Quando una Hafu diventò Miss Japan

Salve a tutti, lettori della Kasbah!

Solitamente, sono una persona di poche parole. Per cui, prima di cominciare con il mio primo articolo, ne spenderò giusto un paio su di me, perché mi pare doveroso presentarmi!

Sono Kitsune, di un’età non definita tra i 20 e i 30 anni, e studio Lingue, Mercati e Culture dell’Asia all’università di Bologna. Ed è proprio dal mio percorso di studi, che ho attinto per cominciare a scrivere presso il penultimo baluardo del buon senso!

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Kenzaburō Ōe

«Io e il mio ambiguo Giappone»

Kenzaburō Ōe ha vinto il Nobel per la letteratura nel 1994, ed è stato il secondo autore giapponese dopo lo scrittore Yasunari Kawabata (1968). Il titolo del suo discorso a Stoccolma è stato proprio «Io e il mio ambiguo Giappone», per richiamare quello del suo predecessore, «Io e il mio bel Giappone». L’intento era quello di discostarsi dalla visione di Kawabata, legata a concetti e canoni tradizionali di bellezza, per muovere invece una critica alla società nipponica. Quello che Ōe intendeva fare, era indurre a una riflessione riguardo il suo Paese, incapace di compiere un pieno riesame critico della storia recente.

Voglio guidarvi lungo un breve percorso, tentando di dare accenni di “motivazioni” di questa ambiguità. Chiaramente non è possibile ridurre tutta una storia e una cultura in pochi caratteri e in qualche definizione. Voglio semplicemente fissare alcuni punti di interesse, fino a giungere all’argomento principe di questo articolo: gli Hafu e la loro condizione in Giappone.

Sakoku

Le ambiguità nella società giapponese sono molteplici, d’altro canto stiamo parlando di un Paese che è stato costretto a una repentina apertura dopo un lungo periodo di autarchia. Il periodo Sakoku (鎖国 letteralmente, “paese chiuso”) è cominciato nel periodo Edo, nel 1641, con un editto dello shōgun Tokugawa Iemitsu, ed è terminato ben 212 anni dopo, quando il commodoro statunitense Matthew Perry si presentò nel porto di Uraga (Baia di Tokyo) e ne forzò l’apertura. Questo episodio diede inizio a una serie di trattati ineguali, i quali concedevano privilegi incredibili a favore delle potenze straniere.

Si ritiene che il periodo del Sakoku fosse stato istituito principalmente per arrestare l’influenza religiosa della Spagna e del Portogallo. Le missioni di evangelizzazione erano cominciate nel 1549, quando Francesco Saverio approdò in Giappone dall’isola di Malacca. Furono in particolar modo i gesuiti a dedicarsi alla missione di evangelizzare il Paese, ma non passò molto tempo prima che lo shogunato cominciasse a sentire minata la propria autorità. Nel 1587 venne emesso un editto per l’espulsione degli stranieri. Dal momento che, chiaramente, le attività religiose proseguivano di nascosto, cominciarono le persecuzioni, culminate il 5 febbraio 1597 con la crocefissione di 26 cristiani (6 francescani, 3 gesuiti, 17 giapponesi).

In caso foste interessati all’argomento, vi consiglio il romanzo Silenzio (Chinmoku, in lingua originale), dello scrittore Shūsaku Endō. Ne è stato tratto anche un film, diretto da Martin Scorsese e intitolato Silence.
Silence – Martin Scorsese – 2016

Kaikoku

Tornando al Sakoku, il Paese venne isolato dai contatti con l’esterno, ad eccezione di alcuni porti commerciali con l’Olanda, la quale mantenne la concessione in cambio della promessa di non intromettersi in questioni politiche e religiose. Anche i coreani continuarono a tenere i contatti col Giappone tramite il feudo di Tsushima, mentre ai cinesi era permesso l’approdo al solo porto di Nagasaki. Il Giappone, governato dallo shōgun e con l’imperatore praticamente privo di ogni potere, passò quindi 212 anni con contatti esterni limitati. Fiorirono comunque gli studi sugli olandesi (Rangaku) e di alcuni testi occidentali, al fine di divulgare novità e tecnologie straniere. La popolazione comune non aveva modo di interagire più di tanto con le culture straniere, e rimase isolata.

