I gatti dell’Ermitage

 

Il Palazzo d’Inverno, residenza della famiglia reale degli zar, fu realizzato da Francesco Bartolomeo Rastrelli (figlio di Carlo Bartolomeo Rastrelli, scultore e architetto fiorentino, emigrato in Russia al seguito di Pietro il Grande) durante il regno di Elisabetta di Russia e completato nel 1772. Successivamente Rastrelli figlio progettò diverse altre imponenti opere a San Pietroburgo, finché uscì dalle grazie imperiali dopo una vivace discussione (a San Pietroburgo si dice che litigò furiosamente) con Caterina II la Grande, ritirandosi in Curlandia, dove sembra si dedicò al commercio illegale di opere d’arte.

 

Il Piccolo Ermitage a sinistra del Palazzo d'Inverno
Il Piccolo Ermitage a sinistra del Palazzo d’Inverno

Il Piccolo Ermitage fu commissionato da Caterina II a Georg Friedrich Veldten (architetto russo di origine tedesca, assistente del Rastrelli) e Jean-Baptiste Michel Vallin de La Mothe (architetto francese, in Russia diretto rivale di Antonio Rinaldi, architetto romano allievo del Vanvitelli) per avere un “piccolo” rifugio privato, fuori dai trambusti di corte, venendo collegato al palazzo principale attraverso una galleria. Fu qui che Caterina espose le sue prime opere acquisite.

 

 

 

Teatro dell'Ermitage - interno
Teatro dell’Ermitage – interno

Anche il Teatro dell’Ermitage fu voluto da Caterina la Grande come teatro di corte degli zar. E fu Giacomo Quarenghi (architetto bergamasco) che lo progettò, ispirandosi al Teatro Olimpico di Vicenza.

Il Grande Ermitage (o Vecchio Ermitage) venne costruito nel 1787 su progetto di Georg Friedrich Veldten per esporre la collezione di opere in rapida ascesa. E’ l’edificio meno decorato del complesso

 

 

Il Nuovo Ermitage
Il Nuovo Ermitage in un’imagine d’epoca

Il Nuovo Ermitage fu realizzato da Leo von Klenze (architetto, pittore e scrittore tedesco) e non si trova lungo la Neva, ma dietro il Vecchio Ermitage. Eretto nel XIX secolo si discosta dagli altri fabbricati con una concezione architettonica assestante. Venne aperto al pubblico nel 1852 da Nicola I e fu l’unico edificio costruito in Russia per essere adibito a museo. Le grandi architetture del porticato, di Alexandre Terebeniov, sono state ispirate ai templi di Agrigento.

 

 

 

Il Palazzo dello Stato Maggiore
Il Palazzo dello Stato Maggiore

Sulla Piazza, di fronte al Palazzo d’Inverno, si erge il grande complesso del Palazzo dello Stato Maggiore, progettato da Carlo Rossi (architetto napoletano naturalizzato russo) agli inizi del XIX secolo, in stile imperiale. Gli interni dell’ala orientale sono stati ristrutturati e attualmente fanno parte del museo, dove si trovano esposti i vari Maestri del XX secolo come Matisse, Kandinsky, Malévitch, Kabacov. Sono stati aperti al pubblico nel 2014.

 

 

Tutti questi edifici (compreso il Palazzo Menšikov, il Palazzo di Costantino e il deposito di Staraja Derevnia situati altrove, oltre alle altre sedi in Russia e all’estero, fra le quali Ferrara) fanno parte del grande complesso del Museo dell’Ermitage di San Pietroburgo che si affaccia sul fiume Neva e vede esposte circa 600.000 opere d’arte, ma ne conserva oltre tre milioni (3.122.000, secondo wikipedia.fr). Ho avuto la fortuna di visitarlo abitandoci vicino e nonostante una giornata intera trascorsa all’interno, ne ho visto solo una piccola parte. Ma mi sono rincuorato leggendo che, se mi fossi fermato un solo minuto per ammirare ogni singola opera nelle sue 350 sale, i suoi 23 ettari di superfice e i 20 chilometri di percorso di visita, ci avrei impiegato anni, alcuni siti turistici scrivono (esageratamente) otto, altri undici.

 

Complesso del museo visto dalla Neva: da sinistra il teatro dell'Ermitage, il Vecchio Ermitage, il Piccolo Ermitage e il Palazzo d'Inverno.
Il complesso del museo visto dalla Neva: da sinistra il teatro dell’Ermitage, il Vecchio Ermitage, il Piccolo Ermitage e il Palazzo d’Inverno.

