Otsukimi, la festa della luna d’autunno (e un brunch a tema)

In questo articolo, voglio cogliere l’occasione di un brunch a cui ho partecipato (…il primo della mia vita!) per parlare di una tradizione giapponese e mostrare alcuni piatti tipici nipponici che ho assaggiato. Dopo diverso tempo dal mio trasferimento dalla precedente università, ho avuto modo di andare a trovare a Treviso una cara amica, collega di lingue orientali. Insieme, abbiamo partecipato al Jappo Brunch a tema Otsukimi presso Ikiya, un locale per metà negozio e per metà bar/ristorante/sala da tè. (Vi ho linkato il sito in caso siate curiosi, non per far da sponsor! :D)

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Festa della Luna a Pechino

L’Otsukimi, la festa della luna

Per prima cosa, partiamo dall’aspetto culturale: cosa significa Otsukimi e che cosa si festeggia? Il termine Otsukimi è composto dalla forma onorifica (お, o), seguita dal kanji di luna (月, tsuki) e da quello di guardare (見, mi, dal verbo miru). Letteralmente significa guardare la luna e, nello specifico, ammirarla quando è piena.

L’Otsukimi giapponese si festeggia sin dal periodo Heian (794-1185 d.C.), ma le sue origini sono da ricercarsi nella Festa di metà autunno cinese, denominata anche Festa della luna o Festa Zhongqiu, antica più di tremila anni. Viene celebrata anche in Corea con il nome di Chuseok e in Vietnam come Tết Trung Thu.

La data di questa festività è variabile, dal momento che si tiene il quindicesimo giorno dell’ottavo mese secondo il calendario cinese lunisolare: quest’anno è caduta il 13 di settembre, mentre il prossimo anno si festeggerà l’1 ottobre.

Il coniglio lunare, intento a pestare le sue erbe

Houyi, Chang’e e il coniglio di giada

Quando guardate la luna, vi soffermate mai a domandarvi che cosa rappresentino le sue macchie? Secondo una leggenda cinese, infatti, si tratterebbe del coniglio di giada (o coniglio lunare), intento a macinare erbe nel proprio pestello.

Il coniglio sarebbe il compagno di una divinità, la dea lunare dell’immortalità: Chang’e. Secondo il mito, Chang’e era l’ancella della Regina Madre dell’Ovest (moglie dell’Imperatore di Giada) e si innamorò di un essere immortale, Houyi. I due vennero banditi dal regno celeste e spediti sulla terra, ove Houyi si reinventò come cacciatore e arciere.

A quel tempo, i soli nel cielo erano dieci. Ogni giorno, a turno, uno di questi viaggiava intorno al mondo sopra un carro, portando la luce nel mondo. Un infausto giorno, però, i soli decisero di partire tutti insieme, bruciando il pianeta al loro passaggio. Fu Houyi a salvare la terra e i suoi abitanti: venne incaricato dall’allora Imperatore della Cina, Yao (2200 a.C.), di abbattere tutti i soli tranne uno.

La ricompensa fu una pillola che garantiva l’immortalità, e che avrebbe restituito a Houyi la condizione precedente alla punizione dell’Imperatore di Giada. Era importante, però, che la pillola non venisse consumata immediatamente: Houyi si sarebbe dovuto preparare, pregando e digiunando per un intero anno. Per questo motivo, l’arciere la nascose sotto un’asse di legno all’interno della propria casa, lasciandola al sicuro mentre svolgeva altre mansioni per l’Imperatore Yao.

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Chang’e vola sulla luna in una rappresentazione di Yoshitoshi Tsukioka (1890 ca)

Durante una delle sue assenze, però, Chang’e non poté fare a meno di notare un chiarore proveniente dalla tavola. Trovata la pillola, l’inghiottì e acquisì la capacità di volare. Al ritorno dell’arciere, sentendosi rimproverare aspramente, la donna volò via dalla finestra e si librò in cielo, sempre più lontano. Houyi riuscì a seguirla solo per un breve tratto, mentre Chang’e raggiunse la luna: qui, tossì la pillola e perse la possibilità di sollevarsi in cielo.

