Friuli 26 – Cibo dal Nuovo Mondo

I contadini tedeschi e svedesi, sassoni o boemi, austriaci e slesiani, protestanti o cattolici, videro le loro terre sconvolte, come i contadini friulani, con le continue carestie e la peste che regolarmente riappariva. Così l’antica compagna, la fame, prese un posto stabile nel “fogolâr“. Poi qualcosa venne in aiuto al contadino. Colombo voleva dimostrare che la Terra era rotonda, mentre Isabella voleva contrastare i Portoghesi, così gli Spagnoli saccheggiarono l’oro e l’argento dei Maya, degli Inca e degli Atzechi. Gli Inglesi rubarono l’oro agli Spagnoli con le loro navi corsare. L’oro e l’argento, invece di portare prosperità in Europa, portarono una grave crisi economica. Più di mezzo milione di tonnellate di merci andarono e venirono da Siviglia all’America fra il 1506 e il 1560, poi fra il 1606 e il 1610 (quattro anni) le tonnellate diventarono 273.560. Tutti rimasero colpiti dai pappagalli, dagli “indiani”, dall’oro e dall’argento, ma come “curiosità” viaggiarono anche il mais e la patata.

 

Basilica di Aquileia – Coniglio bianco

 

Il mais possedeva caratteristiche che attirarono l’attenzione e la Serenissima comprese subito l’importanza della pianta: aveva la proprietà di adattarsi a qualunque tipo di terreno, anche sterile. Inoltre poteva essere coltivato anche in zona di montagna: il Bellunese e la Carnia ne avrebbero tratto vantaggio. La resa per ogni chicco era alta, facile la semina, l’erpicatura e il raccolto. Inoltre, se il mais attraeva i governi per far fronte alle carestie, altre qualità, più opportuniste, interessarono i proprietari terrieri. Allo stesso tempo si sarebbe diminuito il già basso consumo di grano da parte di una popolazione troppo povera, riservandone di più al’esportazione (con il relativo aumento dl reddito in denaro). Infine la lavorazione del mais era così facile da condurre, che non sarebbero serviti neppure i mezzadri, bastavano donne e bambini. Così si espresse un proprietario terriero veneziano in una lettera: “Si possono in tal modo impiegare braccia che in caso diverso restano inutili, cioè dei fanciulli persino dell’età di 12 o 14 anni ed anche più teneri“.

La pianta del mais conquistò rapidamente tutta l’Italia settentrionale, salendo dalla pianura alla montagna. Nel ‘700 divenne il cibo fondamentale del contadino e del montanaro friulano. Si sviluppò una coltivazione intensiva tale, da cambiare radicalmente il paesaggio agrario friulano, con conseguenze anche sul microclima locale. Tutta una cultura alimentare si innestò sul mais. L’attuale sensazione del friulano è che la polenta sia il suo cibo essenziale da sempre, come in una memoria antichissima che ne avesse tramandato l’uso e abbia fatto nascere un rituale complesso, collegandolo al “fogolâr“, ai proverbi, agli svariati modi di cucinare. Eppure i documenti indicano con precisione che il mais in Friuli arrivò solo nel 1627. Con il mais si sbloccò la costante diminuzione degli abitanti e la popolazione tornò a crescere.

 

Campi di mais in Friuli, attualmente grande produttore di granoturco dolce e mais da polenta.

 

Ma come ogni cosa contiene profonde contraddizioni, tutto è pregno del suo contrario: alla fine del ‘700 furono visibili gli effetti della monoalimentazione. La combinazione del forte consumo (in Carnia si arrivò agli estremi: visto che i piccoli poderi non riuscivano a farne scorta per tutto l’anno, scendevano a valle per vendere il poco burro, latte, uova, formaggio, per acquistare scorte sufficienti di farina da polenta), della scarsa cottura (c’era poca legna a causa del disboscamento e delle alluvioni: i contadini del Friuli centrale cuocevano usando sterpi e sterco secco animale), unito all’alto costo del sale a causa delle forti tasse, rigenerarono la sottoalimentazione, dopo l’illusione di averla debellata.

La mancanza di grassi, sale e vitamine determinò l’insorgere di un flagello enorme: alla fine del ‘700 buona parte dei contadini e degli abitanti poveri delle città era affetto dalla pellagra. La pellagra è una malattia determinata essenzialmente da carenze vitaminiche. Colpisce l’apparato digerente e il sistema nervoso. Sulla pelle compaiono piaghe, soprattutto nelle parti scoperte. Nel 1813 nel distretto di Sacile più di 1/3 della popolazione era colpito dalla pellagra. Nel 1815 in Friuli i podagrosi erano 17.310. Nell’anno della Rivoluzione Francese, la mortalità infantile in Friuli da 118,81 per mille, era salita al 300 per mille.