 

Descrivere tutto ciò che contiene è impossibile, descrivere le sale, le scale, i corridoi e le gallerie sarebbe un’opera enorme anche per un esperto, ma c’è un contorno di curiosità e peculiarità che si può raccontare, perché l’Ermitage, oltre ad essere considerato il più bel museo al mondo e uno dei più grandi, alberga alcune originalità. Una di queste è il servizio di volontariato istituito nel 2003 per coadiuvare lo staff con un gruppo di almeno 150 persone. Un progetto internazionale che coinvolge studenti e lavoratori, russi e stranieri, giovani e adulti provenienti da diversi Paesi del mondo e annovera tra le file linguisti, storici dell’arte, giornalisti, insegnanti, ma anche operai, artigiani, impiegati, persone provenienti da altre professioni non necessariamente collegate alla sfera della cultura.

 

Ma una delle sue più affascinanti storie, è quella della comunità felina che vive da quasi tre secoli all’interno del museo. Tutto cominciò quando Pietro I il Grande si portò dall’Olanda un gatto (Basilio) ed emise un’ordinanza che i gatti fossero tenuti nei fienili per proteggersi dai topi. La prima colonia fu voluta dall’imperatrice Elisaveta Petrovna, Elisabetta I (figlia di Pietro il Grande) nel 1745, per scacciare ratti e topi che infestavano il palazzo. I felini dovevano essere tutti di sesso maschile e castrati. Fu così che un carico di gatti certosini venne immediatamente spedito da Kazan alla residenza imperiale di San Pietroburgo. Elisabetta fece sistemare i gatti nei seminterrati e nei corridoi del palazzo, per una “lotta integrata” alla crescente popolazione di topi. Il sistema si dimostrò talmente efficace, che l’imperatrice decise di tenerli a palazzo in modo permanente.

 

Nel 1771 Caterina II portò in Russia il primo dipinto di Raffaello. Otto anni dopo comperò l’intera collezione del primo ministro britannico Robert Walpole formata da oltre 200 pezzi, tra i quali opere di Rubens e Velasquez. Complessivamente Caterina acquistò quattromila dipinti di Maestri dell’Antichità e la bellezza di diecimila gemme intagliate. Era in concorrenza con francesi, tedeschi, inglesi e nei suoi acquisti di opere d’arte li surclassò regolarmente. Ma il prestigio in ascesa della sua collezione si rispecchiò anche nello status particolare accordato ai suoi custodi: sotto il regno di Caterina, il palazzo iniziò a effettuare una distinzione tra gatti di casa e gatti di corte, che avevano libertà di movimento nei saloni. Il loro lavoro era più importante che mai. In una lettera, infatti, Caterina scriveva: “Nelle gallerie ci sono pochi visitatori: soltanto io e i topi”.

 

 

 

La Rivoluzione d’Ottobre scacciò lo zar Nicola II dal Palazzo d’Inverno. Gli ultimi regnanti dei Romanov avevano un vero debole per gli animali e possedevano numerosi cani e gatti, tanto che avevano acquisito la tradizione di regalare un gatto a ogni bambino della famiglia reale, appena fosse stato in grado di accudirlo. Ma mentre si portarono appresso i cani nella prigionia di Ekaterinburg, dove vennero trucidati assieme alla famiglia reale, lasciarono i gatti imperiali nel palazzo, i quali sfuggirono al loro destino mescolandosi con i felini più proletari e impegnati in faccende meno nobili, che vivevano nelle cantine.

 

 

I bolscevichi nazionalizzarono l’Ermitage, ed iniziò un periodo alquanto traumatico per il museo. Stalin iniziò a vendere le opere d’arte per finanziare il processo di industrializzazione sovietico. (Le opere acquistate dall’industriale americano Andrew Mellon sarebbero diventate il nucleo della collezione della National Gallery di Washington D.C.). Ma i gatti, con il consenso di Lenin, rimasero nel palazzo.

 

Il periodo più cupo arrivò durante la Seconda guerra mondiale, quando l’assedio di Leningrado (che durò 872 giorni) provocò la morte di un milione e mezzo di persone. La collezione dell’Ermitage fu evacuata negli Urali e al suo interno rimasero soltanto cornici vuote. Nel frattempo a Leningrado si moriva di fame. Scomparvero tutti gli animali presenti in città, perfino i volatili e da mangiare non era rimasto altro. I gatti sacrificati sostennero i custodi che se ne cibarono, e quello fu l’unico periodo nell’intera storia del museo in cui non ci furono felini nel palazzo.

