1967: un anno memorabile per la musica

La musica arriva prima.

Nella seconda metà degli anni 60, Londra si trasforma da grigia città industriale a capitale di tendenza artistica e musicale, con frotte di giovani, figli del baby boom, che arrivano in città, con spirito di emancipazione e mischiandosi con la controcultura del periodo, fatta di diritti civili, sessualità e droghe (LSD in primis). Insomma un periodo che ha portato ad una impennata di creatività che ha visto come destinazione preferenziale la musica. L’anno chiave è il 1967, dove si innesca la colonna sonora che avrebbe portato all’anno successivo, quel 1968 fatto da sommovimenti (rivoluzioni, direbbe qualcuno) e cambiamenti nel pensiero politico, nell’ordine sociale, nel modo di vedere il mondo. Si cominciano quindi a sperimentare cose, musicalmente ma non solo, che prima nessuno aveva provato a fare. A contorno, la Swinging London e Carnaby Street, l’epicentro del virus.

Ma partiamo da chi ha contribuito al cambiamento: chi, se non i Beatles? Il quartetto di Liverpool già con Revolver del 1966 aveva già mostrato i prodromi di un nuovo percorso artistico. Poi nel 1967 esce Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band, uno dei manifesti della musica psichedelica, che è senz’altro la portante musicale dell’anno. Uno dei pezzi simbolo è A Day In The Life, un brano intenso e onirico, che tra le curiosità sfodera un ban della BBC (a causa di presunti riferimenti alla droga), l’accordo finale per piano, in Mi maggiore, più sostenuto mai sentito in musica e, a fine brano, prima un suono a 15KHz per “disturbare i cani” e subito dopo una chicca presente (e possibile) solo su vinile (e solo in edizione UK): un suono di gente che parla (mai stato chiaro cosa dicano) inciso dove normalmente finisce la testina a fine disco (e quindi dovete avere un giradischi non automatico).

I Beatles a dire il vero avevano già “colpito” quell’anno, con uno dei loro singoli più famosi, Strawberry Fields Forever, che colse di sorpresa i fan per la composizione alquanto differente dai canoni precedenti. Inoltre era un pezzo la cui registrazione fu alquanto complessa (la versione finale è un mix di take differenti in chiavi diverse). Paul McCartney utilizzò il Mellotron, un sampler ante litteram, per la notissima introduzione.

Sgt. Pepper fu registrato presso gli EMI Studios ad Abbey Road, a Londra, tra fine 1966 e prima metà del 1967. Nello stesso periodo, negli stessi studios (si sono incrociati) un altro gruppo incise il proprio album d’esordio, anch’esso carico di atmosfere psichedeliche e guidato da un certo Syd Barrett. Ovviamente parlo dei Pink Floyd, quelli appunto degli esordi, ancora lontani musicalmente dai successi degli anni ’70 con David Gilmour, ma con un sound appropriato al periodo che viene catturato nell’album The Piper at the Gates of Dawn, del quale sentiamo Astronomy Domine.

Come per i Beatles, nello stesso anno i Pink Floyd realizzarono un altro pezzo famoso, che però come per Strawberry Fields Forever, non finì nell’album dell’anno (sì, la discografia di allora era molto molto diversa da quella odierna). See Emily Play fu ripresentato anche in concerti tardivi dei Pink Floyd, già orfani di Roger Waters, e rimane uno dei lasciti migliori del periodo di Syd Barrett, che purtroppo non durò a lungo.

Se c’è un album che definisce, perfino nella copertina, il rock psichedelico questo è senza dubbio Disraeli Gears dei Cream, uno dei gruppi dove il talento non mancava (chitarra = Eric Clapton, basso = Jack Bruce, batteria = Ginger Baker – quest’ultimo scomparso proprio di recente). Ovviamente il brano da scegliere può essere solo Sunshine of your Love.

Ma la psichedelia non fu un fenomeno solo british: vi furono focolai anche dall’altra parte dell’Atlantico. Ad esempio già a febbraio i Jefferson Airplanes rilasciarono il loro album Surrealistic Pillow, che vendette carrettate di copie anche grazie alla sue hit White Rabbit e Somebody to Love, della quale è bello vederne la versione suonata a Woodstock due anni dopo.

Sempre a inizio del ’67 un altro gruppo simbolo della controcultura esordì con il proprio album eponimo. Parlo chiaramente dei Doors, essenzialmente l’incontro tra l’impredicibilità comportamentale e artistica di Jim Morrison e il talento musicale di Ray Manzarek e Robby Krieger. Il brano più famoso è naturalmente Light My Fire, sebbene anche il The End di coppoliana memoria sia un capolavoro. Anche per Light My Fire, vi furono problemi di censura (televisiva in questo caso).

Come cominciate a capire, in quegli anni chi faceva musica che vendeva, corrispondeva anche a chi la musica la sapeva suonare [mica come oggi – NdA]. E se pensate ad un altro nome a cui il talento non mancava, specie se trasmesso tramite una Fender Stratocaster (per destrimani, nonostante fosse mancino), chi vi viene in mente? Beh ovviamente lui.

