La Battaglia di Algeri – seconda parte

In una guerra convenzionale i “crimini di guerra” rientrano in due categorie: quelli commessi a sangue caldo come prigionieri uccisi sul campo di battaglia o equipaggi di aerei linciati da civili dopo un bombardamento. E quelli a sangue freddo come i campi di sterminio. Allo stesso modo nelle guerre non convenzionali, come l’Irlanda del Nord o l’Algeria ci sono state da un lato le brutalità, i maltrattamenti e i pestaggi, dall’altro la prolungata e sistematica applicazione di tormenti fisici e psichici miranti a far “cantare” il sospetto, che costituisce la tortura, opposta alla brutalità. Nonostante il pestaggio fosse prassi comune fra la polizia in Francia, nessun popolo come quello francese aborriva la tortura sia dal punto di vista morale, che filosofico, soprattutto dopo le orrende esperienze fra il 1940 e il 1944. Fu espressamente proibita durante la Rivoluzione durante la quale non fu mai applicata, tanto che nel 1789 l’articolo 303 del codice penale francese, condannava a morte chiunque l’avesse praticata.

 

Ciononostante, in Algeria, la pratica di tortura iniziò prima del 1954, e nel 1955 un alto funzionario di Stato sostenne in un rapporto che, come nella legalizzazione di un mercato nero evidente, anche per la tortura sarebbe stato opportuno l’istituzionalizzazione, sia per l’uso prevalente che se ne faceva, sia per la sua provata efficacia nel neutralizzare pericolosi terroristi, distinguendo i pro e i contro dei diversi metodi in uso. Come pompare la pancia della vittima con l’acqua fino al limite, o le scariche elettriche, definendole non più brutali della privazione di cibo e bevande. Benché Soustelle, l’allora direttore dei servizi segreti e del controspionaggio, rifiutasse “categoricamente” certe conclusioni, è accertato che certe tecniche di tortura avessero ormai preso piede in Algeria. E pur non essendo istituzionalizzata, l’orrore delle atrocità effelleniste, la determinazione a non perdere un’ulteriore campagna come quella di Suez e l’effetto brutale di una guerra lunga e crudele, la resero consuetudine all’interno delle fila dell’esercito francese. Il colonello François Coulet, in seguito alla crescente indifferenza verso la qualità di essere umano del nemico, confessò che i prigionieri non erano più considerati come contadini arabi, ma solo “fonti d’informazione” e lo stesso Godard disse che la cosa essenziale erano le informazioni.

 

Al sistema della divisione in quadrati della città e al saccheggio dei fascicoli della polizia, si aggiunse un nuovo corpo chiamato Dispositif de Protection Urbaine (DPU) sotto il controllo dell’esperto di guerra sovversiva indocinese colonello Roger Trinquier, che operò in un’ombra sinistra evocando le esperienze subite dai francesi sotto il Terzo Reich. Divise la città in sezioni, sottosezioni, isolati e singoli edifici ciascuno munito di un numero e una lettera, dove per ogni isolato fu nominato un responsabile, generalmente un ex combattente mussulmano fedele all’esercito, che doveva riferire ogni attività sospetta.

 

La 10° divisione paracadutisti marcia in Algeri
La 10° divisione paracadutisti marcia in Algeri

 

I risultati furono innegabili, nessun mussulmano poté più entrare nella zona europea senza che le autorità fossero informate, anche se alla fine i mussulmani “fedeli” furono assassinati o ripudiarono la loro lealtà alla Francia. Nonostante ciò il numero di mussulmani sospetti che vennero arrestati grazie alla DPU fu enorme. Si stima attorno al 30-40% degli abitanti maschili della kasbah. Questi venivano poi consegnati al Détachement Opérationnel de Protection (DOP) formato da “specialisti dell’interrogatorio”.  Se il sospetto non aveva problemi a parlare veniva rilasciato, se opponeva resistenza veniva trasferito a un centre d’hébergement e assoggettato ad un interrogatorio più “approfondito”.

