Tina 7 – Mosca

Arrivata a Mosca a Tina sembrò tutto grandioso e sconvolgente. Il Partito le assegnò una stanza all’albergo Sojuznaja, dove alloggiavano i funzionari, accompagnata da Vidali.

Questa è la nostra stanza? La dividiamo assieme? Non vedo la tua roba, le tue cose!“.
Sto nella stanza al piano di sopra…“.
E perchè mai?“.
Sai, qui dobbiamo attenerci ad una certa morale, noi non siamo sposati!“.
Sposati? Morale? Ma di che stai parlando?“.
Qui non esiste vita privata… Siamo qui, per un preciso impegno politico, la lotta contro l’oppressione fascista, tutto il resto passa in secondo ordine… Scordati la libertà che avevi in Messico! Qui si fa sul serio! Qui a Mosca arrivano esuli politici da tutto il mondo, oltre che dall’Italia, ma non tutti sono comunisti. Molti di loro sono socialisti, anarchici e non sempre sono d’accordo con le direttive dell’Esecutivo… A volte rappresentano un problema, un ostacolo allo svolgimento dei programmi“.
Ma Vittorio, anche loro sono compagni che lottano contro il fascismo!
Vidali con arroganza: “Stalin non ha simpatia verso socialisti e anarchici… Li considera i peggiori dissidenti! E ha ragione. Abbiamo visto tutti dove porta il socialismo. Non era socialista anche Mussolini, prima di diventare fascista? Gli unici veri compagni sono i Comunisti, perchè solo loro, sanno stare alle direttive dell’Esecutivo, anche quando questo sbaglia… La pensa così anche Togliatti!“.

 

 

La rigida morale bolscevica della quale Jelena Dimitrova Stassova, segretaria di Lenin prima e di Stalin poi, era garante, si affermò subito. La Stassova convocò Vidali, chiedendogli spiegazioni sulla sua condotta immorale con Tina Modotti, mentre la sua relazione con Paolina Hafkina non si era conclusa. Vidali negò di avere rapporti con Tina, affermando che aspettava un figlio dalla Hafkina. Pochi giorni dopo nacque Bianca che placò le attenzioni della Stassova. In seguito Vidali si separò ufficialmente da Paolina, potendo risiedere ufficialmente nella stanza del Sojuznaja con Tina.

Anche Tina aveva una questione in sospeso: cercò Xavier Guerrero per chiarire la lettera a cui non aveva mai risposto. Non rispose ai messaggi, quindi lo aspettò fuori dal suo alloggio. Mentre lei cercò di spiegargli il senso di quella lettera, invitandolo a mantenere un rapporto di amicizia, lui rimase freddo, impassibile, invitandola a uscire dalla sua camera, dicendole: “Per quel che mi riguarda, non ci siamo mai conosciuti“. Poi la ferì più profondamente: “Ti sei messa con quell’italiano?” “Esistesse un altro mondo vorrei vedere la faccia di Julio in questo momento!” Richiuse la porta con disprezzo e in silenzio, mentre Tina si contraeva, come l’avesse colpita un dolore insopportabile.

 

Jelena Dimitrova Stassova, segretaria di Stalin (Tina Modotti, 1930)

 

Il 7 ottobre Tina partecipò alla commemorazione della Rivoluzione d’Ottobre fra un oceano di bandiere rosse, fanfare e cori. Vittorio Vidali era al suo fianco salutato dalle alte personalità del partito e dell’esercito. Stalin gli aveva stretto la mano per la prima volta nel 1928 e quando fu invitato sul palco “il piccolo padre” gli rivolse un sorriso solenne. Per Tina, le emozioni di quella giornata furono la conferma di aver intrapreso la giusta strada. Assegnata all’ufficio estero di Soccorso Rosso, si immerse con disciplina nel lavoro burocratico. La conoscenza di varie lingue e la dedizione nel lavorare dodici ore al giorno, la ricompensarono con la promozione al settore Stampa e propaganda. Traduceva articoli da giornali stranieri e ne curava l’archivio, ma scrisse anche relazioni e appelli e venne inviata nelle fabbriche a tenere conferenze sulla repressione dei Paesi europei. L’iniziale entusiasmo si rifletté in un’ennesima lettera a Weston. Che fu l’ultima; dal quel 12 gennaio in cui la ricevette, Weston non seppe più nulla di lei.

