Orientalismo

Orientalismo è un saggio che si colloca nel filone della storia culturale, scritto nel 1978 ad opera di Edward W. Said. Said, palestinese poi naturalizzato americano e professore di letteratura comparata all’Università della Columbia, compie un’operazione di analisi e sovvertimento dell’approccio storiografico a lui contemporaneo riguardante gli studi sull’Asia e sul Medio Oriente (all’epoca, per l’appunto, raggruppati sotto il nome di “orientalism”) lungo direttive che seguono le teorie gramsciane del concetto di egemonia (chiara fin dall’inizio, con la citazione da Marx “essi non possono rappresentare se stessi, devono essere rappresentati”). L’orientalismo per Said è una potente creazione ideologica occidentale che viene sfruttata da scrittori, filosofi e uomini politici per rapportarsi un Oriente diverso per costumi, etica e cultura. Said ripercorre le vie di Omero, Kipling, Disraeli, Flaubert le cui descrizioni immaginifiche dell’Oriente hanno così profondamente influenzato la visione degli occidentali di quelle terre, tra il romantico e l’esotico. Pescando anche dalla sua esperienza personale di arabo palestinese trasferitosi in Occidente, Said pone sotto esame questa visione e descrive come essa sia il riflesso di un atteggiamento razzista e imperialista da parte dell’Occidente sull’Oriente.

La pittura orientalista evoca scenari esotici e dai colori brillanti. Voi non sentite già caldo?

Il saggio è considerato il punto di avvio per la storiografia post-colonialista e per un approccio alla storia influenzato da concetti presi in prestito dall’antropologia. Nonostante le mutate condizioni geopolitiche di oggi rispetto al 1978, e quindi la caduta di alcune delle posizioni più strettamente “politiche” di Said (un esempio su tutti: l’orientalismo come giustificazione per il neocolonialismo) si può dire che il nocciolo delle critiche mosse da Said alla rappresentazione che l’occidente fa dell’oriente sia rimasto pressoché immutato dopo quasi quarant’anni. La primavera araba, il seguente colpo di stato in Egitto e i fatti semi-recenti in Turchia hanno dimostrato quanto ancora l’immagine che i media e la coscienza collettiva ci trasmettono dell’oriente siano debitori alle rappresentazioni costruitesi nel corso di più di mille anni di continui scontri, confronti e scambi verificatisi nel Mediterraneo.

Orientalismo: un problema di rappresentazione

Il punto di partenza per Said è la constatazione e la contestazione del modo in cui l’occidente rappresenta l’oriente, rappresentazione questa fortemente viziata da pregiudizi etnografici di varia natura, che portano inevitabilmente lo studioso (anche e spesso contro la sua volontà) ad operare seguendo categorie erronee e quindi, ovviamente, a produrre conclusioni altrettanto erronee.
L’atteggiamento orientalista produce infatti un “sottile ma persistente pregiudizio eurocentrico nei confronti delle popolazioni arabo-islamiche e la loro cultura” come risultato di una pervicace e continua romanticizzazione dell’Asia e dei popoli che la vivono. Con romanticizzazione si intende la distorsione di alcuni tratti socio-culturali al fine di renderli più shoccanti/interessanti per il proprio pubblico di lettori o referenti politici. Uno degli esempi considerati da Said è la spinta sessuale, una componente chiave di questa romanticizzazione. Le donne orientali, si dice, girano poco coperte, in abiti lascivi e la naturale “alta” temperatura di quelle terre, unita all’abbigliamento femminile (o alla mancanza dello stesso), provoca, nelle popolazioni orientali, un’incontrollabile spinta sessuale, con la conseguenza che il sesso, le orge e, in generale, tutto quello che è considerato impudico in occidente, venga invece considerato affare di tutti i giorni in oriente. Questa caratteristica viene di volta in volta vista come qualcosa a cui opporsi perché impropria di paesi civili, o qualcosa in cui indulgere perché carica di un fascino “esotico”, materia tratta in innumerevoli romanzi e film ambientati in oriente o che vedono al loro interno personaggi orientali, soprattutto femminili (esempio pratico è la fascinazione/repulsione dell’occidentale per il concetto di Harem). Può sembrare paradossale che un pregiudizio del genere ancora sopravviva in un’epoca in cui siamo bombardati da donne in burqua e dalla feroce repressione della sessualità in paesi come l’Arabia Saudita, eppure questa forma di etnocentrismo riemerge periodicamente al di sopra del clamore nei media.

