Lo Special Operations Executive, al servizio di Sua Maestà – Parte 2

Come già detto in precedenza, fu solo durante il 1942 che il SOE poté accedere alle risorse per compiere davvero la sua missione. Prima di allora le sue attività rimasero circoscritte. Ironicamente, fu proprio allora che perse la sua centralità nella strategia bellica del Regno Unito, e divenne ‘solo’ una appendice dell’esercito regolare di Sua Maestà. Tuttavia, proprio in questa funzone il SOE poté brillare e cogliere numerosi successi, tanto che fu generosamente elogiato dagli alti comandi, ovviamente solo nelle comunicazioni interne, visto che pubblicamente non se ne vollero riconoscere i meriti.

L’addestramento degli agenti era, ovviamente, componente fondamentale del servizio. Per l’inizio del 1943 questo processo era stato perfezionato e i primi, maldestri approcci basati sull’andare per tentativi, erano stati superati. Non che l’improvvisazione fosse del tutto scomparsa dall’azione degli agenti, anzi, spesso e volentieri questi godevano di un’autonomia pressoché illimitata una volta paracadutati dietro le linee nemiche. Questo non deve stupire, data la difficoltà nelle comunicazioni dovuta alla segretezza e la necessità di prendere decisioni rapide, e spesso fatali nel bene e nel male. La duttilità mentale, quindi, era un requisito fondamentale per un buon agente. Insieme, naturalmente, alla saldezza dei nervi. Non tutti gli agenti inviati in territorio nemico, infatti, gestivano bene lo stress di essere costantemente in pericolo di vita, o peggio, di tortura da parte della Gestapo, e a ben vedere! Si sa di agenti paracadutati in Francia che risultarono essere del tutto inutili perché passavano tutto il tempo barricati nei loro nascondigli, senza mai uscire e senza nemmeno comunicare con i loro contatti locali, tanto la paranoia si era impadronita di loro. Il caso più estremo fu quello di un agente che passò diversi mesi vivendo sotto al letto del suo nascondiglio, in una fattoria nella campagna francese, “proprio come un cane” come riferì il contadino francese che lo accudiva al SOE. L’agente fu quindi trasferito in un bistrot, ma la sola vista di uniformi tedesche bastava a fargli crollare i nervi e farlo fuggire di nuovo sotto il letto della sua camera. Infine, fu fatto uscire dalla Francia attraverso il confine spagnolo. Altro che le rocambolesche avventure di un Lawrence d’Arabia.

La “gun room” a Glenmore Lodge sulle highlands scozzesi, uno dei luoghi di addestramento per gli agenti del SOE.

L’addestramento, quindi, doveva affinare i tratti caratteriali positivi ed aiutare a mitigare quelli negativi, almeno in teoria, ma, ancora più importante, doveva fornire la conoscenza necessaria perché gli agenti fossero il meno possibile esposti ai pericoli del loro mestiere e avessero gli stumenti per affrontare con competenza situazioni di tensione.

Per prima cosa, un agente doveva pensare alla propria sicurezza. Questo era il prerequisito fondamentale per qualsiasi azione di sabotaggio, per evitare di mettere in pericolo se stessi e i propri collaboratori. La differenza tra un soldato e un agente era chiara: il soldato ha intorno a sé molti amici, l’agente è circondato da nemici. “Come l’uomo primitivo della jungla ha solo il suo acume, iniziativa e spirito di osservazione ad aiutarlo.” L’agente quindi doveva essere addestrato affinché la sua mente fosse predisposta a ragionare inconsciamente in modo da non compromettere la sicurezza sua e di altri. Allo stesso tempo, si doveva evitare di renderlo troppo sicuro di sé, perché se questo fosse successo e l’agente si fosse sentito intoccabile e inafferrabile come Arsenio Lupin, la sua cattura, a causa di una distrazione, sarebbe stata solo una questione di tempo.

Agenti del SOE in addestramento in Scozia posano con una piccola imbarcazione a motore usata per le infiltrazioni in zone costiere.

Sette erano le regole da inculcare agli agenti durante l’addestramento.

Attenersi alla propria copertura, ossia la storia fittizia della persona che l’agente impersona in territorio nemico. Questa poteva essere estremamente eleborata, nel caso di agenti che operavano in città e villaggi, basilare, nel caso di agenti che operavano nella campagne, o del tutto inesistente, nel caso di agenti che vivevano insieme a bande partigiane e che quindi condividevano con i partigiani le conseguenze della propria cattura. Nessuna copertura, in questo caso, per quanto ben congegnata, avrebbe potuto salvarli dall’esecuzione sommaria.

