Yemen

Questo non è un racconto di avventura come il precedente, ma l’esperienza (riassunta in alcuni aneddoti) di un periodo di vita in un Paese bello e molto difficile che, in quanto tale, m’è rimasto nel cuore. Soprattutto ora con tutti i drammi e le atrocità che sta vivendo. Ma anche il ricordo di un giovane yemenita a cui dedico questa storia, assieme all’esperienza di molti nostri connazionali che lavorano in condizioni estreme.

  • In Yemen non ci rimasi molto, ma fu un periodo molto intenso. La particolarità più evidente degli yemeniti era che quasi tutti avevano il Kalashnikov in spalla, la Janbiya allacciata e masticavano il qāt tutto il giorno. La Janbiya è un pugnale che mostrato sulla pancia, e secondo la sua fattura, definisce il livello sociale a cui appartiene la persona. Più che un’arma, uno status simbol che viene indossato dopo i 14 anni come simbolo di virilità. I più ricchi sfoggiavano una lama ben forgiata con il manico tempestato da pietre preziose e giù, giù fino ai poveracci che avevano la lama di latta. Come da noi partire da una Ferrari a una Panda usata. (Ne ho una a casa, passata incredibilmente alla dogana) Anche il Kalashnikov era uno status simbol, tanto che chi non poteva acquistarlo possedeva un vecchio fucile recuperato non si sa dove e pagato quattro soldi.
    Giovane yemenita con la Janbiya
    Giovane yemenita con la Janbiya

 