Purple Haze fu il primo brano dell’album Are You Experienced (in questo caso fu anche pubblicato prima come singolo), dove appaiono però altri brani interessanti come ad esempio Foxey Lady.

Nel 1967 potevi permetterti anche di prendere un (apparente) brano innocuo dell’anno prima come Keep Me Hanging On del gruppo soul femminile delle Supremes (capitanate da Diana Ross) e trasformarlo in un pezzo psichedelico, rallentandone il ritmo e stravolgendone gli arrangiamenti. Gli autori di questo trasformismo sono un gruppo specializzato in queste operazioni, i Vanilla Fudge. Ci hanno perfino fatto un album intero, sebbene il pezzo citato sia di gran lunga il più famoso.

L’onda psichedelica raggiunge anche un altro noto gruppo inglese, gli Who, che si divertono nel realizzare un album (The Who Sell Out) pieno di…finti inserti pubblicitari e annunci radiofonici. Dall’album viene estratto uno dei loro brani più famosi: I Can See For Miles, qui in una versione live di un paio di anni dopo.

https://www.youtube.com/watch?v=8ppU_XBruB4

In tutto questo trionfo di acid rock, come per magia anche altri artisti famosi dal sound più tradizionale, in quel magico 1967 sono riusciti a piazzare delle hit tremende. A partire dalla regina del soul Aretha Franklin, che, rimaneggiando un brano di Otis Redding di due anni prima, tirò fuori la meravigliosa Respect.

Altri autori già affermati ma che nel 1967 tirano fuori la hit definitiva? Ad esempio i Kinks, che, reduci dal successone di You Really Got Me del 1964, tirano fuori dal cilindro Waterloo Sunset, che Ray Davis avrà l’onore di suonare 45 anni dopo in occasione della chiusura dei Giochi Olimpici di Londra. Qui la sentiamo in una versione live del ’73.

La furia di sperimentare non si concentrò solo sul rock psichedelico, ma nel 1967 furono gettate le basi per quello che sarebbe divenuto il progressive rock a inizio degli anni ’70. Ad esempio la band inglese The Moody Blues pubblicò il concept album Days of Future Passed, che pure ha pezzi di rock psichedelico ma in cui il brano più famoso, Night in White Satin, è una fusione tra rock e orchestra.

In Italia, il brano fu vittima del periodo “prendi canzoni anglosassoni e mettici un testo italiano”: in questo caso ad accanirsi furono prima i Profeti e a seguire i Nomadi con la loro versione Ho difeso il mio amore. Meglio non commentare oltre.

E se invece a qualcuno venisse in mente di fare delle cover di Bach (o quantomeno prendere ispirazione)? Un altro gruppo nel 1967 creò il suo brano più famoso proprio in questo modo. Il gruppo è i Procol Harum e la canzone è A Whiter Shade of Pale, che a dire il vero è un pezzo famoso tout court.

E anche qui i Dik Dik e Fausto Leali riuscirono a farci la versione italica (Senza Luce).

Un altro esordio notevole di quell’anno è stato quello di Leonard Cohen, che pubblicò il suo primo album, Songs of Leonard Cohen, mostrando immediatamente il suo talento di autore, che avrebbe fatto peraltro la fortuna di molti altri interpreti negli anni a venire. Il brano più famoso è probabilmente Suzanne.

Siamo quasi al termine di questa carrellata di musica…ma manca ancora qualcosa. Eh si, perché a fare un altro gran bell’esordio, con musica tutto fuorché convenzionale, ma che anzi fu fonte di ispirazione per tutto il genere alternative temporalmente più vicino a noi, furono i Velvet Underground. L’album,The Velvet Underground & Nico, era sperimentale in tutto. Nella musica, nei testi, nella copertina firmata dalla celeberrima banana di Andy Warhol (curiosità: nelle primissime edizioni, oggi valutate un sacco di soldi, la buccia della banana si sollevava scoprendo la “polpa” che però era di color carne). Forse troppo, all’uscita fu un fallimento. Ci volle una decina d’anni prima che la critica musicale lo riscoprisse: oggi è considerato uno degli album più influenti della musica rock. Cosa scegliere quindi, tra pezzi come Heroin, I’m Waiting for the Man, Venus in Furs? Vabbè restiamo cheti e mettiamo su una bella Sunday Morning

E in Italia? Beh dai, se si riescono ad evitare le cover italianizzate, Cuore Matto di Little Tony, Stasera Mi Butto di Rocky Roberts e Parole di Nico e i Gabbiani ci rimane qualche canzone decente, come 29 Settembre dell’Equipe ’84, mentre lo spirito dell’anno fu percepito dai Giganti con Proposta.

…e se siete stanchi di tutte ‘ste sperimentazioni acide potete rituffarvi con un grande classico rock, di un grande gruppo (mica li posso lasciare fuori!), ma l’anno è sempre lo stesso: il magnifico 1967: