Friuli 9 – Alboino e i Longobardi

Gli ultimi anni del regime dittatoriale di Narsete, divennero più autoritari dopo la morte di Giustiniano (565). Il vecchio generale, sopraffatto dalla rivolta dei latini angosciati dalla sua oppressione, con un gesto disperato rivolse aiuto altrove ingaggiando milizie straniere. Ma mentre era in corso di trattative con i Longobardi, allettati da lauti compensi, fu rimosso dalla carica per ordine di Costantinopoli (567). Nel frattempo i Longobardi si erano accalcati ai confini del territorio friulano e non vollero arretrare, così si mutarono da alleati in conquistatori. Pare siano entrati dal Pons Sontii, il solito ponte in pietra sull’Isonzo, dopo aver lasciato la loro terra, la Pannonia, agli amici Unni, con i quali stipularono il patto che, nel caso fossero tornati, se la sarebbero ripresa (Paolo Diacono, Historia longobardorum).

Ma non tornarono.

 

Migrazione dei longobardi

 

Alboino, nell’anno 568, salì sul monte dal quale potè guardare tutta la pianura friulana dove, nominalmente, regnava il grande impero creato da Giustiniano, ispiratore con il suo “Corpus juris” di tutte le legislazioni d’Europa per secoli, datore di lavoro dell’architetto che creò la maestosa cupola di Santa Sofia. Un impero che dominava quello di Augusto, ma non riuscì a evitare che un popolo di non grande entità (si calcola che Alboino non avesse più di centomila uomini, tanto che gli servì l’aiuto di 20.000 guerrieri sassoni, ipotizzando una popolazione, fra vecchi, donne e bambini attorno alle duecentomila/trecentomila persone) entrasse in Italia dai limes fortificati del Friuli, e nello spazio di un anno arrivasse a porre la capitale del suo regno nella città di Pavia.

Per la cronaca locale, s’è discusso e rimane controverso quale fosse il monte su cui salì Alboino e da quale valle entrò. Alcuni storici indicano la valle del Natisone e il monte Matajur. Ma Paolo Diacono scrisse che da quel giorno, quello in cui salì, venne chiamato monte Re e ancor oggi sopra il passo del Preval, a 577 metri c’è il Monte del Re. Lo storico Bosio suppone che l’avanguardia si fosse divisa presso l’attuale paese di Kalce in Slovenia e abbia raggiunto Aidussina, mentre il grosso dei carriaggi e famiglie li raggiunse attraverso Postumia. Superato l’Isonzo, per non incorrere nelle truppe bizantine, che con le loro flotte pattugliavano l’Adriatico, si diressero a nord verso Cividale, città che Alboino nominò capoluogo.

 

Vista dal monte Matajur

 

Il re, entrato senza alcun ostacolo nei confini della Venetia et Histria, la prima provincia italiana, nel territorio di Forum Iulii, pensò a chi doveva affidare quella conquista. Tutta l’Italia è una penisola circondata dai mare e chiusa a settentrione dalle Alpi invalicabili, se non fra strette gole o alte cime. Ma da quel lato, che la unisce alla Pannonia, ha valichi larghi e agevoli, di facile transito. Per questo lasciò a capo di tutta la regione il nipote Gisulfo, uomo abile e di fiducia, che era anche suo scudiero (marphais in longobardo). Gisulfo accettò l’incarico solo a condizione di poter scegliere le fare, cioé le stirpi e le famiglie armate. Alboino accettò e gli fece prediligere le principali casate e le più solidali nel loro orgoglio etnico, ovvero le più nazionaliste. Ottenne così il titolo e gli onori di duca. Fu pure accontentato quando chiese mandrie di cavalle di buona qualità. In quell’anno, il beato patriarca di Aquileia Paolo, si rifugiò da Aquileia (ormai in rovina) a Grado, con tutto il tesoro della chiesa.

Pare fosse caduta tanta neve, per cui i Longobardi soggiornarono in Friuli e ripresero la marcia verso l’Italia solo l’anno successivo, nel 569. Per tutto l’anno stanziarono nella pianura friulana e l’invasione avvenne lentamente, senza incontrare alcun ostacolo.

