Lo Special Operations Executive, al servizio di Sua Maestà – Parte 4

Gli agenti, giunti a questo punto in territorio nemico, dovevano mettersi all’opera. I loro obiettivi erano vari: sabotare strutture, missioni di assassinio e perfino rapimenti. Anche la loro permanenza in territorio nemico era di varia durata. Alcuni restavano solo per il compimento di una missione specifica che quindi poteva durare poche settimane (era questo il caso soprattutto per i rapimenti, visto che la vittima doveva poi essere condotta fuori dal territorio nemico), altri restavano invece per molti mesi (era questo il caso dei sabotatori) e la loro missione si concludeva solitamente o con la fine delle ostilità nella loro zona operativa, oppure con la loro cattura o uccisione per mano dei tedeschi. Gli agenti poi potevano ricevere obiettivi alternativi o secondari durante la missione per mezzo di messaggi cifrati. Quelli che vivevano coi partigiani, infine, non svolgevano la loro attività sempre nello stesso punto, ma piuttosto in una zona, che poteva anche essere molto vasta, seguendo e coordinando i movimenti delle bande ed evitando i rastrellamenti tedeschi.

La vita dell’agente, insomma, non era cosa per deboli di cuore, né di stomaco. Non deve quindi stupire la tendenza, nelle memorie degli agenti, ad una certa autoglorificazione delle proprie rocambolesche gesta.

Uno di questi fu, l’abbiamo già citato, William Stanley Moss incaricato nel 1944 della cattura del generale tedesco Muller sull’isola greca di Creta, con l’aiuto di partigiani greci. L’impresa era considerata da molti infattibile: la guarnigione tedesca sull’isola era compatta e ben organizzata e teneva la popolazione sotto un pugno di ferro. Il territorio era impervio, le strade poche e ben sorvegliate.

Moss arrivò a Creta il 4 aprile 1944, su una piccola lancia a motore, ricongiungendosi al suo compagno Patrick Leigh Fermor (famoso scrittore di racconti di viaggio e classicista), già paracadutato sull’Isola in febbraio (in realtà, Moss sarebbe dovuto essere paracadutato insieme a Fremor ma, quando questi saltò dall’aereo l’apparecchio finì in un fitto banco di nuvole e quindi Moss non poté saltare), che aveva “preparato il terreno” con i greci. Fremor aveva così scoperto che il bersaglio originale dell’operazione, il generale Muller, non si tovava più sull’isola: era stato infatti sostituito dal generale Kreipe. Nonostante quest’ultimo si fosse dimostrato un militare “di vecchia scuola” estremamente più mite di Muller nell’amministrazione di Creta e nei rapporti con la popolazione, si decise di continuare comunque con il rapimento.

Il gruppo prima del rapimento, da sinistra: George Tyrakis, Stanley Moss, Leigh Fermor, Manolis Paterakis and Leonidas Papaleonidas.

Dopo l’arrivo di Moss, i due agenti vissero sulle montagne con i partigiani, mentre si spostavano nell’entroterra roccioso di Creta, diretti ad Ano Archanes (vicino a Cnosso), sede della guarnigione tedesca. Kreipe risedeva proprio nel villaggio di Cnosso e si recava alla sede della guarnigione in auto. Constatato che la villa di Kreipe era inespugnabile si decise di rapirlo durante il tragitto, in un punto dove la macchina avrebbe dovuto rallentare per via di una intersezione stradale. Il gruppo rimase quindi in attesa, visto che Kreipe non lasciava spesso la sua residenza. Nella notte del 26 aprile, finalmente, fu dato il segnale: il generale era uscito. I due britannici, travestiti da soldati tedeschi, si nascosero in un fosso in attesa. Quando gli fu segnalato che la macchina era ormai dietro la curva di posizionarono sulla strada, fermarono l’auto con un perentorio “Halt!” e chiesero i documenti di circolazione. Mentre Kreipe si frugava in tasca, Fremor spalancò la protiera e lo immobilizzò, puntandogli l’arma al petto, Moss colpì l’autista con un manganello, mettendolo fuori combattimento. Il resto del gruppo a questo punto saltò fuori dal suo nascondiglio e si affrettò a legare Kreipe. Quindi moss si mise alla guida, con Fremor al fianco che indossava il cappello del generale. Kreipe e tre greci invece erano sul sedile posteriore. I restanti menbri del gruppo rimasero sul posto, per occultare le tracce. Moss diresse la macchina a tutto gas verso Heraklion, riuscendo a superare ben ventitudue posti di blocco tedeschi. Le pattuglie avevano riconosicuto la macchina del generale e non avevano osato fermarla, visto che Kreipe era noto per il suo pessimo carattere e la sua insofferenza ai controlli presso i posti di blocco.