 

L’Abazia di Rosazzo fra i vigneti

 

Alla difficile situazione alimentare si sovrappose nel 1716 un’ulteriore forte tassa sul sale. Partì dal goriziano, dove l’Imperatore Carlo V, in guerra contro i Turchi, era alla ricerca di soldi e pensò bene di toglierli dalle misere tasche dei suoi sudditi. A Tolmino (Slovenia) scoppiò una rivolta e i capi vennero imprigionati nel castello di Gorizia. I compaesani si avvicinarono alla città, ma vennero respinti, così distrussero una casa nobiliare, prima di gettarsi contro il castello di Duino. Il conte, “per calmarli”, li prese a cannonate uccidendone cinque. La notizia arrivò a Udine, dove la situazione era simile, come scrisse un cronista dell’epoca: “Premendo soldi a Cesare, impose datij; premendo anco alla Serenissima Repubblica, ne impose ancor ella… oltre a questo acrebbe il datio sulla macina, solita pagarsi sopra li formenti, et sigale, volgarmente detto delli grossami. Aggiunse anche datio sopra li sorgo-turchi, et altre biade detti li minuti“.

Così a Udine gli abitanti dei borghi Villalta e San Lazzaro si radunarono, formando un corteo diretto al Castello. Qui il Luogotenente Bastian Mocenigo li assecondò con belle promesse, cercando di rimandarli a casa. Ma la massa non convinta si diresse verso Mercatonuovo (oggi piazza Matteotti) e assalì la casa dell’appaltatore daziario, morto mesi prima, rubando ferramenta e altri oggetti. Si unirono altri contadini e poveri, ma vennero placati da ulteriori vaghe promesse. Qualche mese dopo gli sbirri presero i Decani dei due borghi, li portarono a Venezia e di loro non se ne seppe più nulla. Nessun ricordo rimase di queste persone affamate, spinte da una volontà di equità e giustizia.

 

Castello di Duino

 

La prima volta che il nome patata venne a conoscenza degli europei, fu in Colombia, in una relazione di viaggio del 1536. Nel 1597 comparve in un erbario inglese. In Italia ne parlò per primo Girolamo Cardano e nel 1667 Francesco Redi, medico, biologo e poeta al servizio dei Medici, fu il primo ad assaggiarla, lessa, tagliata a fette, infarinata e cotta nel burro e ne fu soddisfatto.

Eppure la coltivazione della patata fu assai limitata. Qualcosa sembrò trattenere i contadini, nonostante la semplicità della semina, la facilità della coltivazione, l’eccellente resistenza al freddo e all’altezza (il più alto campo di patate al mondo è stato trovato sulle Ande a 4419 m di quota) la buona produzione e la notevole capacità nutritiva. Vi era nella patata qualcosa che appariva maligno, forse per la sua somiglianza alla mandragola. Dal suo crescere nell’oscurità della terra, emanava un’aurea impercettibile, ma ben presente nelle coscienze del tempo: il buio profondo della terra generava paure e sospetti. Si diceva fosse velenosa come la belladonna, ma si parlò anche della patata come portatrice di lebbra, di febbri, di mal sottile. Un tubero di dubbia provenienza, che poteva raccogliere i malefici succhi di altre piante, di erbe e di minerali. Nonostante l’ampia divulgazione delle varie autorità, in un mondo dove le streghe formavano una cultura “altra”, antiumana, anticristiana, pregiudizio e superstizione ebbero la meglio.

 

Centro storico di Spilimbergo

 

La lentezza in cui progredì venne documentata da una tabella olandese che va dal 1739 al 1756: il primo anno ci fu un solo coltivatore con 0,65 ettari, nell’ultimo anno i coltivatori furono nove con con 12,09 ettari. La patata finì per venir coltivata nei momenti di carestia, negli anni difficili del ‘700, che non fu un secolo caldo. I primi a venir presi per fame furono gli irlandesi (i quali ci si abituarono talmente che, quando le coltivazioni vennero colpite dalla peronospora (1845 – 1848) rimasero senza difesa di fronte a una spaventosa carestia che ne uccise a migliaia e altrettanti li portò a emigrare in America). Mano a mano che la fame estese le sue dita gelide, il tubero si ramificò e si consolidò, partendo dai Paesi Bassi attraversando la Germania. Paesi dove divenne talmente importante, che la guerra di successione bavarese  del 1778 – 1779, venne chiamata “guerra delle patate”, dove gli eserciti finirono per scontrarsi in Boemia, al solo scopo di accapparrarsi i territori coltivati a patate, per sottrarli al nemico. Come il mais non fu la panacea di tutti i mali, ma la triade americana: fagiolo, mais e patata fu determinante per la sopravvivenza del contadino europeo dell’epoca.

Nel 1829 tutta l’Europa mangiava patate, ma il Friuli ancora resisteva. Veniva coltivata solo nella Bassa friulana e in Carnia, ma con motivazioni diverse: nella prima zona dove la terra è più fertile, come cibo per il bestiame; nella seconda, dove il suolo e il clima montano sono disagevoli, per essere mangiate. E non fu un caso che in Friuli il nome derivò dall’italiano, mentre in Carnia, zona di emigrazione, non sembrò fuori natura mangiare le patate come i loro padroni tedeschi e austriaci, quindi il nome provenì dal tedesco e tutt’ora viene chiamata “cartùfule”.

