Friuli 3 – Aquileia romana

Una delle caratteristiche dei Romani è stata quella di saper osservare il mondo con realismo e senza preconcetti. Le grandi conquiste militari non sono solo uscite dalla capacità di Mario o di Cesare, ma soprattutto dallo studio delle sconfitte. Pur considerando i popoli della Spagna “barbari”, non ha impedito a Scipione di adottare la loro spada che aveva il vantaggio di colpire di punta e di taglio, né trattenere i contadini dall’usare l’aratro a ruota dei Celti. E lo stesso spirito venne applicato anche per scegliere la collocazione di nuove colonie, inizialmente campi permanenti dell’esercito, che sottostavano ad un’attenta valutazione del territorio. I successi militari dei Romani crebbero perché, oltre saper combattere, avevano coesione e disciplina, che mancavano nei Celti, pur essendo bravi guerrieri. Inoltre come gambe costruirono strade con tutti i servizi annessi, ciò che oggi chiamiamo “logistica” e appare poco nei romanzi e nei film perché non “eroico”.

Giunti in Friuli, cercarono di stabilire una base che andasse oltre l’avamposto, per far crescere una società autonoma in grado di badare a sé stessa. E l’occhio strategico cadde presso l’antica foce del fiume Natisone (Natissa), nel luogo dove ancor oggi sorge Aquileia.

Così nel 183 a.C. il Senato Romano decretò che i triumviri P. Scipione Nasica, C. Flaminio e L. Manlio Acidino cominciassero i lavori per la costruzione della città di Aquileia (la lapide dedicata a Lucio Manlio Acidino è tutt’oggi conservata nel Museo Archeologico Nazionale di Aquileia) ma i lavori iniziarono solo due anni dopo, forse per la difficoltà nel reperire romani a trasferirsi in luoghi così lontani e pericolosi. I triumviri arrivarono sul posto con tremila famiglie, da cui si ipotizza 15.000 persone, esclusi gli schiavi. Ma quando dai monti si riaffacciarono i Celti, il Senato ritenne opportuno inviare altre 1.500 famiglie sotto la guida dei triumviri A. Annio Lusco, P. Decio Sabulo e M. Cornelio Cetego.

 

Lapide dedicata a Lucio Manlio Acidino (Museo Archeologico Nazionale di Aquileia)

 

In seguito a varie campagne, i Romani prima attaccarono i Carni e i Gepidi, successivamente Carni, Taurisci, Giapidi e Liburni respingendoli fino al Kerca, un fiume vicino a Sebenico in Dalmazia. Ma per la storia locale, più significativa fu la vittoria “de Galleis Karneis” conseguita tra il 15 novembre e l’8 novembre del 115 a.C. quando venne stroncato l’ultimo tentativo di rivolta e fu sancita la definitiva sottomissione dei Carni, scongiurando altre invasioni, favorendo così l’ampio sviluppo di Aquileia.

A quei tempi il sistema lagunare era strettamente unificato da Grado a Ravenna, tanto che Plinio parlò di un mare interno e il sistema di trasporto per nave era di gran lunga più redditizio di quello via terra, anche se nella terraferma i Romani costruirono una rete stradale razionale ed efficente. Ma le merci che potevano usufruire del sistema lagunare, erano sicure dalle mareggiate e dai pirati Illirici. La flotta militare si installò a Grado mentre ad Aquileia si sviluppò il sistema portuale. La portata delle navi romane andava dalle 90 alle 450 tonnellate, per cui il volume delle merci, una volta consolidata la città con la sua sfera di influenza dal Norico al Danubio, doveva essere molto alto.

 

Resti del Foro (Aquileia)

 

Con la difficoltà nel far lavorare produttivamente la terra agli schiavi e la necessità di trovare nuovi metodi di sfruttamento del suolo, l’unica soluzione possibile fu l’assegnazione di terre ai coloni. Così nel tempo si modificarono le condizioni ecologiche dei luoghi, il campo militare divenne città e la boscaglia fitta e compatta che si estendeva fino ai monti, diventò terreno da aratura. Contemporaneamente cominciarono a svilupparsi nuove trasformazioni nei coloni, con nuove concezioni, nuove relazioni, nuovi bisogni che dettero origine a un nuovo linguaggio, il quale col tempo si differenziò sempre più dalla patria latina. E’ certo che la classe dominante continuò a usare il latino, ma la forte presenza gallo-carnica determinò l’affermarsi di una parlata con presenze celtiche, assieme a quelle di altre tribù e minoranze. Nacque il fenomeno del “bilinguismo”, una lingua per parlare fra pastori, contadini, schiavi, artigiani e un’altra per parlare con i “signori”.