 

Il metodo di tortura preferito era quello della gégène, un magnete per segnalazioni i cui elettrodi venivano fissati in varie parti del corpo, soprattutto al pene. Poi le varie forme di tortura all’acqua: dalle ripetute immersioni della testa in una tinozza d’acqua fino al semi soffocamento, al riempimento di pancia e polmoni con acqua fredda attraverso un tubo. Ed altri meno comuni, ma più degradanti come l’inserimento di bottiglie nelle vagine delle giovani mussulmane o tubi ad alta pressione nel retto che a volte causavano danni permanenti. Molti morirono sotto la tortura e i corpi scomparvero, gettati a mare dagli elicotteri o immersi nella calce, il cui numero esatto non si poté mai accertare. Di tutto ciò, nell’ambito dell’esercito ci fu un grosso lavoro di copertura di massa: capitani e sindaci mentirono a generali e prefetti.

 

Furono i casi di personaggi conosciuti, come il “suicidio” di Ben M’hidi e le torture di Henri Alleg (ebreo europeo stabilitosi ad Algeri durante la seconda guerra mondiale e direttore di un giornale comunista, che suscitò un vespaio in Francia quando pubblicò “La Question” in cui descrisse i metodi di tortura a cui era stato sottoposto) a scardinare lo strato di omertà. Una maggior ondata di indignazione fu provocata dalla scomparsa di Maurice Audin, venticinquenne lettore della facoltà di scienze di Algeri e membro della stessa cellula comunista di Henri Alleg. Ufficialmente scappato durante un trasferimento e rifugiato in Tunisia, non se ne seppe più nulla. Secondo Yves Courriére (autore di La Guerre d’Algérie) fu “liquidato”, mentre lo storico Vidal-Naquet usa categoricamente la parola “assassinato”). Maurice Audin fu segretamente sepolto nel forte Imperatore.

 

La cattura di Ben M’hidi
La cattura di Ben M’hidi

 

Ben presto, dalla coscienza liberale e l’istinto umanitario francese si alzarono voci autorevoli contro la tortura sia in Algeria che in Francia. Il generale Jaques de Bollardiére , Grand Ufficiale della Legion d’onore, con un’eccellente carriera durante la guerra, stanziato in Algeria al comando di un settore, era stato chiamato a partecipare alla Battaglia di Algeri. Oltraggiato nel senso dell’onore, disse a Massu che i suoi ordini erano in assoluto contrasto con il rispetto dell’uomo, che era stato il fondamento della sua vita. Dopodiché chiese il trasferimento in Francia. Qui diede voce alla sua indignazione attraverso un giornalista dell’Express: “Sarebbe un tremendo pericolo per noi quello di perdere di vista, sotto il fallace pretesto dell’utilità immediata, i valori morali che soli hanno, fino a questo momento, fatto la grandezza della nostra civiltà e del nostro esercito” e per questo fu condannato a 60 giorni di “arresti in fortezza”. La punizione più severa impartita ad un ufficiale superiore durante la guerra d’Algeria.

 

Due giorni dopo il governatore Lacoste ricevette le dimissioni dal suo segretario generale alla prefettura Paul Teitgen, eroe della Resistenza, deportato dalla Gestapo a Dachau dove era stato torturato in almeno nove occasioni. Rifiutò di permettere la tortura ad un bombarolo comunista “…perché una volta che ci si lascia prendere nell’ingranaggio della tortura è finita. Alla base di tutto c’è la paura. La nostra cosidetta civiltà è coperta da uno strato di vernice; e questa paura, basta graffiarlo per trovarcela sotto. I francesi non sono torturatori per natura, né lo sono i tedeschi. Ma non appena si vedono le gole dei copains squarciate, ecco sparire lo strato di vernice“. Convinto a rimanere accettò, giudicando fosse meglio fare il “cane da guardia” che lasciare Algeri senza nessun “cane da guardia”.  Nel frattempo Parigi costituì una commissione per indagare e riparare gli eccessi che portò una certa moderazione, ma secondo Teitgen non all’eliminazione della tortura, tanto che in settembre se ne andò. Fino a settembre, secondo Teitgen, erano scomparse tremila persone.