  • Il qāt è un’erba stimolante, gli yemeniti ne masticano le foglie facendo una palla che conservano in bocca nella guancia. L’OMS l’ha classificata fra le droghe proibite, anche se il suo potere eccitante supera di poco quello del caffé. Naturalmente l’ho provato e faceva schifo, come masticare le foglie della siepe del mio giardino.
  • Lavoravamo nel deserto, ai bordi del Rub’ al-Khali (il Rub’ al-Khali è la seconda estensione di sabbia al mondo, che in arabo significa: “il quarto vuoto” ed è ampio due volte lo Stato italiano) in tre campi di estrazione gas naturale per una società americana, a pochi km di distanza dal (teorico, in pieno deserto) confine Saudita. Il primo campo lo gestiva un collega, il secondo io, poi ce n’era un terzo, più piccolo e avanzato nel deserto, a decine di km di sola sabbia, dove andavo tre o quattro volte la settimana.
  • La struttura principale consisteva in un enorme accampamento recintato, dove per uscire dovevamo obbligatoriamente essere accompagnati da una guardia armata (causa disordini e rapimenti) preferibilmente sempre la stessa. Fui scelto da un ragazzino di nome Said (non era neppure maggiorenne) talmente povero che condivideva il suo vecchio fucile con il fratello maggiore e non potendo uscire senza essere armati, si davano i turni con l’unica arma che possedevano. Con quel lavoro, mi disse che il suo sogno era di comperare il Kalashnikov (che a me avevano proposto al modico prezzo di 250$, anche se il problema era portarselo a casa…).
  • ll ragazzo lo ricordo ancora come si può ricordare un “bravo ragazzo”, sempre rapportato ai luoghi (che dopo un po’ diventano “normalità”) e mi ci affezionai instaurando un rapporto di fiducia reciproco. In quel campo attraversammo diversi problemi, uno dei quali fu quando fummo sequestrati perché i lavoratori yemeniti volevano dalla dirigenza americana una moschea dove pregare, e impedirono a chiunque di uscire e lavorare. Ma il campo avanzato dipendeva dal nostro non solo tecnicamente, ma soprattutto come viveri e acqua.
Anziano yemenita con Kalashnikov e Janbiya
Anziano yemenita con Kalashnikov e Janbiya
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  • Se si parla di fiducia, ciò avviene quando i contatti umani sono alla pari. E per me lo yemenita non era un servo (come lo consideravano in parte gli americani, ma anche molti anglofoni e qualche italiano) solo un lavoratore locale. Penso lo sapessero e lo sentissero, avendone avuto prova quando mi fecero uscire dopo diverse trattative, da solo, sempre accompagnato dal giovane Said (che contribuì ai negoziati) con la macchina piena di viveri. Le uscite erano tutte sorvegliate da persone armate. Non è facile trattare con qualche kalashnikov puntato contro, ma il negoziato si concluse che sarei potuto uscire liberamente tutti i giorni per portare i viveri all’altro campo. Tralasciando altri episodi e dettagli, dopo una settimana la crisi fu risolta dall’amministrazione americana (e ci voleva ben poco dargli un prefabbricato per pregare a casa loro, ma tant’é).
  • Con Said andavamo a Sana’a ogni settimana percorrendo i 400 km, attraversando le zone dove all’epoca le varie tribù rapivano i turisti. Mentre le attraversavamo si metteva all’erta e imbracciava il suo inutile obsoleto fucile, tanto che mi sembrava abbastanza surreale affidarmi ad un ragazzo minorenne armato di uno schioppo. (All’epoca dei turisti sequestrati non ricordo ci siano state vittime e, anzi, in diverse occasioni vennero trattati come ospiti. Non ce l’avevano con gli occidentali, le tribù locali li usavano per le loro rivendicazioni nei confronti del governo centrale che erano semplici: strade asfaltate, illuminazione pubblica e maggior servizi in generale). Il rischio maggiore era solo quello di trovarsi fra tribù avverse che si sparavano a vicenda.
  • E ricordo che ai bordi della strada fra Sana’a e Marib, c’era una quantità inimmaginabile di bottiglie di plastica (impressionante). Coprivano almeno un paio di metri di banchina sui due lati della strada, perché tutti coloro che passavano gettavano la bottiglia vuota dal finestrino. Per questo, pensando a ciò (che credo sia normale nella gran parte del mondo) penso ai nostri futili tentativi ecologici, che anche in Italia incontrano serie difficoltà.
Tutti gli yemeniti masticano il qāt
Tutti gli yemeniti masticano il qāt
  • Un giorno a Sana’a incontrammo tre yemeniti conosciuti che ci chiesero un passaggio verso il campo, ai quali lo offrii molto volentieri, sentendomi più sicuro dai loro Kalashnikov, che dalla carabina del mio giovane aiutante. Fu in quella occasione che constatai quanto gli yemeniti fossero sanguigni: incrociammo una macchina sulla pista ghiaiosa che proiettò un sasso sul nostro cristallo. Uno di loro aprì il finestrino posteriore e gli scaricò contro una raffica di pallottole (fortunatamente mancandola). Istintivamente frenai, mi voltai e gli feci una ramanzina. (Capì subito di aver fatto una cazzata, altrimenti sarei morto).
  • Entro la recinzione del campo, il lavoro si svolgeva più o meno regolarmente. Dovevamo realizzare un grosso villaggio prefabbricato per ogni sito con elementi provenienti dagli USA (e spesso non combaciavano, spesso mancavano pezzi…) Con un po’ di invidia nei confronti della dirigenza americana che tornava a casa mensilmente, usufruendo di un elicottero che li portava direttamente all’aeroporto di Sana’a. Gli americani non erano molti, solo i boss, perché come subalterni-dipendenti “usavano” prevalentemente personale anglofono. Il mio cantiere veniva controllato da un simpatico inglese (che, per curiosità, scoprii avere uno stipendio più basso del mio) e da due ingegneri iracheni (ed era il periodo della guerra con l’Iraq). Mentre nel cantiere del mio collega il controllo fu affidato a un inglese bastardo. Poi c’erano anche diversi australiani, sudafricani, canadesi, oltre a tanti altri inglesi.