Desiderosa di tornare sulla terra dal marito, Chang’e domandò al coniglio lunare di produrle un’altra pillola con le sue erbe. Ma, come possiamo vedere dalle macchie lunari, il coniglietto è ancora impegnato a cercare di produrre l’intruglio. Houyi, intanto, si è costruito una casa sul sole: i due rappresentano, in questo modo, i principi di Yin e Yang.

Riescono ad incontrarsi una sola volta l’anno, durante la Festa di metà autunno. Houyi può finalmente a raggiungere la luna, motivo per cui essa appare così piena, bella e luminosa che rispetto al resto dell’anno.

Chiaramente, la leggenda ha più di una versione. Secondo un altro mito, Chang’e inghiottì la pillola perché Peng, apprendista arciere di Houyi, cercò di rubarla. In una terza versione, invece, Houyi e Chang’e erano già immortali quando il cacciatore uccise i nove soli, e furono puniti dall’Imperatore di Giada per la morte dei suoi figli. Chang’e soffriva enormemente per la perdita della vita eterna, per cui Houyi partì per un lungo viaggio alla ricerca della pillola: gli venne infine donata dalla Regina Madre dell’Ovest, con l’avvertimento di utilizzarne solo metà a persona.

L’arciere chiuse la pillola in un cofanetto e raccomandò alla moglie di non aprirla… Cosa che chiaramente lei fece. Spaventata perché Houyi stava per scoprirla con le mani nel sacco, inghiottì tutta la pillola e iniziò a fluttuare senza riuscire a fermarsi.

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Il coniglio e la scimmia in una rappresentazione di Yoshitoshi Tsukioka (1889)

E come spiegare, invece, la presenza del coniglio sulla luna? In questo caso, ci viene in soccorso una fiaba buddista con intenti moralistici. Durante il giorno sacro di Uposatha (votato a carità e meditazione), quattro amici animali erano intenti a prodigarsi in opere di bene. Questi erano una scimmia, una lontra, uno sciacallo e un coniglio (secondo altre versioni, è presente una volpe al posto dello sciacallo, oppure un orso al posto della lontra).

Incappati in un vecchio viandante affamato, ognuno di essi decise di dar fondo alle proprie abilità per procacciare del cibo. La scimmia si arrampicò sugli alberi per cogliere la frutta, la lontra nuotò agilmente per pescare, lo sciacallo decise di trafugare viveri da un’abitazione incustodita. Il coniglio, però, non dotato di particolari abilità, procacciò solo una manciata di erbe. Determinato a fare comunque la propria parte, decise di gettarsi nel fuoco per offrire le proprie carni al viandante.

L’uomo si rivelò essere la divinità induista Śakra: profondamente toccato dalla virtù del coniglio, ne disegnò la sagoma sulla superficie lunare, rendendone immortale la storia. Secondo una diversa leggenda, invece, fu proprio Chang’e a salvare l’animaletto dalle fiamme, portandolo in volo sulla luna.

E ora… Cibo!

Durante l’Otsukimi giapponese, è uso consumare cibo la cui forma ricordi la luna piena. Per esempio, si preparano gli Tsukimi dango, piccoli dolcetti di riso glutinoso. Si consumano anche le patate dolci, i fagioli o le castagne. Generalmente, vengono fatte offerte alle divinità per la buona riuscita dei raccolti autunnali.

In questa prima fotografia, sono presenti quattro dei sei piatti che ci sono stati serviti. Dolce a parte, non c’era un ordine preciso da seguire per il consumo delle pietanze. Anzi, siamo state invitate a saltare da un piatto all’altro.

  • In alto a sinistra: insalata di alghe con takuan, ossia il ravanello giapponese marinato;
  • In alto a destra: daigaku imo, patate dolci caramellate al sesamo;
  • In basso a sinistra: tsukimi dango, polpettine di riso e tofu con salsa agrodolce;
  • In basso a destra: riso takikomi, vale a dire riso con verdure e omelette (o alga, come nel mio caso).