 

 

Dopo la guerra, l’Ermitage venne nuovamente infestato da ratti e topi, per cui si rese necessario l’assunzione di nuovi “guardiani”, fatti arrivare da Novgorod e Pskov. A mano a mano che il paese si andò stabilizzando dalle ferite della guerra, la popolazione felina aumentò in proporzione all’espansione delle collezioni del museo, che dopo la morte di Stalin, si arricchirono anche delle tele dei post-impressionisti e dei pittori moderni.

 

 

Attenzione, gatti!
Attenzione, gatti!

All’inizio degli anni Novanta del Novecento, il crollo dell’Unione Sovietica lasciò l’Ermitage in pessime condizioni economiche. Nel documentario “Alla scoperta dell’Ermitage”, il direttore del museo Mikhail Piotrovsky ricorda che non vi erano neppure soldi sufficienti per riparare il tetto. Nel 1995, poco dopo aver iniziato a lavorare al museo come sua assistente, Maria Khaltunen scese in cantina e rimase sconcertata sentendosi osservata da decine e decine di gatti, anch’essi in pessime condizioni come la loro residenza, affamati e trascurati. Insieme a un’amica cominciò a portare del cibo dalla mensa per nutrirli, e in seguito lanciò la campagna “Un rublo per un gatto” per raccogliere fondi da destinare al cibo e alle cure dei felini. Riuscì infine a ottenere l’appoggio di Piotrovsky, destinando una zona dei sotterranei del palazzo alla cura e all’ospitalità dei gatti.

 

Ora quel luogo è pieno di grattatoi e affila-unghie per felini, ciotole piene, coperte collocate sui tubi dell’acqua calda dove si ritrovano i gatti in inverno. Ci sono cucine apposite per preparargli da mangiare e anche un piccolo ospedale. Sotto la guida di Piotrovsky, il museo è rinato. Anni fa l’artista olandese Erik van Lieshout ha trascorso nove mesi vivendo con i gatti nei sotterranei del museo, durante i lavori di ristrutturazione. “I gatti sono l’anima dell’edificio” ha detto Lieshout a RBTH. “Per me sono una sottocultura”.

 

 

I gatti dell’Ermitage non sono un numero costante, a volte ne appare uno nuovo che comincia a mangiare nella ciottola comune, qualcuno viene lasciato in una scatola all’ingresso compreso molti randagi (ma nessun impiegato li caccerebbe, sarebbe come gettare in strada un quadro del museo) aumentandone drammaticamente il numero, tanto che il museo ha lanciato una campagna di adozioni, ma con condizioni restrittive: solo a persone affidabili. E naturalmente ognuno ha la sua storia. Su un blog russo ho trovato alcune loro vicende (troppo lungo per riportarle, ma sintomatico di quanto i gatti dell’Ermitage vengano considerati a San Pietroburgo). Pubblico le fotografie di alcuni degli attuali “guardiani” con i loro rispettivi nomi (fra i quali Лучано Паваротти):

Тиша (Tisha)
Тиша (Tisha)
Зита (Zita)
Зита (Zita)
Кеша (Kesha)
Кеша (Kesha)

 

 

Котиночка (Gattino)
Котиночка (Gattino)
Муся (Musya)
Муся (Musya)
Марта (Martha)
Марта (Martha)

 

 

Лучано Паваротти и Кузя (Luciano Pavarotti e Kuzia)
Лучано Паваротти и Кузя
(Luciano Pavarotti e Kuzia)
Вася (Vasja)
Вася (Vasja)
Муфта
Муфта

 

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Attualmente sotto l’Ermitage vivono circa 70-75 gatti, hanno tutti un loro “passaporto” e possono vantare un’intera legione di volontari e veterinari che se ne prendono cura, compreso un’addetta stampa dedicata a loro e i turisti possono prenotare una visita nei labirinti dei sotterranei per incontrarli. Ogni anno in loro onore, il 28 marzo, si celebra una festa e i visitatori si mettono in coda nella speranza di poterne adottare qualcuno. Oggi questi gatti sono più ambasciatori culturali che cacciatori o “viziati gatti domestici”, come dice scherzando Maria Khaltunen, ma la loro presenza tuttora tiene alla larga i topi. I gatti dell’Ermitage continuano a far parte a tutti gli effetti della storia del museo, non meno fondamentali dei dipinti di Monet ivi contenuti o dei gioielli antichi o delle splendide sale del Palazzo d’Inverno.