Significativo fu che nel periodo intercorso fra la caduta della Serenissima (1797) e la pace di Presburgo (1805), il prezzo della patata salì, per poi crollare da 14 soldi veneti e 35 centesimi, a 3 centesimi la libbra nel 1810. L’impennata venne provocata dalle truppe austriache presenti nel territorio e il crollo del prezzo coincise con il loro allontanamento. Nonostante il successivo ritorno degli austriaci, la diffidenza verso quel tubero fu veramente inspiegabile, tanto che ancora nel 1816 l’arciduca Ranieri fu costretto ad appoggiare gli sforzi del governo austriaco in quel settore. Poi qualcosa si mosse lentamente: se ne accorsero i preti che cominciarono a chiedere la decima sulle patate, cosa che fino a poco prima nessuno s’era curato di chiedere.

 

Borgo di Villalta di Fagagna

 

Un ulteriore paragrafo sulla distruzione dei boschi della Carnia. Non è mai esistito un rispetto del bosco che avesse avuto origine dall’animo umano, dalla contemplazione o dalla sensazione di forza e bellezza che produce una distesa di alberi. Inizialmente il rispetto religioso del bosco resistette solo fino a quando divenne necessario il terreno produttivo e il legname. La leggenda del bosco medievale incontaminato è sfatata non solo dalle leggi contro l’eccessivo numero dei porci, ma anche dalle leggi contro il taglio. Si può ben dire che anche nel periodo della rivoluzione industriale, il legno fu sempre determinante, tanto da poter definire la civiltà di larghe parti del pianeta: “civiltà del legno”. Il legno interessò tutti gli Stati, ma per quelli a vocazione marinara fu una questione di vita o di morte. I secolari rapporti dell’Inghilterra con la Scandinavia vanno addebitati alla distruzione delle sue foreste.

Venezia ebbe a cuore i suoi boschi. Ma è un fatto che la sua legislazione non abbia evitato del tutto la loro distruzione ed è ancor più evidente che la rapina dei boschi della Carnia, nonostante fosse razionalizzata e istituzionalizzata, abbia portato al degrado e allo scempio del territorio. E ciò non lo si può imputare in nessun modo ai contadini e ai montanari: le leggi sui furti nei boschi avevano eredità antichissime ed erano molto severe per ciò che riguardava la singola pianta, generalmente tagliata per piccole necessità familiari. Al contrario la quantità di legname necessaria a una galera del ‘500, documentata da Frederic Chapin Lane, storico statunitense, era enorme: oltre il 50% con travi di quercia, poi larice, abete, olmo, noce e faggio, di svariate misure.

La cura dei boschi non fu sempre ciò che ci si aspettava, per pigrizia, lassismo, burocrazia, avidità, interesse, incuria. Nel ‘500 il bellunese Giorgio Piloni, affermò che le piene del Piave avvenivano “perché venendo tagliati e spiantati li boschi sopra li monti, e sapandosi il terreno quando vengono le piogge, non si fermano ponto le Acque […]”. Un anonimo, preoccupato, scrisse: “L’altra ragione per cui al Friuli mancano fiumi navigabili, deriva dalla qualità de’ suoi monti. Questi sono per lo più sterili, aridi, composti di sassi, di scoglio, di marmo, atti a trasmettere immediatamente al basso tant’acqua, quanta ne hanno ricevuta dall’alto” (Bruno Vecchio). Eppure nella prima metà dell’800, la scrittrice friulana Caterina Percoto scrisse un racconto, oggi impensabile, riguardo una famiglia di boscaioli della Carnia impegnata nel trasporto di legname per via d’acqua.

 

Foresta millenaria di Tarvisio (Allora territorio austriaco)

 

Fin dal 1542 un terzo dei boschi friulani era sotto il controllo diretto della Serenissima, ma quando le guerre chiedevano soldi, questo svaniva. Già nel 1646 vennero venduti i boschi ritenuti “superflui”. In realtà, secondo il Vecchio, non vennero venduti quelli superflui, ma i meglio tenuti per invogliare gli acquirenti, che dettero immediatamente inizio al taglio. Il Livenza all’epoca patriarcale era circondato da innumerevoli querceti, controllati da leggi severe, che non impedirono la loro lenta scomparsa, perché non solo si tagliava indiscriminatamente, ma non ci si preoccupava neppure di ripiantare. Venezia varò una legge per proteggerli nel 1470, senza successo. In seguito costituì i “boschi di riserva” e nel 1581 ve ne inserì 47 della Carnia, poi altri 42 nel 1741, ma il degrado proseguì implacabile.

Tito Maniacco, già negli anni 1970 scriveva: “il destino dei boschi indica che il controllo dell’uomo sulla natura è un controllo precario già come assetto teorico, ancor più quando questo “dominio” significa rapina dello spazio e distruzione incauta o metodica, per egoismo o a “fin di bene”. Non si dovrebbe più parlare di “dominio”, ma di interdipendenza e di equilibrio. Un’interdipendenza che si ottiene solo con lo sforzo costante per conoscere le leggi della natura, senza forzarle oltre il limite”.

 

Fonti:

Tito maniacco: I Senzastoria
Tito maniacco: Storia del Friuli
Gian Carlo Menis: Storia del Friuli