Il piano del rapimento, disegnato dallo stesso Moss.

Al mattino, la macchina fu abbandonata: gli agenti pensarono (e a ragione) che i tedeschi a questo punto si fossero accorti della scomparsa del generale e stessero setacciando l’isola in cerca della macchina, quindi fu deciso che fosse più prudente abbandonarla. A questo punto riprese la marcia a piedi nell’aspro entroterra cretese verso il monte Ida, sfruttando le amichevoli popolazioni locali e l’esperienza dei partigiani greci per sfuggire alle pattuglie tedesche che girarono a vuoto in cerca del commando. Dopo venti giorni passati spostandosi di nascondiglio in nascondiglio, gli agenti e i loro compagni raggiunsero il punto designato per la fuga dall’isola e si imbarcarono dalla spiaggia di Rodakino, riuscendo a portare Kreipe alle custodie del comando britannico di Alessandria.

La storia come già detto, è narrata dallo stesso Moss con toni degni del miglior Salgari nel libro Brutti incontri al chiaro di luna, una eccellente lettura da ombrellone, anche se l’estate è ormai agli sgoccioli. Questa storia, da vero romanzo di cappa e spada, ebbe però un epilogo amaro. Tornato, il generale Muller scatenò la sua furia sulla popolazione civile cretese, dando il via ad una sanguinosa rappresaglia come vendetta per il rapimento.

 

Una missione diversa fu invece quella dell’operazione Anthropoid, forse l’operazione del SOE più famosa in assoluto. Diversa innanzitutto perché fu impiegato personale non britannico, ma ceco e slovacco, costituendo quindi un successo del programma di addestramento del SOE rivolto alle popolazioni occupate, e perché si trattò di una missione di assassinio. Bersaglio era il generale delle SS Reinhard Heydrich, feroce gerarca nazista incaricato del governo della cecoslovacchia occupata (tanto efficiente da meritarsi i soprannomi di macellaio di Praga, bestia bionda ed il laconico ma efficace boia), che si era già tristemente distinto per la repressione spietata della resistenza locale. Tanta era la sua sicurezza nella sua opera repressiva che girava in una macchina senza tettuccio, per dare prova di essere intoccabile. I britannici ritenevano che il suo assassinio potesse servire a mandare un messaggio ai nazisti, in modo da alleviare le sofferenze delle popolazioni sul continente, “convincendoli” ad andarci piano con rastrellamenti e rappresaglie.

Nell’Ottobre del 1941 i 2000 soldati cecoslovacchi in Gran Bretagna furono scremati per scegliere elementi adatti. Tra le due dozzine così selezionati, Jozef Gabcik e Karel Svoboda furono scelti per la missione. Ma le cose presero subito la piega sbagliata. Svoboda si ferì alla testa durante l’addestramento e fu frettolosamente rimpiazzato da Jan Kubis, il quale però era privo di documenti contraffatti e non aveva completato l’addestramento, fu quindi necessario far slittare la missione (prevista per il 28 ottobre). Infine, i due furono paracadutati il 28 dicembre 1941. Sfortunatamente, il volo non andò come previsto e i due finirono per atterrare in un punto diverso da quello prestabilito, circa 120km più a ovest per essere precisi, nel villaggio di Plzen (Pilsen). Giunti finalmente a Praga i due si scontrarono con l’opposizione della resistenza locale che temeva le ripercussioni dell’assassinio di un gerarca nazista così importante. Tali dubbi furono però scavalcati dall’intervento del governo cecoslovacco in esilio, che diede il via libera a procedere.