Lo spirito rigoroso della struttura mentale dei Romani, li portò a dividere gli spazi in maniera strettamente geometrica. Gli appezzamenti erano di forma quadrata o rettangolare, delimitati da grandi strade, strade poderali e un solido sistema di bonifica. Ai primi coloni la terra venne distribuita in maniera rigorosamente classista. I Romani avevano come misura lo jugero-jugerum, un rettangolo di m 35,5×71 che corrispondeva al terreno arato in un giorno da una coppia di buoi. I militi ebbero 40 jugeri (circa 10 ettari) i centurioni 100 jugeri, la piccola nobiltà 140 jugeri e si presume che i successivi coloni ebbero le stesse misure. Ben presto la colonizzazione occupò l’area che andava dal Tagliamento fino al Torre e l’Isonzo e a nord fino a Godia, ora periferia di Udine. Come da consuetudine le famiglie diedero un nome ai fondi (predium-predia) che col tempo definì il paese o la zona (vicum) giungendo con qualche alterazione fino a noi. Prendendone alcuni a caso: Julianum-Zugliano, Servilianum-Cervignano, Laberianum-Lavariano, Marianum-Marano ecc.

I terreni poco produttivi o i pascoli (il diritto di pascolo sarà uno dei grossi problemi friulani nei secoli) non venivano assegnati, ma trasformati in proprietà comune dei coloni prima, dei villaggi poi, per i quali ogni famiglia pagava una quota al “Tabulano”, l’esattore.

 

Strade Romane in Friuli, con epicentro Aquileia.

 

La civiltà romana avanzò sempre su un robusto sistema stradale (dette consolari perché si attribuiva il nome al console che le aveva ordinate) e la regione, per l’importanza strategica, non fu da meno, venendo coperta da una efficente rete di strade con Aquileia come epicentro. La principale era la via Annia, che scorrendo lungo il sistema lagunare, dalla via Flaminia attraverso Ariminum (Rimini) raggiungeva Iulia Concordia, centro di fabbricazione di frecce, detta appunto “Sagittaria”, passando il Tagliamento ad Apicilia (Latisana) e per Ad Undecimum piegava verso Aquileia. La parallela via Postumia del 148 a.C. partiva da Patavium (Padova) già collegata con Genova, attraversava Opitergium (Oderzo) raggiungendo Quadruvium (Codroipo) e si saldava alla via Annia. La costruzione di un centro fortificato all’imbocco delle valli del Natisone, Forum Iulii (Cividale) creò una strada che da Aquileia, risalendo il corso del Natisone, apriva alle legioni e ai traffici commerciali l’area della Drava e del Danubio.

 

Nave romana (Museo Archeologico Nazionale di Aquileia)

 

La preoccupazione per i Carni annidiati sulle montagne, portò i Romani ad avanzare lungo il Tagliamento sulla sponda destra partendo da Codroipo (che appunto si chiamava Quadruvium) raggiungendo Ragogna e Osoppo. Ma la direttrice principale contro i Carni fu la Iulia Augusta, che da Aquileia toccava probabilmente il colle di Udine, passava per Tricesimo (ad tricesimum lapidem, alla trentesima pietra miliare-da Aquileia) sfiorava Glemona (Gemona) e si divideva al confluire del fiume Fella nel Tagliamento. Un ramo verso Iulium Carnicum (Zuglio) che attraverso il passo di Monte Croce arrivava nel Norico, mentre a destra l’altro ramo percorreva il canal del Ferro (dai trasporti di ferro delle miniere in Carinzia). Un’ulteriore strada da Aquileia andava a Pola lungo la costa, toccando Tergeste (Trieste) e un’altra costeggiando il fiume Vipacco-Frigidus arrivava a Emona (Lubiana).

Lungo le strade romane ad ogni miglio (1.478 metri) venivano poste ai lati due colonne in pietra con inciso la distanza da un determinato centro, dette “cippi miliari”. Le vie di comunicazione importanti avevano una specie di marciapiedi sopraelevato e ogni tanto c’erano dei massi in pietra per poter salire a cavallo, dato che non si conosceva ancora la staffa, che fu uno dei motivi per cui l’esercito romano ha sempre dato più importanza alla fanteria.

 

Ricostruzione virtuale del centro metropolitano di Aquileia antica.

 

Inizialmente i coloni avevano disboscato le terre con grandi energie, basandosi sul proprio lavoro, quello dei familiari e l’aiuto relativo di pochi schiavi. Ma le guerre di conquista incrementarono il numero degli schiavi, tanto che il loro valore crollò. Dal costo medio di 300-500 denari scese a 4 denari. Il denaro in argento valeva 4 scripula, una misura di peso equivalente a gr 1,13 d’argento. (Basta calcolare il costo al grammo dell’argento oggi, per rendersi conto del basso prezzo della vita umana). Ciò diede la possibilità di impiegare un gran numero di schiavi nei campi, ponendo le basi per lo sviluppo della grande proprietà terriera ai danni della piccola, com’era strutturata nella maggioranza dei coloni. La possibilità di poter disporre di gran quantità di denaro, permise ai proprietari ricchi, d’impadronirsi delle piccole e piccolissime, mentre il grano veniva importato a basso prezzo. Ma sempre a causa delle guerre di conquista, i grossi proprietari terrieri dell’Italia settentrionale, pur avendo raramente raggiunto la dimensione del latifondo, furono costretti a passare alla colonia mezzadrile. Poeti, scrittori e storici hanno scritto spesso riguardo al lavoro dei coloni accanto agli schiavi. Strabone cita Aquileia, fra i grandi mercati di schiavi.