Ormai li divideva un baratro incolmabile. Tina aveva messo da parte i dubbi e gli eventi non le concedevano sguardi indietro. Da tempo le loro lettere erano monologhi che avevano in comune solo il passato. Gli scriveva per sfogarsi, per esternare le sue angoscie. Mentre in Weston il pessimismo si rivolgeva verso il genere umano, una viscerale insofferenza per tutto ciò che poteva essere identificato con “le masse”. Anche la presenza di Vidali influì, Weston non perse mai l’occasione per ricordarle che l’Unione Sovietica, dovendo difendersi da molti nemici interni ed esterni, era costretta a controllare capillarmente le relazioni dei militanti stranieri…

 

Vittorio Vidali during a trip near Moscow (Soviet Union 1930, Tina Modotti)

 

Tutto il potere ai soviet, ovvero ai consigli assembleari, era la parola d’ordine di una realtà romantica, cancellata da un’altra realtà in cui ogni decisione era frutto di torbide trame. Lo sforzo gigantesco per raggiungere il primo piano quinquennale, mostrò l’orrido volto della rivoluzione: penuria, stanchezza, malinconia, il polipo delatore pronto a denunciare la minima trasgressione all’ortodossia staliniana. Vittorio Vidali era uno dei pochi stranieri che possedeva la tessera del Partito, segno della fiducia che l’apparato nutriva nei suoi confronti. Ma anche lui nel 1933 dovette sottoporsi al filtro della Ciska, l’organismo centrale che decideva le epurazioni. Una commissione eseguiva uno studio approfondito dei dati biografici e solo se fossero stati comprovati l’assoluta estraneità ai sospetti di “ipocrisia” o “degenerazione di origine piccolo-borghese“, la tessera sarebbe stata restituita. Vidali ebbe la sgradita sorpresa di trovarsi Luigi Longo come accusatore, che non esitò a deferirlo per le sue trascorse “inclinazioni terroriste“. Ma la compagna Presidente della Ciska in persona si levò in sua difesa, esaltandone l’integrità di militante. Probabilmente i favori resi da Vidali, lo preservarono da qualunque tentativo delatorio da parte dei connazionali.

Frattanto Tina continuò a partecipare a tutte le riunioni del comitato esecutivo e alla cellula di partito in cui era iscritta, rinchiudendosi progressivamente in un silenzio passivo. Si rifiutò di intervenire sulle questioni trockismo e bucharinismo, assistette senza parlare alle discussioni sui vari deviazionismi. Quando si dovette presentare al cospetto della Ciska, alla domanda se era d’accordo con la linea del partito rispose “Si” senza altro aggiungere.

Ne seguì un concitato diverbio fra Tina e Vidali, quest’ultimo arrabbiato perché un suo connazionale lo voleva morto, ma Tina riuscì a calmarlo: “per rovinare te ci vuole ben altro che la parola di un Luigi Longo… Alla fine ne sei uscito rafforzato…

 

Luigi Longo

 

L’agente operativo Vittorio Vidali era troppo utile all’apparato per rischiare di perderne i servigi in seguito a vaghe accuse di “inclinazioni terroriste”. Il suo lavoro a Mosca consisteva soprattutto nel controllare il Club degli emigrati italiani, un circolo in cui, da qualche tempo, si levavano voci critiche sulle scelte di politica internazionale imposte da Stalin. Furono duecentoventisei i comunisti italiani che presero la via senza ritorno per la Siberia. Nove fucilati nelle prigioni segrete. Quattro i suicidi e due deceduti in manicomio.

In un’antica palazzina nel Leontiweskj Pereulok, che era stata di un proprietario terriero fino alla Rivoluzione d’Ottobre, c’era un salone per le riunioni, un altro per le assemblee. Presidente del Club era Paolo Robotti, cognato di Togliatti, soprannominato il robot stalinista. Suoi collaboratori furono Giovanni Germanetto, Clarenzo Menotti e Vittorio Vidali. Anche Tina frequentò quei locali, senza mai esprimersi. La nomina di Robotti venne decisa dalla delegazione italiana del Comintern, presieduta dallo stesso Togliatti che definì le nuove direttive per l’individuazione dei deviazionisti, creando un clima di diffidenza e sospetto reciproco. I comunisti che ci si ritrovarono erano tutti scampati dai tribunali fascisti, arrivati a Mosca con l’illusione di poter contribuire alla creazione di un Mondo Nuovo, spesso ingenui nella visione di un sistema sociale che avevano sognato e in contrasto con ciò che avevano davanti. I loro discorsi venivano attentamente ascoltati da funzionari che si fingevano comprensivi o indifferenti, ma sempre pronti a riferire ogni accenno di critica. Emilio Guarnaschelli fu tra i comunisti che passarono dall’iniziale ardore per la società sovietica, alle delusioni per le ingiustizie e l’aberrante clima di oppressione, del quale cadde vittima per la delazione di un falso amico.