La svolta avvenne, come dicevo prima, ad opera degli Stati Uniti, che forzarono i porti. Ebbe inizio l’era del Kaikoku (開国 “paese aperto”) che culminò con la Restaurazione Meiji (1868), con la quale vennero riconsegnati i pieni poteri all’Imperatore e abolito lo shogunato. L’imperatore Meiji (nome postumo di Mutsuhito, e che dà nome anche al periodo del suo regno, 1868-1912) si basò sul modello politico-sociale-economico occidentale, e promulgò anche una costituzione. Con un fast forward, però, voglio arrivare ad un ulteriore nocciolo dell’evoluzione della società nipponica: la conclusione della Seconda Guerra Mondiale.

Dichiarazione della natura umana dell’Imperatore

Come ben sappiamo, la Seconda Guerra Mondiale si è conclusa con la resa incondizionata dell’Impero del Giappone. Non è tuttavia mia intenzione soffermarmi sull’utilizzo della bomba atomica, né su altri dettagli riguardanti il conflitto (non oggi, almeno!). Ciò che è utile al nostro discorso, è la Dichiarazione della natura umana dell’Imperatore, pronunciata dall’allora imperatore Hirohito, su richiesta del comandante supremo delle forze alleate, Douglas MacArthur.

Il 1° gennaio 1946, infatti, Hirohito fu caldamente consigliato (per così dire) a rigettare ufficialmente l’idea tradizionale giapponese, legata alla religione shintō, secondo cui l’imperatore sarebbe discendente di una divinità. Secondo le leggende, riportate anche nel Kojiki (“Vecchie cose scritte” 712, uno dei primi testi giapponesi e il primo a non essere redatto in cinese), il pronipote della dea del sole, sarebbe sceso sulla Terra e avrebbe fondato la dinastia Imperiale di Yamato. Secondo alcune interpretazioni, comunque, i termini utilizzati da Hirohito nel discorso, non rigettavano propriamente la natura divina della dinastia imperiale.

In ogni caso, gli Stati Uniti occuparono il Giappone, e non lo abbandonarono del tutto fino al 1972. Venne influenzata la stesura della nuova Costituzione, così come la cultura, la società e l’economia. Il Giappone ha, infatti, raggiunto uno sviluppo economico rapidissimo nel periodo del dopoguerra, modernizzandosi completamente. I Paese del Sol Levante ha fatto propria la tecnologia importata dall’estero e l’ha saputa evolvere, trasformare e assimilare in pochissimo tempo. Se pensiamo alla condizione tecnologica in cui viveva l’Impero prima dell’apertura agli stranieri, ci rendiamo conto di quanto velocemente sia cambiato.

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Hafu – The mixed-race experience in Japan – 2013

Gli Hafu

Dopo una rapida apertura forzata, la presa di contatto con culture straniere e la dichiarazione di Hirohito, possiamo immaginare per quale motivo le ambiguità della società rimangano molte. Uno dei problemi più conosciuti è quello della religione, per cui molti giapponesi si dichiarano facilmente credenti di più culti contemporaneamente, apparentemente “confusi” riguardo lo shintō, ma neppure completamente cristiani. In molti, tra le altre cose, si recano sia in santuari shintō, sia in santuari buddhisti, festeggiando infine pure il Natale!

Siamo finalmente giunti alla particolare ambiguità di cui volevo trattare quest’oggi: la condizione nella società nipponica degli hafu, il cui nome è la traslitterazione giapponese della parola inglese half (ハーフ), ossia “metà”. Come suggerisce la parola stessa, gli hafu non sono giapponesi “puri”, ma figli di una persona di nazionalità giapponese, e una di nazionalità straniera. In un Paese in cui vige ancora un certo ideale di omogeneità, ancora oggi la vita di queste persone non è delle più semplici.

