L’età dell’oro dei videogames

Prologo

Già il titolo può apparire fuorviante: in qualunque posto pubblico, ovunque ti giri, trovi sempre ragazzi (e anche adulti) che massacrano il touch screen di smartphone e tablet. E se non sono in giro sono a casa alle prese con le console. Come si può dire che non sia questa l’età dell’oro dei videogames?
Sapete, io mi riferisco a quel momento storico in cui i videogiochi hanno cominciato a raggiungere un ragazzino delle medie, intorno alla prima metà degli anni ’80, che essenzialmente aveva 3 cose in testa:
1) Girare con la Saltafoss (quando provai a saltare davvero il foss, ne ricavai un avambraccio fratturato, ma sorvoliamo).
2) Leggere libri di fantascienza (e magari su questo ci ritorneremo).
3) Scendere nel bar/ristorante sotto casa, che, di fianco ai 2 soliti flipper, aveva installato un ordigno che funzionava a monete da 200 lire e che regalava emozioni differenti da tutto il resto a cui eravamo abituati: un videogioco, un gioco elettronico (come lo si chiamava banalmente allora) o, meglio, un arcade game.

Un paradiso di inizio anni ’80!

Ricordi

Eh, si…in quel periodo in cui la Thatcher aveva delle grane argentine da risolvere, Berlusconi faceva ingranare le sue televisioni e Bearzot ci regalava la coppa del mondo, io, con le mi brave 1000 lire in mano, scendevo al bar, dove il responsabile (che per spingerci a giocare, astutamente teneva traccia e premiava i record ai videogiochi) mi cambiava la banconota con il faccione di Verdi (in quel periodo se la giocava con quella nuova con Marco Polo) in 5 tintinnanti monete da 200 (che peraltro esistevano solo da pochi anni), con le quali mi dirigevo con un certo ghigno di soddisfazione dinanzi al gioco.
Ora, dovete sapere che in quegli anni non c’era assolutamente la varietà che sarebbe stata disponibile solo qualche anno più tardi (da cui il fenomeno delle sale giochi, che ebbe a sua volta il suo momento di splendore nella seconda metà degli anni 80).

Tra i meriti di Pac Man, si annovera anche il fatto che fu uno dei primi videogiochi ad avere un seguito tra il gentil sesso.

No, il mio bar esordì con quei giochi che hanno proprio fatto la storia (non aveva troppo spazio e poteva tenere un paio di cabinet per volta, per cui, sempre astutamente, cambiava spesso i giochi così da mantenere salda la presa sulle nostre giovani e malleabili menti). Credo che, come molti, iniziò con un grande classico, Space Invaders, a cui seguì l’ineffabile Pac Man. Poi esordì un gioco meno famoso degli altri, ma che a me piaceva tantissimo: Phoenix.
In questo gioco, del 1980, il filone era lo stesso di Space Invaders, ma gli alieni assumevano le sembianze di uccellacci malefici, che tendenzialmente si buttavano in modalità kamikaze sulla tua piccola navicella. Fu tra l’altro il primo gioco che introdusse (senza che allora fosse chiamato così) il concetto di Boss, ovvero il personaggio malefico alla fine di vari schemi, tipicamente difficoltoso da eliminare. Eccovi un bel video:

Ricordo anche che portavo a casa un sacco di boeri (avete presente, vero?!?) che erano il premio a chi abbatteva i record (che nel frattempo io avevo imparato a superare grazie alla scoperta di bug nel gioco che regalavano punti).
In seguito arrivarono altri giochi, da Frogger a Centipede, da Defender a Moon Patrol, tutti giochi che le persone della mia età che scendevano le scale con le monete da 200 lire ricordano. E soprattutto ricordano l’emozione nel sentire il suono della monetina scendere dalla fessura e lo schermo che si animava pronto a rispondere ai tuoi comandi: una opportuna scarica di adrenalina per iniziare il gioco.

Scramble fu uno dei primi giochi (insieme a Defender) con scrolling orizzontale. Maledetti serbatoi di carburante!