Paolo Robotti, con i suoi fidati collaboratori, tenne un taccuino da cui scaturirono le accuse nelle sedute di autocritica, dove ciascuno doveva recitare il proprio mea culpa ricordando anche il più insignificante errore.

 

Paolo Robotti

 

Silenziosa, malinconica e chiusa, Tina continuava pazientemente il lavoro di traduzione e di archivio. Probabilmente fu per fuggire da quel clima soffocante, che si propose per rischiose missioni all’estero. Fra il 1932 e il 1933 viaggiò in Polonia, Ungheria, Romania svolgendo incarichi per Soccorso Rosso. Qualche breve passaggio in Spagna, che si concluse con il suo fermo da parte della polizia. Il suo passaporto falso guatemalteco, non resse a un minuzioso controllo, per cui venne espulsa come sospetta spia sovietica. L’incarico successivo fu a Vienna, dove venne coinvolta nell’insurrezione contro il dittatore Dollfus. Nell’agosto 1933 Tina e Vidali furono convocati alla IV sezione dell’Armata Rossa, sede dei servizi segreti, per una missione in Cina, dove serviva la padronanza delle lingue e la conoscenza fotografica di Tina. Accettarono entrambi, ma a pochi giorni la missione venne cancellata. L’annullamento rimase oscuro, ma resta il fatto che in quell’estate Tina Modotti avrebbe accettato di entrare negli organici dei servizi segreti militari sovietici.

Nel 1934 si trasferì a Parigi dove venne raggiunta da Vidali. Per evitare l’inconveniente spagnolo, vissero separati e in clandestinità, attenti ai controlli della polizia. Tina viaggiava con un passaporto costaricense e non doveva in alcun modo farsi individuare come inviata di Mosca per organizzare il centro estero di Soccorso Rosso. In realtà era Vidali che doveva fare più attenzione. Varcare frontiere e passare attraverso le maglie dei servizi segreti di decine di Paesi era la sua specialità. E nei notevoli dossier che si erano accumulati sul suo conto, non ce n’erano due che portavano lo stesso nome, tanto da rendere impossibile stabilire qual’era vero. Ma a Parigi fu diverso: mentre si dirigeva a un appuntamento con Tina, nell’appartamento adibito a magazzino di Soccorso Rosso, si accorse di essere pedinato. Ne dedusse che erano molti e si scambiavano durante l’inseguimento. Certamente professionisti. Non riuscì a seminarli, così venne catturato dal Deuxième Bureau dei servizi segreti francesi, che conoscevano tutto su di lui, sulla base di un dossier italiano che comprendeva molti dei suoi tanti nomi. E gentilmente, in un dialogo educato fra “colleghi” di due diverse nazioni, come gli disse l’agente francese, venne rilasciato a condizione di lasciare immediatamente ia Francia, augurandogli di non rivederlo mai più.

Tina che lo stava aspettando, visto il ritardo si convinse che era successo qualcosa. Inoltre in strada c’era una macchina che non faceva nulla per dissimulare il fatto che stavano controllando la casa. Prese una decisione, mise legna sul fuoco della stufa e cominciò a svuotare tutti i cassetti, cominciando a bruciare tutto, resoconti, migliaia di nomi, analisi, previsioni e schedature dei nemici… La stanza si riempì di fumo e con gli occhi arrossati e il continuo tossire, sentì un rumore alle spalle. Prese un attizzatoio e voltandosi perse l’orientamento cadendo e annaspando fra il fumo. Poi vide il volto amico di un vecchio compagno tedesco, che la trascinò fuori dalla stanza e continuò a bruciare documenti. Anche lui era corso lì per bruciare l’archivio. Dopo un po’ arrivò anche Vidali che la criticò per essere stata avventata e di non mantenere il controllo. Ci fu una sfuriata fra i due, poi Vidali, fra lo stupore di Tina, le disse che sarebbe partito immediatamente, in Belgio, perché correva il rischio di essere arrestato.