Essere sempre ben informati, sul nemico, sulle condizioni della popolazione locale, sulla natura del terreno in cui si operava. L’agente doveva sempre ‘stare sul pezzo’ per così dire. L’ignoranza di un particolare poteva significare il fallimento dell’operazione, la cattura o perfino la morte. Gli agenti ricevevano un briefing prima dell’inizio della loro missione ma erano tenuti ad essere sempre aggiornati sulle condizoni della propria area operativa, specialmente per quanto riguardava il numero di nemici presenti, i loro movimenti e i regolamenti imposti alla popolazione occupata.

Essere sempre mentalmente lucido. Questo si traduceva nel mantenere sempre il controllo della situazione, pianificare in anticipo le proprie mosse per evitare il pericolo, piuttosto che doverlo affrontare (per esempio, evitando i controlli sui propri documenti, per quanto ben contraffatti potessero essere). L’agente doveva inoltre mettere a buon frutto le sue capacità deduttive, per capire, ad esempio, quando veniva pedinato. Infine, in questa categoria ricadeva lo sviluppo di capacità mnemoniche, un’abilità chiave per ricordare facce, luoghi o situazioni e poter far pieno uso delle proprie capacità deduttive. Oltretutto, una buona memoria permetteva anche di scrivere meno, lasciando meno tracce della propria attività che potessero essere rinvenute dal nemico.

Addestramento con la pistola.

Non dare nell’occhio. Una regola apparentemente ovvia, ma che doveva diventare una seconda natura per l’agente. In primis, l’agente doveva comportarsi come un cittadino modello. Minimizzare i propri contatti con la polizia era un ottimo modo per minimizzare i rischi. In questo aveva un ruolo chiave la lucidità mentale (per non farsi coninvolgere in situazioni che risultassero sospette alla polizia) e la capacità di restare informati sui vari regolamenti in vigore nella propria area operativa. L’agente doveva poi confondersi con il suo background, come un camaleonte. Doveva sembrare un comune cittadino della nazione in cui era stato inviato. Per minimzzare i sospetti e il pericolo, era anche, in teoria, una buona idea evitare di frequentare persone considerate compromettenti, come potevano essere gli ebrei.

Essere sempre discreto. Tradirsi durante una conversazione per via di una parola di troppo era, chiaramente, da evitare con la massima cautela. Al tempo stesso, l’agente doveva essere in grado di conversare con naturalezza con i locali, attenendosi alla sua copertura, in modo da sembrare una persona senza nulla da nascondere. Da evitare erano naturalmente accenni a fatti di cui la presona impersonata dall’agente non poteva essere a conoscenza. Mai dire qualcosa che non fosse necessaria, mai cercare in qualcuno, per quanto fidato, un appoggio per scaricarsi i nervi. Da evitare assolutamente era anche l’atteggiarsi a persona d’importanza, o peggio, l’apparire eccessivamente circospetto nelle conversazioni. Naturalezza era la parola d’ordine. Per quanto riguardava documenti, questi andavano distrutti se non in casi rarissimi, la buona memoria dell’agente doveva supperire ai supporti fisici. Infine, l’agente doveva contenersi nei suoi comportamenti. Niente relazioni amorose scandalose, niente bagordi e, assolutamente, niente festeggiamenti. Tutte cose che avrebbero potuto attirare le attenzioni indiscrete della polizia.

Addestramento all’uso del kit radio sulle highlands scozzesi.

Essere disciplinato, gli ordini non andavano discussi, ma solo eseguiti il più celermente possibile.

Essere sempre preparato al peggio. La sorpresa era spesso la fine degli agenti, che quindi dovevano avere sempre un piano pronto per ogni evenienza. Questi comprendevano itinerari alternativi in caso di blocchi stradali, ma anche segnali da inviare ai colleghi nel caso si fosse in pericolo o la cattura fosse imminente per permettegli di prendere le dovute contromisure. Ogni agente doveva inoltre avere sempre pronto un piano di fuga, con tanto di nascondigli e travestimento, che comprendesse anche una spiegazione plausibile per la sparizione del suo alter ego.

Queste regole andavano inculcate e applicate non al momento dell’invio dietro le linee nemiche, ma fin da subito, appena iniziato l’addestramento. Questo avrebbe permesso di fare entrare l’agente nella giusta mentalità e l’avrebbe aiutato a sviluppare delle sane abitudini in un ambiente di basso pericolo, prima di metterle in pratica nell’Europa occupata. Parenti e amici dovevano essere le prime ‘vittime’ di queste buone abitudini, dovendo essere, per ovvi motivi, tenuti all’oscuro di tutto.

Nel prossimo articolo parleremo della messa in pratica di questi insegnamenti, a cominciare dalla prima prova che molti agenti dovettero superare: l’arrivo in territorio nemico. I più ‘fortunati’ poterono farlo per mezzo di barche o lance a motore, tutti gli altri dovettero confrontarsi con un pericoloso salto nel buio da un aereo che volava a bassa quota.

Pubblicato da Alocin30590

Collezionista di aneddoti, attualmente soldato di ventura in terra scozzese.