La natura della bestia

Ma astraiamoci da quei ragazzi, e facciamo una piccola disamina del fenomeno.
I videogames hanno conosciuto diverse fasi storiche e diverse modalità per essere giocati.
Negli USA, a fine anni 60, alcuni videogiochi, in special modo Spacewar!, si diffusero in ambito universitario (su computer PDP-1 e successivi), ma la prima commercializzazione si ebbe nel 1971, quando Nolan Bushnell e Ted Dabney misero sul mercato il primo video game arcade della storia, un derivato di Spacewar! chiamato Computer Space, che ebbe un successo limitato, ma che si contraddistingueva per il design futurista del cabinet.

Il cabinet futurista di Spacewar! Che dire? Il meglio del design degli anni ’70!

I due proseguirono le attività fondando la Atari, che produsse un gioco che divenne una pietra miliare: Pong, ovvero il tennis tavolo giocato con la grafica più minimale possibile (ma allora non esisteva quasi nemmeno il concetto di grafica, per cui andava benone). Il gioco ebbe molto successo e fu copiato da altri produttori nel mondo: il business dei videogiochi partì.

Il cabinet con esterno in radica (!) di Pong. Che dire? Il peggio del design anni ’70!

L’età dell’oro

Dato che i videogiochi, per definizione, necessitano di un video o di un monitor, parallelamente qualcuno ebbe l’idea di portare i videogiochi direttamente nelle case della gente, che, negli anni 70, disponevano consistentemente di televisori. Una azienda americana, la Magnavox, sviluppò quindi la prima console della storia, la Odyssey (1972).

Videogiocatori con Magnavox Odyssey. Sarà prosecco quello nel bicchiere? Che teneri!

Pong stesso fu portato in versione console (anzi, la maggior parte di noi lo ricorda in quel formato) addirittura furono sviluppati dalla General Instruments dei chip che contenevano il gioco stesso (più altri). Tali chip furono utilizzati nelle console di diversi produttori, tra cui Coleco e una azienda giapponese che produceva carte da gioco e che volle tentare il business dei video games: la Nintendo.
Intanto i giochi arcade si diffondevano sempre di più, e alla fine degli anni 70 alcuni titoli divennero iconici. Nel 78 uscì il già citato Space Invaders (che inizialmente si giocava su schermo in bianco e nero, ma con opportune plastiche colorate sullo schermo), seguito l’anno dopo da Asteroids (in cristallina grafica vettoriale) e da Galaxian.

La fama di Asteroids fu tale che, oltre all’arcade, fu rifatto per diverse console e computer. Come peraltro molti giochi dell’epoca.

I primissimi anni ’80 videro esordire la maggior parte dei titoli famosi tuttora, come il già citato Pac Man (commercialmente il gioco di maggior successo nella storia), Donkey Kong (la prima incarnazione di Mario e primo platform game), Galaga (lo sparatutto spaziale per definizione), Missile Command (un must in piena guerra fredda e noto – almeno a me – per l’utilizzo di una trackball che ti assassinava i palmi delle mani) e diversi altri.

Mario appare nel mondo dei videogames, salvando la donzella dalle grinfie scimmiesche.

Diversi produttori si fecero largo: Atari, Namco, Midway, Konami, nomi che conosciamo perché apparivano nelle schermate iniziali di copyright o di demo.
Contemporaneamente nei salotti di casa arrivarono nuove console, in particolare l’Atari VCS (o 2600) fu quella senza dubbio più diffusa. Questa era basata su microprocessori (diversamente dalle console precedenti realizzate con componenti discreti) e soprattutto sulle cartucce ROM, ovvero delle memorie inalterabili dove era contenuto il gioco e che venivano collegate alla console in un apposito slot, separando quindi la parte computazionale dal software.

Un Atari 2600 su ebay si può sempre trovare

Uscirono poi console più avanzate, quali la ColecoVision, l’Atari 5200 e la Mattel Intellivision (di cui ricordo la pubblicità). Il mercato crebbe vertiginosamente, i videogiochi erano la cosa più cool del periodo.