Sana'a
Sana’a prima dei bombardamenti. Pier Paolo Pasolini nel 1974 ci ambientò il suo “Il fiore delle Mille e una notte”. Città meravigliosa.
  • Un giorno arrivò una forte tempesta di sabbia che cancellò il percorso per raggiungere il campo avanzato. Ci arrivammo con non poche difficoltà, ma il ritorno fu drammatico quando perdemmo la strada, essendosi estinta la pista a causa del vento e trovandoci circondati da dune senza sapere dove andare. Solo tracce di pneumatici che portavano in diverse direzioni. (E pensare che la mia giovane guida, oltre che difendermi dai pericoli, mi avrebbe dovuto accompagnare anche per questo). Loro che ci abitano, non si perdono mai, era il mio pensiero. Purtroppo ci eravamo persi in una immensa distesa di sabbia. Ai suoi margini il Rub’ al-Khali non è così deserto, imboccammo tutte le tracce visibili segnate sulla sabbia dopo la tempesta e finimmo prima in un piccolo campo canadese (dove ci dettero un po’ di benzina) poi in un cantiere pieno di buldozer (probabilmente stavano costruendo un oleodotto o un gasdotto). Ma nessuno aveva informazioni utili per tornare a casa. E qui vidi la mia giovane guida in panico, temendo avessimo già sconfinato in Arabia Saudita (e forse era vero) mentre io ero molto più preoccupato per il livello della benzina che calava, perché un fuoristrada 4200 cc benzina, sotto sforzo nelle piste di sabbia, ne mangiava molto di carburante.
  • Nel deserto la naturale soluzione è cercare la direzione in funzione del sole, ma le piste lasciate dai solchi degli pneumatici erano intrecciate e contorte, spesso si dividevano in due o più direzioni, oltre al fatto che viaggiando alle pendici delle dune, potevano portare in direzione opposta. Si faceva tardi e anche a me stava salendo l’ansia, quando mi venne l’idea di fermare tutto e scalare la duna più alta visibile per cercare di individuare i fumi prodotti nel nostro impianto di estrazione. E non è facile scalare una duna di sabbia, per niente, soprattutto a 50°. Non è come nei film. Sono alte dai 200 ai 300 metri, che nella sabbia rovente equivalgono al doppio di un terreno roccioso. Naturalmente da lassù si spaziava molte decine di km, individuando subito la meta. Facendo un parallelismo con il calare del sole, ne seguimmo la direzione e, scalando altre dune strada facendo, rientrammo sani e salvi al tramonto. Certo è che dopo quell’avventura, la fiducia reciproca con quel ragazzo si fece più forte. Chissà se e riuscito a comperare il suo AK-47? Spero non sia diventato un integralista, soprattutto perché dalle cronache non ho letto riguardo a fondamentalisti yemeniti, forse perché troppo occupati a difendere il loro Paese dall’attacco saudita.
Estensione del Rub’ al Khali
Estensione del Rub’ al Khali
  • La sabbia, il caldo, può anche mandare fuori di testa, come uno dei nostri italiani più fragili che bestemmiando Allah contro gli operai locali, fu rinchiuso dalla polizia in una buca scavata nella sabbia, non esistendo prigioni. (riuscimmo a farlo imbarcare in Italia per miracolo) Poi ci fu lo slavo (uno tipo Dolph Lundgren in Rocky 4) che iniziò una rissa con diversi “piccoli” yemeniti (una scena da film) fu arrestato e rilasciato, il che mi fece pensare quanto una rissa fosse considerato un reato minore che l’offesa ad Allah.
  • La sera facevamo attenzione ai ragni gialli e pelosi, grossi come una mano, agli scorpioni del deserto, anch’essi grossi e gialli, che uscivano dalla sabbia la notte (avevamo i prefabbricati rialzati dal suolo). A giugno il massimo della temperatura raggiunse i 56° all’ombra, e gli operai si bevevano otto litri di acqua al giorno. In quel periodo il breve tratto fra l’alloggio e la mensa, a mezzogiorno, lo facevamo di corsa, tanto picchiava il sole. Pur nonostante, molti nostri connazionali in quei posti ci lavorano, portano a casa uno stipendio contribuendo alla ricchezza del Paese e in Italia ci costruiscono la casetta.
  • Nonostante le sue serie difficoltà, conservo un ricordo particolare di quel posto, anche nel lavoro: oltre gli yemeniti, molto più affabili dei sauditi, lo splendido gruppo di italiani che hanno appreso velocemente ciò che è un inch, un foot e una yard, perché se ragionavano in cm sbagliavamo tutto (lavoravamo su progetti americani, con materiale americano, ed è anche successo che un idraulico abbia montato diverse tubature alla rovescia, pensando che “cold” significasse “caldo”…) Ma alla fine il lavoro fu completato.
Mar'ib - Palazzo della regina di Saba
Mar’ib – Palazzo della regina di Saba

 

  • Poi non da meno, rimane il ricordo di aver visitato i resti del palazzo della regina di Saba (Bilqis) della grande diga, il tempio della luna e il tempio del sole, risalenti all’epoca leggendaria di re Salomone, della cui storia ho già scritto in altro sito: Arabia Felix  (leggerla costa solo cinque minuti di vita, come complemento di questo racconto) dato che a causa dei bombardamenti, da ciò che ho letto, hanno subito danni irreparabili e probabilmente non esistono più.