Furono quindi esaminati vari piani, ma vennero scartati tutti tranne uno: il più rischioso, uccidere il generale a Praga, sul tragitto che lo portava dalla sua abitazione al castello della città. Gli agenti si appostarono quindi vicino ad una curva il 27 maggio 1942, dove l’auto sarebbe stata costretta a rallentare. A questo punto, la sfortuna che aveva perseguitato la missione fin dal principio colpì ancora più duro. Quando la macchina imboccò la curva Gabcik sbucò dal suo nascondiglio e aprì il fuoco con il suo mitragliatore Sten, il quale però si inceppò senza sparare nemmeno un colpo. Heydrich, capito quello che stava succedendo, ordinò all’autista di fermarsi e si alzò sul sedile per sparare a Gabcik con la sua pistola. A questo punto però intervenne Kubis, che scagliò una granata anti-carro contro la macchina (la granata era stata modificata per poter essere nascosta in una valigetta). Tuttavia, gli inglesi avevano testato questa nuova arma non, per così dire, “sul braccio” dei due agenti, ma su quello di Hesketh-Pritchard, un individuo che possedeva un background come giocatore di cricket. Il lancio di Kubis quindi, prevedibilmente, andò male e mancò la macchina, andando a finire sul paraurti. Nonostante questo, le schegge sollevate dall’esplosione ferirono Heydrich, distogliendolo dai suoi propositi omicidi nei confronti di Gabcik. Purtroppo, lo stesso Kubis fu ferito nell’esplosione. Nella confusione, i due fecero fuoco con le loro pistole su Heydrich diverse volte, mancando sempre il bersaglio. Infine, stremati e in stato confusionale, si diedero alla fuga, convinti che l’attentato fosse fallito miseramente. Heydrich riuscì addirittura ad uscire dalla macchina e tentò di inseguirli, rispondendo al fuoco con la sua pistola, apparentemente ignaro delle schegge che lo avevano raggiunto, finché non collassò al suolo. Quando il suo autista si chinò per soccorrerlo, Heydrich gli ordinò perentoriamente di continuare l’inseguimento, ma tutto ciò che fu in grado di prendere furono due pallottole che Gabcik gli conficcò in una gamba. Heydrich, nonostante i tentativi di cure, morì per le ferite riportate dopo più di una settimana.

La piccola mitraglietta Sten, arma iconica della resistenza. Iconica ma tuttavia poco amata per la facilità con cui si inceppava e la scarsa precisione. Come racconta Luigi Meneghello: “era rozzo metallo stampato, ri­finito alla buona, e spargeva i colpi in modo approssimativo, come a tirarli a mano, una manciata alla volta”

La repressione per l’assassinio di Heydrich fu, come avevano previsto i leder della resistenza cecoslovacca, particolarmente brutale. Circa cinquemila persone persero la vita e il villaggio di Lidice, erroneamente identificato come quartier generale della missione, fu teatro di uno dei più selvaggi massacri di tutta la seconda guerra mondiale. Nonostante questo, gli agenti sembravano essere introvabili. Fu un altro agente a tradire, indicando la posizione di diversi nascondigli, forniti da famiglie ceche. I tedeschi organizzarono retate e finirono col catturare in uno di questi un diciassettenne, Vlastimil “Ata” Moravec. Il ragazzo fu torturato per ore e alla fine cedette quando i tedeschi gli misero di fronte la testa mozzata della madre. Saputo quindi dove si trovavano Gabcik e Kubis le SS organizzarono un plotone di 750 uomini per stanarli. Il nascondiglio, la chiesa di San Cirillo e Metodio fu messa sotto assedio per due ore, gli assediati (sette in tutto) avevano intenzione di vender cara la pelle. Tre, incluso Kubis, morirono nel conflitto a fuoco, gli altri quattro si ritirarono nella cripta da dove si batterono ancora furiosamente. A questo punto le SS tentarono di stanarli con il fumo, poi allagarono la cripta con l’uso di un camion dei pompieri. I quattro rimasti, con le spalle al muro, ingerirono le loro capsule di cianuro per non essere catturati. Durante l’assedio le SS persero quattordici uomini ed ebbero ventun feriti, a riprova del valore della resistenza che incontrarono, armata solo di pistole contro mitragliatori, mitragliette e bombe a mano. Il vescovo tentò di prendere la responsabilità su di sé, per evitare rappresaglie sui suoi parrocchiani e fu per questo torturato e ucciso insieme a tutti i sacerdoti locali.

In questo modo si concluse l’unica operazione di assassinio condotta contro un gerarca nazista di alto profilo. Nonostante la furia di Churchill, che promise che avrebbero raso al suolo tre villaggi tedeschi per ogni villaggio ceco distrutto, non se ne sarebbero tentate altre.

 

Per l’ultimo caso, i sabotaggi, l’esempio viene dall’Italia. Difficile narrare di un episodio in particolare, perché le cronache scarseggiano. La vita del sabotatore in realtà era più noiosa rispetto a quella dei colleghi (e anche più sicura, in un certo senso), era un lavoro su larga scala, fatto di tante piccole azioni, piuttosto che di una sola eclatante. Tuttavia non era privo di difficoltà. Prima di tutto perché doveva procacciarsi il materiale, contendendosi i lanci con le altre missioni di sabotaggio, oppure procurandoselo per vie traverse. Poi, doveva di solito agire su aree vaste, quindi occorreva muoversi per larghi tratti, spesso in condizioni climatiche precarie, soprattutto nelle zone alpine. Infine, era sempre esposto al rischio di rastrellamenti, vivendo insieme alle bande partigiane. Per non dire delle occasionali dispute che potevano accendersi tra e nelle bande partigiane per motivi politici, territoriali o, banalmente, per la spartizione di un lancio. Uno dei casi più estremi fu senza dubbio quello degli agenti inglesi finiti in mezzo allo scontro tra le bande comuniste slovene e italiane e le bande “bianche” italiane nella zona del Carso.