La crisi

Poi però le cose cambiarono.
Nel 1984 ero sempre alle prese con i videogiochi del bar (in quel periodo andava alla grande Track&Field, con l’atleta baffuto), quando anche in casa mia arrivo qualcosa. Ma non era una console, ma un “vero” computer, cioè un Commodore 64. La grafica e il suono erano paragonabili a quella dei videogiochi del bar, ma era anche un computer, dove potevo scrivere i miei giochi! O almeno, diciamo che ne avevo la possibilità. Cominciarono a fiorire riviste con listati in basic dove si imparava a programmare, e quando dico programmare intendo dire a un livello decisamente più vicino all’hardware della macchina rispetto a quanto si possa fare oggi. I ragazzi di allora riuscirono perfino a sviluppare il proprio inglese grazie a frasi iconiche come “press play on tape”.

L’asset informatico più comune degli anni ’80

Nel frattempo molte aziende sviluppatrici erano salite sul treno delle console, che fino a quel momento avevano conosciuto tassi di crescita spaventosi, e, in cerca di denaro facile, cominciarono a produrre giochi di scarsa (se non infima) qualità, molto spesso appoggiandosi a brand cinematografici (ET, Star Wars, ecc.). Questo fenomeno, la concorrenza tra diverse console e l’arrivo dei primi home computer determinò una guerra dei prezzi e una profonda crisi del settore. La saturazione del mercato portò al fallimento diverse aziende coinvolte nel business dei videogames, specialmente negli USA. Molti ritengono che la crisi fu anche colpa delle politiche commerciali della Atari, che imponeva ai distributori l’acquisto di videogiochi vecchi se volevano quello nuovi. Addirittura l’azienda decise di seppellire migliaia di invendibili cartucce nel deserto del New Mexico (un fatto ritenuto leggenda metropolitana fino a pochi anni fa, ma furono ritrovate davvero).

Gli scavi in New Mexico hanno fatto affiorare diverse cartucce Atari

Quello che fu più grave è che in terra yankee vi fu una notevole sfiducia nei confronti del business dei videogiochi, che venne considerato alla stregua di un fenomeno passeggero. Chi ne approfittò? Beh fu il momento chiave in cui i giapponesi, Nintendo, Sega ed altri presero decisamente in mano il mercato il quale, dopo un paio di anni, riuscì a riprendersi, anche grazie ad un maggior controllo nella qualità e nella distribuzione dei giochi, specialmente per quelli della NES (Nintendo Entertainment System), che da noi arrivò solo nel 1987, ma con il Jovanotti di Gimme Five a fare la pubblicità:

Epilogo

E i nostri giochi arcade? Beh, fino all’ 1987/88 furono sempre sulla breccia, e naturalmente io stesso frequentavo le sale giochi. In fin dei conti l’hardware ottimizzato consentiva ancora un’esperienza superiore a quella domestica, ma progressivamente le nuove console e i nuovi computer furono in grado prima di competere e poi di superare i videogiochi arcade. Successe che il ragazzo che passava il suo tempo in sala giochi ad un certo punto si portò la sala giochi in casa, sottoforma di dischetti da 3.5 pollici (dalla provenienza spesso equivoca) che finivano nel disk drive del mio nuovo Amiga 500. Computer e console sopravvissero, ma l’età dell’oro dei videogiochi arcade era finita.
La Atari, il cui logo è tuttora uno dei più riconosciuti, nel 1984 dovette vendere la sua divisione console e computer (a Jack Tramiel, la mente dietro la Commodore, dalla quale ne era appena uscito). La nuova società venne chiamata Atari Corporation mentre la vecchia Atari fu rinominata Atari Games, dedicata solo ai giochi arcade. Nessuna delle due nuove società durò a lungo: le console erano ormai in mano ai nipponici, i computer videro un momento di successo con la serie Atari ST, poi nel 1996 la Atari Corporation scomparve. I giochi arcade cominciarono a perdere mordente tra gli utenti, la Atari Games smise di produrli mentre il marchiò passo in mani diverse e praticamente nulla restò della azienda che incominciò a fare la storia dei videogames.

The child is grown, the dream is gone (D. Gilmour, R. Waters)