La Battaglia di Algeri – prima parte

La battaglia di Algeri rappresentò una tappa cruciale nel conflitto algerino, l’escalation degli orrori iniziò con l’entrata in campo dei parà al comando del generale Massu, chiamati dal governatore generale Robert Lacoste per ristabilire l’ordine. Si ritiene datare l’inizio della battaglia nel 1957, ma come ogni altro grande conflitto, fu preceduto da una serie di eventi che portarono allo scoppio delle ostilità in una escalation di eventi. Nel giugno dell’anno precedente furono ghigliottinati due esponenti del FLN (Front de Libération Nationale). Essendo tali esecuzioni particolarmente sconvolgenti nella mentalità algerina, l’FLN rispose che per ogni effellenista ghigliottinato sarebbero stati uccisi indiscriminatamente cento francesi ordinando immediate rappresaglie. Saadi Yacef (comandante della rete di Algeri) ricevette l’ordine di “uccidere ogni europeo fra i 18 e i 54 anni, con esclusione di donne, bambini e vecchi” e nei giorni successivi le sue squadre dilagarono in città abbattendo quarantanove civili. Fu la prima volta che Algeri veniva colpita da una simile aggressione terroristica, quindi, ineluttabilmente iniziò la “scalata”. In agosto un enorme esplosione fece tremare la kasbah facendo saltare la casa di effellenisti coinvolti nelle rappresaglie, ma distruggendo anche altre tre case adiacenti per un totale di settanta morti mussulmani, compresi donne e bambini. Da qui i capi del FLN concordarono l’uso del terrorismo indiscriminato e Yacef ricevette l’ordine di prepararsi a un’offensiva su vasta scala.

 

Saadi Yacef, figlio ventinovenne di un fornaio della kasbah, conosceva tutti i tortuosi vicoli spesso tanto stretti da consentire il salto da un tetto all’altro in un’area brulicante di persone che potevano arrivare a 100.000 per un km2. Dopo la decisione di trasformarla in una fortezza da cui lanciare l’assalto, Yacef, con l’aiuto di abili muratori, creò una serie di passaggi segreti fra una casa e l’altra, fabbriche di bombe, nascondigli e covi provvisori celati dietro false pareti.  Raccolse in una gerarchia meticolosamente organizzata millequattrocento agenti operativi, tra i quali un certo numero di ragazze mussulmane attraenti e di bella presenza. Tra queste spiccavano quattro giovani di estrazione borghese, Hassiba, Zohra, Djamila e Samia.  Il 30 settembre, Zohra, Samia e Djamila furono incaricate di piazzare le bombe nella zona europea, approfittando della loro grazia femminile. Le loro perplessità furono vinte ricordando i bambini morti nell’attentato dell’agosto precedente.  A Zohra fu assegnato un ritrovo di pieds-noirs di ritorno dalla spiaggia dove lasciò la valigetta con la bomba sotto un tavolino e se ne andò. Allo stesso tempo Samia, accompagnata dalla madre lasciò l’ordigno in una caffetteria frequentata da studenti europei. Le bombe esplosero provocando tre morti e oltre cinquanta feriti. La bomba di Djamila, piazzata nel terminal dell’Air France non scoppiò per difetto di fabbricazione. Ne seguì una reazione violenta da parte dei pieds-noirs, ma anche dai simpatizzanti francesi del FLN. Alla rabbia e disapprovazione di uno di questi, Ramdane Abane, uno dei “cervelli del FLN, rispose che fra le ragazze che avevano piazzato le bombe e gli aviatori francesi che bombardavano i villaggi e li cospargevano di napalm, per lui non c’erano differenze.

 

Militanti armate della resistenza algerina: da sinistra, Samia Lakhdari, Zohra Drif, Djamila Bouhired e Hassiba Ben Bouali
Da sinistra, Samia Lakhdari, Zohra Drif, Djamila Bouhired e Hassiba Ben Bouali

 

Alla fine del ’56 la violenza ad Algeri toccò un crescendo senza precedenti. L’organizzazione di Yocef aveva un’ottima preparazione con il morale alto conseguente all’umiliazione ricevuta dai francesi a Suez. E visto il guadagnare più terreno in Algeri, che nei deserti e nei villaggi, Yocef decise di incrementare la violenza con l’assassinio di un eminente personalità pied-noir, designato nel sindaco ultrà di Boufarik. Con l’omicidio la folla impazzì, furono linciati mussulmani innocenti e donne velate vennero percosse con sbarre di ferro. Data l’incapacità dei millecinquecento poliziotti di Algeri di prevenire gli attentati, Lacoste, esasperato, chiamò i parà, svincolati dalla recente disfatta francese di Suez. La 10a divisione paracadutisti arrivò ad Algeri sotto il comando del generale Massu e del suo braccio destro Godard. Entrambi “ragazzi d’Indocina” e reduci della II guerra mondiale.

 

Tatticamente la chiamata dei parà significò l’accettazione francese alla sfida del FLN, affrontata con forza totale fino alla vittoria o alla sconfitta di una delle parti. Secondariamente fu fatale la cessione del potere ai militari da parte delle autorità civili che, nonostante l’intento di provvisorietà, non sarebbe più stato restituito fino alla fine del conflitto. Inoltre, il buon socialista e democratico Robert Lacoste, con quell’atto, firmò il decreto di morte della quarta repubblica.