Una delle missioni del SOE più attiva in Italia, sia per la durata della missione che per i risultati, fu quella del Maggiore Wilkinson, che assunse il nome di battaglia “Freccia”. Wilkinson era nato a Shangai, e vide la prima azione in Francia come ufficiale d’artiglieria. Passò in Egitto, Libia e India. Infine, entrò nel SOE, affrontò il dovuto corso di paracadutismo e venne spedito in Italia. Arrivò la notte del 12 Agosto 1944, sull’altopiano dei Sette Comuni (Asiago), nome in codice: Ruina.

Il Maggiore Wilkinson “Freccia”

Wilkinson iniziò un’opera senza sosta per coordinare e aiutare i gruppi partigiani locali. Riuscì a dare efficacia a quella che era l’azione di bande scollegate tra loro che colpivano un po’ a casaccio nella zona. Ottenne lanci di materiale, munizioni, medicine, cibo. Si dedicò con profitto al sabotaggio, minando ponti, ferrovie e saccheggiando caserme. Questa attività lo costrinse a essere estremamente mobile, spostandosi in un’area piuttosto impervia. Nonostante questo, i suoi report al comando centrale sono ricchi di risultati. Wilkinson e i suoi sfuggirono più volte ai nazi-fascisti, sopravvivendo anche ai rastrellamenti dell’autunno del 1944, il momento più duro della Resistenza italiana, quando il rinvio dell’offensiva finale alla primavera dell’anno successivo da parte dei comandi alleati fa sì che i rifornimenti per le bande diminuiscano, è l’autunno del famoso “proclama Alexander” che chiedeva ai partigiani di tenere un basso profilo e conservare le forze per la battaglia finale della primavera. Wilkinson reagì con veemenza alla diminuzione dei lanci per la sua zona, accusando (nemmeno troppo velatamente) i comandi di aver abbandonato lui e i suoi uomini. Gli italiani, riferì Wilkinson amareggiato, stavano perdendo fiducia in lui e negli alleati, tutto il suo lavoro di mesi andava in fumo. Alla fine, insieme ai partigiani, non avrà altra scelta se non frammentare le bande in piccoli nuclei e lasciar mano libera ai nazi-fascisti, che tornarono, temporaneamente, padroni dell’altopiano. Solo con l’inizio dell’anno nuovo fu possibile riprendere l’attività con vigore. Wilkinson rimise in piedi le sue operazioni e riprese a girare l’altopiano e le zone circostanti. Fu proprio questa mobilità che alla fine ne segnò la sorte. L’8 Marzo 1945 fu sorpreso mentre tornava alla base da una pattuglia nazista in Val Barbarena. Quello che avvenne in seguito è poco chiaro ma “Freccia” fu infine ucciso; la tomba è ora a Padova, nel cimitero del Commonwealth, assieme ad altri 516 caduti della campagna d’Italia.

La tomba di Wilkinson a Padova. L’epitaffio recita un verso del poeta Siegfried Sassoon: “Hai già dimenticato? Guarda in alto e giura, per il verde della primavera, che non dimenticherai mai.”

Le missioni del SOE erano insomma dure, pericolosissime e, molte volte, letali. Gli agenti ricevevano un addestramento, è vero, ma molto spesso questo si rivelava insufficiente o inefficace. Troppe cose potevano andare storte. Qualcuno poteva tradire, come fu per Anthropoid, altre volte bastava un briciolo di sfortuna, come fu per Wilkinson. Quando tutto filava per il verso giusto ne uscivano storie quasi incredibili, come quella di Stanley Moss. In ogni caso, gli agenti del SOE svolsero un lavoro avaro sia di soddisfazioni personali che di riconoscimenti, ma contribuirono non poco alla vittoria finale in Europa (e in parte in Asia, dove Burma fu uno dei teatri più fecondi dell’azione del SOE).

Pubblicato da Alocin30590

Collezionista di aneddoti, attualmente soldato di ventura in terra scozzese.