 

Tina Modotti allo Soyuznaya Hotel di Mosca, Foto di Angelo Masutti

 

L’assassinio di Sergei Mironovich Kostrikov, detto Kirov, segnò l’apice del delirio epurativo. Nel 1934 si tenne il XVII Congresso del partito, ricordato come Congresso dei vincitori. Vennero esaltati i successi del primo piano quinquennale e delle collettivazioni forzate. Malgrado l’apparente unanimità di consensi, alti dirigenti del partito dissentirono, proponendo di esonerare Stalin dalla segreteria. Fra loro c’erano Kirov, Petrovskji e Postjscev. Il tentativo fallì e Stalin si chiuse ancor più nelle sue maniacali convinzioni di essere circondato da traditori. Il 1934 venne impiegato da Stalin per rafforzare il suo potere, adottando misure per l’eliminazione della maggioranza dei funzionari che lo affiancavano. Fu abbandonato anche dai suoi più alti collaboratori, resisi conto di dover fermare la mostruosità da loro alimentata. A metà anno, iniziò una nuova epurazione, basata sul controllo minuzioso nel passato di ogni iscritto, raccogliendone la documentazione. Incartamenti che scatenarono le purghe più cieche e spietate della storia sovietica.

Con Kirov, Stalin ottenne un doppio risultato: l’eliminazione di un avversario politico e il casus belli per inasprire la repressione. Il 1° dicembre 1934 il giovane comunista Leonid Nikolaev varcò l’ingresso del palazzo Smolny a Leningrado, e senza che alcuna guardia del servizio di sicurezza gli sbarrasse il passo, raggiunse l’ufficio di Kirov scaricandogli adosso la sua Nagant d’ordinanza.

 

Sergei Kirov, 1934

 

Luigi Calligaris era un comunista triestino che iniziò la lotta a fianco di Vidali. Subì il confinio, prima a Favignana, poi a Ustica, infine a Ponza. Riuscì ad espatriare in Francia e da lì in Unione Sovietica. Qui sollecitò più volte il permesso di rientrare in Italia per combattere il fascismo, ma ne ebbe solo rifiuti. Si confidò con Vidali esponendogli le sue opinioni negative su Stalin. E fu il compaesano e compagno di un tempo a denunciarlo per deviazionismo. Dopo l’assassinio di Kirov, anche Luigi Calligaris venne arrestato e inviato nella regione di Arcangelsk. Di lui non si ebbero più notizie.

 

Tina Modotti in Unione Sovietica, fotografia di Angelo Masutti, Mosca, 13 giugno 1932

 

A Mosca Tina si reimerse nel lavoro di sempre. Aveva pochi contatti con gli ambienti artistici, ma conobbe bene Sergej Eisenstain, impegnato nel montaggio di “Que viva México“. Fu a lui che si rivolse Jay Leyda, storiografo del cinema statunitense, per rintracciare Tina mentre era a Mosca. Le consegnò un pacchetto di foto conservate per lei da Alma Reed, assieme al libro sugli affreschi di Orozco. Anche Lotte Jakobi andò a trovarla a Mosca, chiedendole come non potesse più sentire il bisogno della fotografia. Tina frequentava saltuariamente anche Maksim Gor’kij, sempre meno entusiasta. La tetra cappa di grigiore che opprimeva i moscoviti, non risparmiava gli intellettuali, anzi, scrittori e poeti rischiavano più di tutti la deportazione. L’apparato esigeva immagini esaltanti, qualsisasi dubbio veniva considerato “disfattismo”. Ne seguì un lungo elenco di suicidi fra scrittori, poeti, pittori e artisti. Ma chi si piegava alle direttive aveva il successo economico assicurato. Afinogenov con il suo “Gli Aristocratici ” diventò ricco in breve tempo. Nel frattempo, giovani poeti come Pavel Vasil’ev finirono nei sotterranei della Gpu.

 

Fonti:

Vanna Antonioni: Tina Modotti – Dialoghi di una vita
Pino Cacucci: Tina
Elena Poniatowska: Tinissima