L’anno seguente Alboino varcò il Livenza, aggirò Oderzo bizantina, accolse l’omaggio di Treviso e puntò verso Milano. Poi ripiegò a Pavia, dove trovò la prima e unica resistenza. Dopo tre anni si era impadronito di gran parte dell’Italia. Ai Bizantini rimasero le coste venete con Oderzo, L’Esarcato, la Pentapoli (tra Rimini e Ancona) Il Lazio, La Calabria e le isole. Prese consistenza quel regnum Longobardorum che per la prima volta in otto secoli, spezzò l’unità politica, sociale ed economica dell’Italia Romana. Il lento substrato del mondo germanico su quello romano, che apparentemente non mutò nulla, in realtà preparò i presupposti di un nuovo modo di intendere il mondo e la società. Il dominio longobardo, la sua presenza, le sue generazioni, furono quelle che prepararono le condizioni per la nascita della società feudale, anche se fu colto solo successivamente con la dominazione dei Franchi.

 

L’Italia Longobarda

 

I Longobardi ebbero la notevole caratteristica di porre molta attenzione sulla produzione, problema tenuto spesso in scarsa considerazione dagli storici. Per produrre è necessario che i rapporti di proprietà vengano regolati esattamente con un ordine gerarchico, fra chi comanda, chi lavora, chi combatte e chi dirige. La differenza principale con le precedenti civiltà romane e bizantine, era che in quest’ultime il rapporto giuridico si basava fra liberi e servi (anticamente schiavi). Nella società Longobarda le classi erano diverse: gli edelingi, i nobili longobardi; gli arimanni, o faramanni, uomini liberi al servizio del re o del duca, gli aldii, servi liberati che non potevano abbandonare il padrone senza il suo consenso; legalmente erano equiparabili alle donne, avevano bisogno di un libero maschio che li tutelasse. Gli aldii avevano rapporti complessi, definiti per iscritto all’atto della liberazione e furono uno strumento importante nell’economia longobarda. Poi i servi, trattati con una certa liberalità, che facevano parte della famiglia e infine i guarganghi, l’infimo gradino della scala sociale, perlopiù stranieri.

Dalle tariffe pervenute, anche gli artigiani ebbero un certo impulso, ma fu più complesso il problema delle coltivazioni con l’abbandono delle terre che caratterizzò tutto quel periodo, rimaste a prato aperto o a bosco. Eppure l’economia agricola non fu del tutto abbandonata, nonostante i numerosi riferimenti nei codici di quel tempo a terre incolte, si organizzò un’economia prevalentemente forestale. Nelle foreste di querce, grandi branchi di maiali (diversi dagli attuali perché incrociati con i cinghiali) diventarono economia di sussistenza. D’altronde la perdita subita dai grassi, con l’abbandono dell’ulivo, venne compensata dal maiale. I Longobardi allevavano i cavalli, per cui si rese indispensabile la riorganizzazione del suolo con cereali “inferiori” che richiedevano meno lavoro che il frumento. Anche le popolazioni celte, prima dei Romani, usavano il lino come cibo, così coltivarono miglio, panico, sorgo, spelta, segale e orzo. Cereali tipici delle zone fredde, che probabilmente lavoravano prima dell’invasione. Caccia e pesca supplivano alla carne che i pascoli non producevano.

 

Ducato longobardo del Friuli

 

La natura guerriera restò sempre legata nei loro costumi e nella loro natura, tanto che anche durante la vita sociale, gli uomini liberi dovevano sempre essere pronti a imbracciare le armi e combattere. Infatti nelle tombe vennero costantemente ritrovati, come corredo funebre, coltelli, spade, lance, scudi ecc. Dalla natura delle armi si può risalire all’appartenenza del defunto ad uno dei tre gruppi in cui era diviso l’esercito: i majores, i mediani e i minimi. Ognuno di loro era obbligato a procurarsi l’equipaggiamento appropriato al proprio rango.