L’insalata di alghe è forse il piatto che ci è piaciuto di meno, aveva un sapore un po’ troppo aspro. Il takuan solitamente viene servito a fine pasto per aiutare la digestione. Viene preparato essiccandolo e aggiungendo spezie come il peperoncino o l’alga kombu che addolcisce i sapori.

Le patate dolci col sesamo probabilmente erano la cosa più squisita di tutte, sebbene costituissero il piatto dalla preparazione più semplice. Erano glassate con olio di sesamo e salsa di soia e spolverate di semi di sesamo. Trattandosi di un piatto di facile preparazione (e dal costo non molto elevato), in Giappone è molto popolare tra gli studenti universitari (Daigaku significa appunto università).

dango sono piccoli gnocchetti di riso glutinoso ed è possibile mangiarli sia salati, sia dolci. Nel nostro caso, erano serviti con tofu e salsa agrodolce. Esiste un proverbio giapponese che recita hana yori dango, vale a dire “meglio i dango che i fiori”, ossia meglio le cose pratiche rispetto a quelle belle ma inutili. Sono piuttosto appiccicosi e impegnativi da masticare, ma anche deliziosi.

Il riso takikomi ci è stato servito come un dischetto di forma circolare (sempre per richiamare la luna) ornato da un’alga. Questo particolare piatto di prepara con un brodo di pesce (dashi), salsa di soia, funghi e verdure. La ricetta può variare a seconda della stagione e contenere pesce o carne, castagne, bambù e frutti di mare. Anche questo piatto era molto buono, ma è stato un po’ complicato consumarlo con le bacchette perché, giustamente, il riso scappava dappertutto.

Questi, invece, sono gli tsukimi udonudon in brodo con uovo o tofu saltato in padella (come nel mio caso), cipollotto e alga nori. In generale, gli udon sono tagliolini in brodo e vengono preparati con contorni differenti: pesce, tofu, uovo crudo, carne, funghi… Per quanto riguarda la pasta in sé, è morbida ed elastica: è composta da farina di frumento, acqua e sale. Gli udon cuociono molto rapidamente.

Il brodo era molto caldo, motivo per cui abbiamo consumato questo piatto per ultimo. In realtà, i giapponesi non hanno alcun problema a ingollarlo anche bollente e quando lo fanno, producono un suono di risucchio che a noi potrebbe dare fastidio. Secondo il galateo nipponico, però, fare rumore mangiando è un segno di apprezzamento del piatto.

Infine, il dolce: daifuku mochi, dolcetti di farina di riso, ripieni di marmellata di azuki. Anche questi erano abbastanza appiccicosi: il cameriere si è scordato di portarci la forchettina e noi, pensando di doverli mangiare con le mani, ci siamo ritrovate con pezzetti di mochi che non si staccavano più dalle dita. Solo dopo un po’ ci siamo rese conto che gli altri invece avevano le posate…

Il mochi è un dolcetto giapponese classico, preparato con riso glutinoso tritato finché non ne risulta una pasta appiccicosa. La variante daifuku significa grande fortuna ed è la tipologia di mochi che solitamente contiene la marmellata di azuki, i fagioli rossi. Ne esistono anche varianti con pezzi di frutta interi o con marmellate di altro genere.

Nonostante il disguido con l’appiccicosità, ne avrei mangiati altri venti. La marmellata di azuki (che in giapponese si chiama anko) ha un sapore dolciastro ma per nulla stucchevole. Viene utilizzata come ripieno anche per i taiyaki (a forma di pesce) e i più celebri dorayaki (simili a pancake). In alcuni casi, vi si condisce anche il gelato.

Ad accompagnare il pasto, ci è stato servito come tè il genmaicha: si tratta di una bevanda a base di foglie di tè banchasencha, miscelate con riso tostato.

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Daifuku mochi in versione sakura (ciliegia)

Spero che questo articolo ibrido tra cultura e racconto di un pasto sia stato interessante, almeno in parte.

Sayounara

Pubblicato da Kitsune

七転び八起き。