Nel documentario del 2013 Hafu – The mixed-race experience in Japan di Megumi Nishikura e Lara Perez Takagi, vengono raccontate le storie di cinque ragazzi e ragazze e delle loro difficoltà in quanto figli “di sangue misto”. Normalmente, gli hafu nascono e crescono in Giappone, ma non sempre ottengono la cittadinanza nipponica alla nascita. Inoltre, subiscono continui atti di discriminazione e bullismo fin dalle scuole elementari. Gli insegnanti stessi, a volte, li invitano a “cavarsela da soli” quando sono in difficoltà, oppure li bollano come bambini con problemi di apprendimento e si dedicano a loro il meno possibile. Spesso, l’unica soluzione che trovano i genitori, è quella di mandarli in una scuola internazionale, in modo che possano trovarsi assieme ad altri hafu e non sentirsi esclusi.

Molti hafu, crescendo, vivono un periodo di confusione, durante il quale non sentono di appartenere alla società giapponese in cui sono cresciuti e, allo stesso tempo, non conoscono approfonditamente neppure l’altra loro “metà”. In tanti, inoltre, hanno paura a rivelare ai propri amici o interessi amorosi di essere mixed-race, per paura di essere allontanati. Ci sono persone, invece, che sono fiere di portare con sé il retaggio di due culture differenti, e che cercano di promuovere la varietà all’interno della società giapponese. Alcuni si incontrano grazie all’associazione Mixed Roots Japan e condividono le proprie esperienze e difficoltà, all’interno di una società che non riesce a superare a pieno il razzismo.

C’è anche da dire, però, che il Giappone è un Paese che sta invecchiando rapidamente. La demografia cola a picco, gli abitanti sono sempre più anziani e si contano sempre meno nascite. L’unica soluzione è quella dell’immigrazione, proveniente soprattutto dai Paesi asiatici confinanti, il che non potrebbe che comportare un aumento di bambini hafu all’interno della società.

C’è, però, la speranza che qualcosa possa cambiare.

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Ariana Miyamoto – Miss Japan 2015

Ariana Miyamoto: una hafu come Miss Japan

Nel 2015, una hafu è stata eletta Miss Giappone e ha rappresentato il Paese per il concorso internazionale di Miss Universo. Ariana è figlia di un militare afroamericano e di una donna giapponese, ed è cresciuta a Sasebo fino ai 13 anni, per poi trasferirsi negli Stati Uniti per qualche anno, e rientrare nuovamente in Giappone per terminare gli studi del liceo.

La stessa Ariana racconta di discriminazioni subite quando frequentava le scuole elementari, e di come il suicidio di un amico, hafu anche lui, l’abbia ispirata a parlare, nel tentativo di sensibilizzare la società. C’è ancora molta strada da fare, in Giappone, per mettere da parte il concetto di giapponesità e abbracciare il diverso.

Chiaramente, le polemiche non sono mancate. Sono stati in molti ad opporsi alla decisione di una Miss Giappone “non pura” e parecchi giapponesi non si sono sentiti rappresentati da questa scelta, senza dubbio inaspettata.

Tuttavia, sembra che tra i giovani qualcosa stia cambiando: in una serie di brevi interviste ad alcuni ragazzi, infatti, lo YouTuber nipponico Yuta, ha raccolto testimonianze positive riguardo la vittoria di Ariana Miyamoto come Miss Giappone. Il Paese del Sol Levante non può permettersi di rimanere ancorato nel suo ideale di purezza e omogeneità, e sembra che i giovani cittadini siano d’accordo con l’idea di una maggiore apertura e inclusione.

D’altro canto, il Giappone non può negare il suo costante bisogno di immigrazione, né può continuare a ignorare la presenza sempre crescente di stranieri sul proprio territorio, in particolar modo cinesi, coreani e filippini. Tra un anno, Tokyo ospiterà nuovamente le Olimpiadi estive: per costruire gli stadi e le strutture di cui c’è necessità, è richiesta tantissima manodopera straniera a basso costo. L’ambiguità possiamo riscontrarla anche in questo caso: il governo non riconosce il visto a molti di questi immigrati, i quali ufficialmente non potrebbero lavorare. Al contempo, però, questi stessi immigrati illegali, lavorano in cantieri sovvenzionati dal governo, e sono assolutamente necessari!

Nella speranza di non aver straparlato troppo e di avervi raccontato qualcosa di interessante, io vi saluto per oggi: sayounara!

Pubblicato da Kitsune

七転び八起き。