stesso periodo, gli svedesi sconvolsero il concetto stesso di guerra. Come il veliero inglese si lasciò alle spalle la galeazza, Gustavo Adolfo di Svezia adottò un moschetto molto leggero e introdusse le cartucce di carta, accrescendo la velocità e la potenza di fuoco del suo esercito. Fece abbandonare l’armatura e conservò solo l’elmo. Adottò tre tipi di cannoni: reggimentali, da campagna e da assedio. Il cannone reggimentale sparava proiettili da due chili e pesava 430 chili in meno di qualunque altro. Infine introdusse anche nell’artiglieria la cartuccia resistente all’umidità.

 

Vista aerea di Palmanova e dei suoi bastioni

 

Certo è, che ancora una volta, a causa dell’ennesima guerra, furono i poveri a pagarne le conseguenze: cronisti dell’epoca indicarono come nei primi anni del Seicento il Friuli fosse in miseria, colpito da carestie, febbri, malattie del bestiame e incursioni di lupi. Inoltre il numero degli abitanti della Patria scese (dovuto a pestilenze, carestie ed emigrazione) a 92.000 persone, contro i 250.000 del 1561, mentre Venezia incassò dalla tassa sui campi, solo nel 1636, la somma di 137.695 ducati. Il declino costante della nobiltà fu un declino che trascinò irrimediabilmente Venezia e con essa il suo entroterra. Ultimo lembo feudale, il Friuli non potè far altro che seguire il corso della Storia.

Il costo della vita era in costante aumento, lo stato delle terre non contribuì ad aumentare il reddito che si andava stringendo. Mentre di anno in anno, avvicinandosi al ‘700 e all’800, aumentò l’esigenza di mantenere il decoro verso la propria casata, il proprio stile di vita. Nonostante l’apparenza si spendeva molto. Alcune grandi famiglie spendevano cifre enormi, come i fratelli Manin che chiesero al comune di Udine di restaurare a proprie spese la parte superiore del duomo di Udine, dilatare il coro, introdurre due Cappelle più grandi, rifare pitture, affreschi e decorazioni. A fine lavori, la nota spese dell’architetto Domenico Rossi così premetteva: “Avvertendo che il suddetto conto non potrà essere esato…” La somma definitiva era di 32.108 ducati.

Gli Strassoldo nel 1692 chiamarono il Quaglio (1668-1751), che si trattenne in Friuli fino al 1700, per dipingere il loro palazzo; mentre i Manin, dopo la Cappella del duomo, già progettavano la loro villa di Passariano (dove in seguito dimorò Napoleone). L’arcivescovo non fu da meno e fece venire a Udine Giambattista Tiepolo per affrescare il palazzo arcivescovile, appena terminato.

 

“Rachele nasconde gli idoli” – Gianbattista Tiepolo (Affreschi dell’Arcivescovado di Udine)

 

Il decoro e la forma che precedentemente si esprimevano con i cavalli e le armi di alto valore, in questi secoli s’espressero nelle feste, nei giochi, nelle carrozze, nelle case di campagna, che persero il loro valore, ormai anacronistico, di economia curtense, diventando luoghi di villeggiatura. In diversi casi mantennero la vecchia funzione e si badò solo a separare con alberi o muri la parte produttiva, da quella scenografica dello spreco.

La Villa Manin di Passariano rappresentò, nella sua megalomania, l’alto grado di sfruttamento a cui vennero soggetti i contadini e nonostante la sua grandezza innaturale, fuori misura, non nasconde la sua grettezza dovuta non solo all’architetto, ma anche del nobile, in quanto il rapporto fra l’artista e il committente era molto stretto: entrambi facevano parte (per poco ancora) dello stesso modo di vedere il potere, il possesso, il dominio e la direzione della cosa pubblica. Il risultato di tutto ciò, fu che verso la fine del 1600, solo il 3% della terra era a conduzione diretta, mentre il 57, 5% era in affittanza in natura o in natura e moneta, il 13% solo in moneta. Poco prima della caduta, i possessi di nobiltà e grossa borghesia in Friuli passarono da 23.360 ettari nel 1636 ai 42.630 del 1740.

 

Passariano (UD) – Villa Manin (dimora di Ludovico Manin, ultimo doge di Venezia)

 

Nel 1773 il teologo e giurista udinese Paolo Canciani così si espresse: “…ma finché i proprietari delle terre misureranno la loro grandezza dalla pompa con che vanno vestiti, dall’equipaggio che li circonda e dal potere in ozio godere di certi privilegi e finché essi disprezzano il resto della popolazione che nelle nostre campagne fa professione di fatica e travaglio“.

 

Fonti:

Tito Maniacco: I Senzastoria
Tito Maniacco: Storia del Friuli