E mentre la campagna lottava con le sue contraddizioni, lo sviluppo mercantile della città incrementava. La poderosa cerchia di mura di Aquileia del 53 a.C. che aveva fermato i Giapidi, secondo una stima cauta, conteneva circa centomila abitanti e forse più. L’avanzata romana aveva creato i presupposti, con strade e vie fluviali, per una intensa attività economica, specialmente verso il Danubio attraverso i collegamenti fra Aquileia, la Sava, la Drava e le flotte romane sul Reno e il Danubio. La grande quantità di anfore ritrovate denota il carattere emporiale della città. Anche la botte, invenzione celtica, fu ampiamente usata. Ma solo sotto l’impero di Augusto la funzione agricola di Aquileia fu soverchiata dall’attività commerciale e questa tendenza, con l’espansione verso est e la pace (Pax Augusta) si estese sempre più.

 

 

Ma la città romana non è solo quella delle splendide ville dei patrizi, degli acquedotti e delle terme. Secondo uno studioso di urbanistica, Lewis Mumford, nello schema delle città coloniali, i Romani non si allontanarono molto dal modello greco che si curava poco dell’igiene: le fogne non erano collegate ai gabinetti e i rifiuti venivano posti in cisterne coperte in fondo alla tromba delle scale. Periodicamente venivano raccolti e usati per concimare i campi, mentre l’urina serviva ai follatori, gli operai incaricati di battere la stoffa. Nei quartieri poveri, fogne e canali erano scoperti e l’acqua arrivava solo al pianterreno. Le terme servivano esclusivamente determinati ceti sociali e i bagni privati c’erano solo nelle case dei ricchi. La vicinanza del mare e del fiume privilegiarono Aquileia, resta il fatto che la “tipica” casa romana pubblicata sui libri, era quella delle persone abbienti. I poveri abitavano in case di legno, malsane e senza riscaldamento, mentre quelle dei ricchi erano riscaldate da flussi di aria calda, arieggiate e molto probabilmente furono le case più comode costruite, fino alla nostra epoca. Gli affitti erano cari e molti si arricchirono con le case “popolari”.

Una gran fonte di ricchezza era data da tutta una serie di appalti statali. Lo storico Plibio narra che i lavori in tutta Italia (miniere, fiumi, canalizzazioni, porti, opere pubbliche…) erano assegnati in appalto ai “censori”, i quali li concedevano in subappalto. Di pari passo a questo sistema, ad Aquileia l’usura (il cui livello “legale” era 48-50%) prosperava. Ma nonostante ciò, il commercio, pur notevole e in aumento, non riusciva a favorire l’Italia, rispetto ad altre aree del Mediterraneo, provocando, soprattutto verso la fine dell’Impero, diversi fenomeni di crisi economica.

 

Con le pietre provenienti da questa cava, si sono costruiti i maggiori monumenti di Aquileia e Tergeste romane, nonché di Roma e di altre città dell’impero. (Aurisina, Trieste)

 

Varrone nel suo libro: “Dell’agricoltura” scrisse che gli strumenti con cui si lavorava la terra si dividevano in tre categorie: strumenti parlanti, strumenti semiparlanti e strumenti muti (gli “strumenti parlanti” naturalmente erano gli schiavi). Ma nonostante gli aspetti negativi, lo sfruttamento cui erano costretti schiavi, popoli soggetti e poveri, la vita artistica, ma sopratutto quella religiosa di Aquileia (chiamata sublimis, clara, felix) ebbe la sua singolarità. Fin da subito la religione dei dominatori trovò la resistenza dei culti celtici locali, tanto che Beleno poté essere riconosciuto il nume tutelare della città, romanizzato in Belenus.

Inoltre non è difficile immaginare la folla di ogni grado e censo che animava la grande metropoli. Marinai, commercianti, artigiani, popolani, ladri, nobili, soldati, contadini, oziosi, percorrevano le vie della città, parlando in varie lingue o comunicando a gesti. Comperavano, vendevano, lavoravano, scaricavano, bevevano, mangiavano e discorrevano in tutte le lingue. Il teatro dell’attività umana si animava dal mattino alla sera tra gli affari e gli imbrogli, fra mille odori e mille rumori che arrivavano dalle botteghe artigiane, piccole manifatture, osterie, focolari. Navi di tutti i tipi sostavano nei moli, da quelle adibite al trasporto dei cavalli, con le fiancate che si aprivano, a quelle più grezze e pesanti che trasportavano la pietra dalle cave di Aurisina, sopra Trieste. L’idea della grandezza dei commerci portuali lo si può calcolare dal fatto che il materiale di rifiuto delle cave, che venne abbandonato dopo la caduta di Aquileia (452), quando si tentò di riaprirle nel 1853, era di 1 milione 200mila metri cubi.

Nel frattempo il denaro scorreva, ai poveracci toccavano solo i rigagnoli, mentre agli schiavi bastava mangiare a sufficienza.

 

Fonti:

Gian Carlo Menis: Storia del Friuli
Gianfranco Ellero: Storia dei friulani
Tito Maniacco: Storia del Friuli
Tito Maniacco: I senzastoria