Coerente con quanto sopra, è la netta separazione della popolazione autoctona, soprattutto nel primo periodo. Ciò permise da un lato di conservare le strutture amministrative e sociali romane ancora superstiti, assicurando stabilità e continuità, ma allo stesso tempo di esercitare un’attività di controllo e di accentramento della vita cittadina. Ciò è rilevabile a Cividale, dove ancora nel VII secolo, gli abitati longobardi nella zona orientale di porta Bressana, formavano un agglomerato “etnico”, ben distinto dalla rimanente popolazione (Brozzi, Tagliaferri)

 

Borgo Longobardo di Cividale del Friuli – porta Bressana

 

Ai tempi di re Autari, una parte delle proprietà il padrone le fece coltivare direttamente, mentre l’altra veniva data ai coloni che gli dovevano il famoso terzo (partes agrarie) che poteva essere di qualsiasi natura: una parte del prodotto, lavoro, servizio di buoi e cavalli. Fu l’inizio delle famose corvée. Si affermò pertanto quell’ordinamento curtense che diede il via alla rinascita dell’agricoltura, soprattutto dopo l’essersi instaurata una pacifica convivenza e una fruttuosa collaborazione con i locali.

La minuta trama dei nuovi insediamenti, che si intreccirono con il precedente tessuto, fu particolarmente fitta nel Friuli centrale, intravista a posteriori dai documenti, dai ritrovamenti archeologici, dai toponimi ecc. Come accennato, furono numerose le tombe, sicuramente longobarde, scoperte nella pianura friulana, fra tutte, la necropoli della curtes di San Salvatore di Maiano. Ottantatrè tombe, databili al VII secolo, con fosse allineate in file parallele, i corpi posti direttamente nella terra con i piedi rivolti a oriente, che possedevano il solito corredo formato da spade, lance, fibule, speroni, scudi, coltelli. In una sola fu trovata una croce rivestita d’oro, con ornamenti a intreccio di tipo germanico arcaico.

 

Corno Potorio - Museo Archeologico Nazionale, Cividale
Corno Potorio – Museo Archeologico Nazionale, Cividale (Necropoli di San Mauro)

 

Le esigenze delle difese, esigevano nella periferia stanziamenti diversi. Le arimannie, gruppi armati di guerrieri di mestiere e ben pagati (Wernier) alle dirette dipendenze del re, formavano uno sbarramento verso l’esterno e una fitta rete di presidi all’interno. Il territorio era diviso in circondari detti sculdascie, dai comandanti sculdasci, articolati in distretti minori detti centene (100 soldati) o degragne (10 soldati), che gravitavano attorno al castrum. Paolo Diacono ricorda i principali castrum, dai quali si può disegnare la linea difensiva dei Longobardi: Cormones (Cormons), Nemas (Nimis), Artenia (Artegna), Osopo (Osoppo), Reùnia (Ragogna), Glemona (Gemona) e Ibllìgine (Invillino). A oriente Cormons costituiva il fulcro di un sistema di arimannie destinato a barrare la valle del fiume Judrio e la via che dalla Pannonia, giungeva al Pons Sontii, ma contemporaneamente anche la strada che da Aquileia giungeva a Cividale, sbarrando la strada ai Bizantini.

Sul grado di civiltà raggiunto dai longobardi, in Friuli c’è molto materiale raccolto a Cividale e nelle tombe sparse su tutto il territorio. Ceramica, oreficeria, fabbricazione di armi e filatura della lana. Allevamento del cavallo e caccia al cinghiale, ma nessuna testimonianza di attività agricola diretta. La presenza di ambra, alabastro e vetri bizantini confermano un discreto sviluppo commerciale. Ma l’insediamento longobardo in Friuli, formato “dalla più rigogliosa delle orgogliose gens longobardorum” (Leicht), assunse aspetti inediti, rispetto alle precedenti invasioni, tale da giustificare pienamente il suo futuro cambiamento politico e sociale, i quali furono strettamente connessi sia agli statuti costitutivi del ducato, sia con il ruolo politico e strategico che venne ad assumere, nel quadro generale del regno italico.

 

Fonti:

Gian Carlo Menis: Storia del Friuli
Gianfranco Ellero: Storia dei friulani
Tito Maniacco: Storia del Friuli
Tito Maniacco: I senzastoria
Elio Bartolini: I Barbari.