 

A questo punto Alistair Horne, nel suo libro, si chiede quali furono i risultati ottenuti dalla tortura durante la battaglia di Algeri. Ignorando le implicazioni morali, quanto fu efficace? Massu dichiarò che il fine giustificava i mezzi, la battaglia fu vinta e fu impressa una battuta d’arresto al terrore imposto dal FLN. Edward Behr, corrispondente di guerra, che non era mai stato un sostenitore della tortura, ammise che: “senza la tortura, la rete terroristica effellenista non sarebbe mai stata sconfitta” e che senza essa il generale Massu non avrebbe mai vinto la Battaglia di Algeri. (Di fatto, se Massu avesse perso la battaglia di Algeri, l’FLN sarebbe dilagato in tutta l’Algeria, arrivando ad un compromesso di pace parecchi anni prima, con meno atrocità e meno vittime, di quanto non avvenne). La tortura fu uno strumento di indubbia efficacia nel breve periodo, quanto inefficiente nel lungo termine, essendo il suo uso, come strumento politico, un’arma a doppio taglio.

 

L’esperienza ha insegnato che, più spesso che no, i servizi addetti alla raccolta di informazioni vengono riempiti di notizie false estorte ai torturati che le danno nella speranza di sottrarsi ai tormenti. La tortura ha anche il potere di spingere nel campo nemico gli innocenti che erroneamente vi siano sottoposti. Come disse Camus: “la tortura ha salvato qualche vita a costo dell’onore, permettendo la scoperta di trenta bombe, ma ha creato cinquanta nuovi terroristi che operando in modi diversi hanno provocato la morte di un maggior numero di innocenti”. E sempre dalle parole di Camus: “certe gesta non potevano che portare alla demoralizzazione della Francia e alla perdita dell’Algeria” perché alla fine non poteva che esserci un esacerbarsi senza fine di orrore e degradazione.

 

In uno studio sottoposto al “Comitato di salvaguardia” nel settembre ’57, Paul Teitgen scrisse parole applicabili non solo ai vari regimi autoritari dell’epoca, come Grecia, Spagna o URSS, ma anche a quelli attuali: “Anche un’azione legittima…può, suo malgrado, portare a improvvisazioni ed eccessi. Ora, se non vi si pone rimedio, unica giustificazione diviene, in un baleno, l’efficacia: la quale, in mancanza di una base legale, cerca di autogiustificarsi a ogni prezzo e, con una tal quale cattiva coscienza, esige il privilegio della legittimazione eccezionale. A questo punto, abbiamo la giustificazione dell’illegalità in nome dell’efficacia.”

 

E in una società civile, l’effetto a lunga scadenza più controproducente e insidioso della tortura è la sua tendenza a demoralizzare maggiormente chi la infligge di colui che la subisce (che viene riempito di rabbia, rancore e spirito di vendetta). Fra i torturati della battaglia di Algeri furono riscontrate varie patologie di nevrosi acute e permanenti, ma menomazioni psichiche, non meno gravi, si ebbero anche fra i torturatori. Pierre-Henri Simon, intellettuale francese, affermò che: “il poliziotto che tortura un sospetto, offende in sé stesso l’essenza dell’umanità, mentre è peggiore il ricorso alla tortura da parte dei militari perché offendono l’onore della nazione“. E’ certo che l’effetto nocivo della tortura sull’esercito francese durò diversi anni dopo la fine della guerra, tanto che molti ufficiali finirono per concordare sulla condanna a Massu per aver permesso all’esercito tutto ciò.

 

E in Francia l’impatto fu tale da portare l’opinione pubblica all’oblio, lavandosi le mani da quella “sale (sporca) guerre”,  ma ciò che probabilmente fu la peggiore conseguenza delle spaccature create in Algeria da questa pratica, è stata quella di cancellare ogni possibile terza forza mussulmana moderata di interlocutori con i quali trattare un compromesso o una pace. Si creò un baratro per il dialogo che forzò gli orrori per altri cinque anni. Come notò ancora Paul Teitgen: “Certo, Massu ha vinto la Battaglia di Algeri, ma questa vittoria ha significato la perdita della guerra”.

 

Alla fine del marzo 1957 (il primo mese senza bombe) in Algeri la battaglia, almeno per il momento, fu vinta, e i parà di Bigeard lasciarono la fetida atmosfera della città verso l’aria aperta dei villaggi.

 

Tratto da: "A Savage War of Peace: Algeria 1954–1962. London: Macmillan, 1977"
"Storia della Guerra d'Algeria 1954-1962: Rizzoli editore, Milano 1980" 
di Alistair Horne, storico, giornalista e militare britannico, 
nato a Londra nel 1925 e morto quest'anno all'età di 95anni.