La donna orientale è da sempre caratterizzata dalla lascivia. Un topòs di grande successo in età vittoriana, che ancora oggi gode di ottima salute.

Nell’Ottobre 2012 in piazza Tahrir, Egitto, una giornalista di France 24 viene aggredita e molestata da un gruppo di giovani. La reazione media all’avvenimento è: “lì succede così”. Che è un po’ come dire che a Napoli ti rubano l’orologio quando ti fermi ai semafori, “lì succede”. In altre parole, quando si viene a creare un momento di confronto con l’altro, l’alieno, e dovrebbero entrare in gioco le categorie dell’etnografia e l’interpretazione antropologica che portano a interpretare un comportamento del genere come pienamente razionale e coerente all’interno di un dato contesto culturale (benché del tutto inaccettabile, ma non posso mettermi qui a fare considerazioni di natura antropologica e etica di ricerca, altrimenti finisce che l’articolo si trasforma in qualcosa di completamente diverso), si preferisce recedere e far scattare la molla dell’orientalismo. La femmina orientale è lasciva, il maschio orientale è perennemente eccitato dal caldo e dalla femmina e quindi non ha freni inibitori che gli permettano di comportarsi in maniera civile. Non c’è nulla da spiegare, “lì, le cose vanno così.”

Questo perché una caratteristica chiave dell’orientalismo è il rifiuto di razionalizzare l’oriente. O meglio, di interpretare le azioni dei suoi abitanti usando un’ottica razionale. Non per partito preso, ma perché uno dei fondamenti della rappresentazione che l’occidente ha dell’oriente è proprio la sua carenza, o totale mancanza, di razionalità. L’orientale è irrazionale, mistico, fondamentalista, spirituale per natura. Il pensiero scientifico semplicemente non attacca da quelle parti. Anche qui gli esempi che sono arrivati fino ai giorni nostri sono innumerevoli. L’imam che sostiene che la Terra sia ferma costituisce solo l’ultimo e più pittoresco esempio di una lunga lista di confirmation bias che accompagna l’uomo occidentale nel suo approccio all’oriente. “Lì ragionano (o meglio, non ragionano) così.” Questa mancanza di razionalità è il motivo per cui l’oriente è incapace di progredire sostanzialmente dal punto di vista scientifico, sociale e politico. La presunta incapacità di pensiero scientifico porta molti a considerare impossibile il sorgere di democrazie nei paesi mediorientali, per cui è opinione piuttosto comune che l’opzione migliore per il “lì” in questione siano dittature militari che perlomeno fanno finta di osservare una laicità di stato. Le reazioni dopo la Primavera Araba vanno quasi tutte in questa direzione, ignorando il fatto che questo tipo di posizioni non fa che rafforzare la componente più fondamentalista delle società mediorientali dove serpeggia l’idea che la democrazia agli occidentali vada bene fintanto che non vince qualcuno come i Fratelli Musulmani in Egitto, e a quel punto, tanti saluti alla democrazia. In altre parole, si diffonde (magari inconsapevolmente e con le migliori intenzioni di stabilità) l’idea che la democrazia per queste organizzazioni sia un “gioco a perdere”, una partita truccata a cui non vale la pena partecipare. E ovviamente l’idea stessa di “esportare la democrazia”, rendendola quindi un concetto fortemente estraneo alle popolazioni locali è figlia della stessa scuola di pensiero macchiata di orientalismo.

La città orientale riflette la mancanza di raziocinio dei suoi abitanti: non c’è alcun tipo di pianificazione urbanistica, le case sono affastellate e mischiano stili architettonici, le strade sono tortuose e sporche.

Discendente diretta di questa idea, è la posizione secondo la quale l’Oriente sarebbe incapace di progredire. Altro punto chiave dell’orientalismo è infatti la percezione del mondo asiatico come statico. Poca differenza passa tra l’India dei veda e quella di Gandhi, entrambi i paesi sono patria di mistici e santoni, poca ne passa tra il Giappone di Tokugawa e quello di Abe, entrambi i paesi sono patria di tradizioni e codici di condotta ferrei, poca differenza passa tra l’Istambul dei sultani Ottomani e quella di Erdogan, entrambi i paesi sono patria di muezzin che urlano dai minareti e una burocrazia tentacolare e corrotta. Questa è una della caratteristiche più insidiose dell’orientalismo, benché forse la sua principale. Percepire l’oriente come immutabile favorisce una mentalità da “soluzioni-tampone” come possono essere le dittature nei paesi musulmani e impedisce un sano rapporto tra i governi e i popoli, perché “lì” alla fine non cambia mai nulla. Questa immutabilità dell’Oriente trascende non solo il tempo ma anche lo spazio. Qualche giorno fa m’è capitata sotto gli occhi su facebook una tavola da una storia di Paperino (datata 2001, quindi non proprio recentissima, ma nemmeno ere geologiche fa), in cui Paperino si trova a recarsi in una bottega per comperare un tappeto persiano. Ovviamente il negoziante è mediorientale (chi altri potrebbe vendere tappeti persiani?), fino alla punta del suo fez; forse un cappello fuori luogo in un negozio di articoli persiani, visto che si tratta di un copricapo origianario del Marocco (e la sua diffusione principale nell’Impero Ottomano). In una Paperopoli molto italiana, ma dove comunque la valuta è il dollaro (collocata quindi, potremmo dire, tra la via Emilia e il West) questo incontro tra Paperino ed il bottegaio, che si rivolge a lui con un persianissimo “Effendi”, risulta quasi surreale. In breve: si può anche trapiantare l’orientale in Occidente, ma questi conserverà sempre una o più caratteristiche tipiche del suo luogo d’origine che lo renderanno sempre diverso (magari in modo buffo come nella storia di paperino) e incapace di divenire pienamente occidentale.

Alle componenti esotiche della nudità del ragazzo/ragazza in primo piano e del serpente, si aggiunge anche il dato culturale: tutti i presenti sono seduti a terra, essendo dei barbari.

Questo ci porta al punto conclusivo, ovvero il “lì”, lo spazio, il luogo dell’orientalismo. Darne una definizione geografica è arduo, tanto che Said stesso non riuscì mai veramente nell’impresa e arrivò a sconfessare l’idea di una definizione geograficamente precisa dell’Oriente nelle edizioni successive (particolarmente in quella del 1995). Personalmente, ritengo che la definizione geografica sia superflua al giorno d’oggi. L’orientalismo come atteggiamento culturale ha perso gran parte della sua caratterizzazione originaria che lo vedeva legato alle colonie europee in Medio Oriente e Asia (basti pensare che ormai non esistano più i dipartimenti di “orientalism” nelle università, rimpiazzati da “vicino oriente”, “Asia orientale” ed altri termini che tendono a “spezzare” il monoblocco dell’oriente che invece è punto cardine del pensiero orientalista) e invece ha assunto una caratterizzazione più strettamente culturale, per cui anche sacche di popolazione (ad esempio i turchi che vivono in Germania o i calabresi a Torino) geograficamente rimosse dall’oriente vengono percepite e rappresentate in maniera orietalistica. Quello che resta del “lì” è il vago desiderio di controllarlo e dominarlo e al tempo stesso l’inquietudine che porta ad avere un atteggiamento difensivo nei suoi confronti. Quindi l’orientalismo moderno non ha un “lì” preciso e definito, e proprio per questo il concetto di orientalismo, oggi più che nel 1978, è utile per definire le molteplici forme di etnocentrismo che permeano la coscienza comune ed i media.

Orientalismo o etnocentrismo?

Come accennato prima l’Orientalismo è una forma di etnocentrismo. Mi pare dunque appropriato concludere con una piccola digressione su quali siano le differenze tra le due posizioni ideologiche e perché si può dire che l’Orientalismo sia una forma di etnocentrismo “sotto steroidi”.
Etnocentrico è definito l’atteggiamento di chi, nel confrontarsi con culture diverse, postula la superiorità della propria. L’etnocentrismo è stato a lungo un grosso limite nella ricerca antropologica, perché portava una ricerca scientifica a macchiarsi di considerazioni di natura morale che le impedivano di avere compiutezza. Messo in discussione da studiosi come Boas e Malinowski all’inizio del XX secolo, l’etnocentrismo ha rapidamente perso valore all’interno degli studi antropologici che hanno assunto come paradigma il contestualizzare comportamenti culturali apparentemente irrazionali o immorali (come il cannibalismo, ad esempio) che in realtà sono perfettamente compatibili e coerenti con un sistema culturale differente. Questo perché ogni sistema culturale è rappresentabile come un circolo chiuso che si auto-giustifica. Il che non implica che l’antropologo non possa dare un giudizio morale al di fuori del suo studio, ovviamente come ricordato da de Martino.

L’Orientalismo differisce dall’etnocentrismo semplice per due motivi: una situazione di superiorità di una parte sull’altra (solo ideologica o anche politico/militare) e la consistenza nel tempo di tale rapporto. Etnocentrico può benissimo essere un europeo nei confronti di un americano, applicando il classico stereotipo dell’americano ignorante e dal grilletto facile. Tuttavia sarebbe erroneo considerare orientalismo stricto sensu tale rapporto. L’orientalismo infatti prevede un rapporto di forze in cui alla fascinazione e alla repulsione si affianca anche un chiaro sistema gerarchico che vede i produttori di tesi orientaliste al vertice. Appare chiaro dunque come questo tipo di rapporto venga del tutto a mancare nel caso citato ad esempio. Anzi, si può dire che questo sia rovesciato, vista la chiara subordinazione militare e politica europea nei confronti degli Stati Uniti d’America.
Questo vale più o meno per tutte le forme di etnocentrismo, anche quello esercitato da organizzazioni come ISIS nei confronti dell’occidente. Oltretutto, questi casi mancano del lento costruirsi del rapporto nel corso dei millenni poiché sono fenomeni relativamente recenti.
Casi-limite di orientalismo potrebbero essere la dominazione inglese dell’Irlanda o quella austriaca del Nord-Est italiano. Tuttavia anche questi casi presentano una componente temporale decisamente inferiore a quella che esiste nel caso del rapporto tra Oriente e Occidente.
Said infatti fa notare come la virulenta polemica contro l’Islam tanto nella cultura popolare che in quella elevata in Occidente non abbia subito significative variazioni dal Medioevo ai tempi moderni (se non in tempi recentissimi). Per nessun altro gruppo sociale/politico si può dire lo stesso. L’indagine condotta sui libri di testo americani con argomento le popolazioni arabe rivelò, nel 1975, un concentrato di miti e pregiudizi che non avrebbero sfigurato in una arringa di qualche prete crociato nell’XII secolo. Dalla concezione che “Maometto li convinse [gli arabi] che erano destinati a dominare il mondo” all’idea che “[il punto di contatto tra tutti gli arabi] è l’ostilità, l’odio, verso gli Ebrei”, fio ad arrivare ad un classico tòpos orientalista: “in pochi tra le persone [gli arabi] di quest’area sanno che esiste un modo migliore di vivere.”

Anche un new media come il videogioco ricicla spesso e volentieri suggestioni orientalistiche.

Un ultimo punto: l’orientalismo non è sempre sovrapponibile al razzismo, soprattutto in ambiente culturale. Almeno, non lo è fintanto che è operazione culturale consapevole o volta all’ironia. La fascinazione per l’esotico è profondamente legata nella cultura occidentale e ci arriva da millenni di scambi e scontri con quel mondo. Da Marco Polo (e forse anche prima) in poi si può dire che l’Asia sia sempre stata il luogo d’elezione per le fantasie occidentali (e.g. La Gerusalemme Liberata) e un certo grado di fascinazione è ineliminabile, perché si tratta sempre di culture profondamente differenti dalla nostra. Quando l’orientalismo diventa categoria di pensiero usata per costruire una rappresentazione egemonica dell’oriente e giustificare così la conquista militare e/o lo sfruttamento socio-politico dei popoli orientali, allora diventa un’altra freccia all’arco del razzismo.

In chiusura una precisazione, anche se farla mi sembra pleonastico: tutto questo discorso non vuole essere un attacco all’Occidente, né ridurre il rapporto che questo ha con l’Oriente ad una caricatura. L’operazione di Said è puramente accademica e volta a interpretare un fenomeno (quello del costruirsi di una data rappresentazione culturale). L’autore stesso afferma esplicitamente che non è suo interesse difendere l’Islam o presentare una visione “migliore” dell’Oriente rispetto a quella diffusa correntemente.

Vi lascio quindi con una canzone “orientalista”:

Pubblicato da Alocin30590

Collezionista di aneddoti, attualmente soldato di ventura in terra scozzese.