 

I quattro reggimenti parà di Massu entrarono in Algeri la settimana successiva alla chiamata di Lacoste. La città fu divisa in quadrati, ciascuno dipendente da un comando di reggimento, focalizzando al centro la brulicante kasbah che fu assegnata al temibile 3° RPC (Régiment Parachutiste Colonial) al comando del colonello Bigeard, che isolò l’intera area, stabilì posti di blocco ad ogni uscita e inaugurò il sistema accurato di perquisizione casa per casa. La recente umiliazione di Suez portò i parà a un sentimento di prevaricazione, operando con la mancanza di scrupoli che caratterizzò tutta la battaglia di Algeri. Vennero compilate liste di sospetti, ci furono retate di massa senza alcuna formalità e sistemi d’interrogatorio alquanto discutibili.

 

A fine gennaio 1957 l’FLN proclamò lo sciopero generale della durata di otto giorni. L’intento era quello di richiamare l’attenzione internazionale soprattutto in concomitanza dell’apertura della seduta dell’ONU. Lo sciopero inizialmente riuscì in pieno, ma la risposta dei parà fu durissima. Dapprima elicotteri militari lanciarono volantini “invitando” la gente a tornare al lavoro, contemporaneamente dagli altoparlanti imponevano agli scioperanti di riprendere il lavoro. Poi iniziarono le azioni concrete, arrivarono le autoblindo che cominciarono a scardinare tutte le serrande dei negozi, lasciandoli in preda allo sciacallaggio (a cui sembra parteciparono anche gli stessi parà) obbligando i bottegai a tornare al lavoro per proteggere le merci, venendo minacciati di arresto se non avessero tenuto aperto. Contemporaneamente colonne di autocarri prelevarono gli scioperanti a domicilio, portandoli di peso sul posto di lavoro. Il giorno seguente, con la stessa violenta determinazione, le colonne di autocarri militari presero in consegna, casa per casa, le migliaia di studenti mussulmani, portandoli nelle scuole. Quarantotto ore dall’inizio, lo sciopero poteva considerarsi rientrato. Non ebbe alcun eco presso l’ONU e fu un fallimento per il FLN, anche se riportò un inaspettato successo indiretto a causa dei metodi violenti usati per stroncarlo.

 

Yacef Saadi in “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo interpreta sé stesso
Yacef Saadi in “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo interpreta sé stesso

 

Due giorni prima dello sciopero, Yacef iniziò un’ondata di attentati, sempre attuati da una squadra delle sue “ragazze”, che finì con sessanta feriti e cinque morti, incluso un mussulmano innocente linciato dalla folla. Ma la rete incessantemente più stretta e mortale di Bigeard attorno alla kasbah, rese sempre più difficili tali azioni di “guerra”. E la rete si chiudeva con il passar dei giorni. Tramite gli informatori (con mezzi non propriamente ortodossi) Bigeard arrivò ai nomi delle ragazze, alle fabbriche di bombe e ai muratori che costruivano i rifugi segreti fin quando con giubilo a fine febbraio annunciò di aver sequestrato 87 bombe, 70 kg di esplosivo, 5.120 detonatori e che membri dei bombaroli erano sotto chiave. L’organizzazione di Yacef era ormai smembrata. Lui stesso fu identificato anche se riuscì a scappare alla cattura e incaricato di pieni poteri della Zone Autonome d’Alger.

 

Ma il peggior colpo inflitto al FLN fu la cattura e la successiva morte di Ben M’hidi, una delle maggiori menti del CCE (Comité de Coordination et Execution) a capo del FLN. Ufficialmente morì suicida dopo la cattura, ma pochi ci credettero. Lo stesso Bigeard lo trattò col rispetto dovuto a un comandante nemico prigioniero. Ma secondo una spia effellenista attiva nella sede della polizia di Algeri, neppure Bigeard poté opporsi al trasferimento di Ben M’hidi alla sezione “speciale” dei parà che dopo o durante l’interrogatorio l’aveva ucciso. La sua morte portò alla luce la sporca faccenda, precedentemente nascosta, dei maltrattamenti, della tortura e delle esecuzioni sommarie, ciò che attualmente si definiscono “crimini di guerra” e che nella Francia di allora vennero riassunti in una parola: “la torture”. Dalla battaglia di Algeri in poi, questa faccenda sarebbe diventata una piaga sempre più funesta in Francia, e si sarebbe lasciata alle spalle un veleno che andò ben oltre la fine della guerra. E quando al termine del conflitto fu chiesto a Massu se ci fosse stata tortura, rispose che, date le circostanze, non c’era altra scelta.

 

Il ricorso alla tortura pone problemi morali altrettanto affini al mondo d’oggi che a quello del periodo qui esaminato. Come scriveva Jean-Paul Sartre nel 1958: “La tortura non è né civile né militare, né specificatamente francese: è un flagello che infetta l’intera nostra era”. Ciò che qui più immediatamente importa è, tuttavia, l’influsso (o gli influssi) da essa esercitati sul susseguente corso della guerra algerina. Tali influssi furono, è il caso di dirlo, enormi. (Halistair Horne – Storia della Guerra d’Algeria.