Anatomia di un genocidio 12 – Conclusioni

Gli elementi fin qui raccontati non possono essere considerati una storia etnica locale, ma un capitolo della Storia mondiale che appartiene all’esperienza della vita. Non si tratta di un affare esotico, ma della nostra propria Storia connessa ad altre. Il genocidio rwandese non è caduto dal cielo e venendo alla luce le complessità che lo hanno provocato, sia esse sociali, culturali e psicologiche, i massacri del 1994, ma anche quelli del 1963, 1972 e quelli in Burundi, non hanno rilevato alcuna eredità etnica. Come già scritto, nel 1984 in Rwanda non sono stati gli hutu ad uccidere i tutsi. Il nodo della definizione è intellettuale, ma anche morale, in quanto richiama la natura dei discorsi sulla “riconciliazione”. Le relazioni con il Rwanda dopo il genocidio sono piene di retorica di convenienza sul perdono, che molto spesso dimenticano la gravità degli avvenimenti, come si fosse trattato di vittime di un incidente stradale o un conflitto fra bande.

Lo psicologo Boris Cyrulnik, sopravvissuto nel 1944 alle retate degli ebrei di Bordeaux, spiegò bene il doppio ostacolo umano e politico, quando scrisse che tacere significa diventare complici degli assassini, anche se parlare, per le vittime diventa una sofferenza. Aggiunse che dopo anni di lavoro su sé stesso, aveva preso coscienza di non riservare odio per i tedeschi, avendo capito che la causa della loro crudeltà non fu l’essere malvagi, ma la sottomissione a una teoria assurda.

 

Rwanda – paesaggio rurale

 

La propaganda dei gruppi estremisti hutu rwandesi in esilio in Europa, che reclamano la necessità di un dialogo inclusivo (cioè includendo i responsabili del genocidio) e un perdono “reciproco” fra hutu e tutsi, etnie o razze riconosciute nelle differenze, non fa altro che riprendere il discorso ingannevole del “conflitto inter-etnico”, fino a desumere un “doppio genocidio”. Colpevolizzando l’insieme degli hutu e dei tutsi, si impegnano a far dimenticare la responsabilità specifica di coloro che hanno concepito e organizzato il progetto razzista che ha preso in ostaggio il Paese.

Se l’obbiettivo di una ricostruzione nazionale dev’essere un imperativo categorico, deve oltrepassare i contenziosi e le passioni del passato. Può essere comprensibile in termini di ricongiungimento, da parte del popolo rwandese, dilaniato dal razzismo, come da parte del popolo burundese, anch’esso ferito da questa sindrome. Ma l’assimilazione del grande progetto criminale che ha fatto a pezzi queste società, non può trovarsi in una riconciliazione fra le parti. Sarebbe come se in Germania nel 1945 si fosse tenuto un discorso sulla riconciliazione dei tedeschi e degli ebrei, intesi come due razze o due etnie (ariana e semita) tenendo conto delle differenze. E che i tedeschi avessero chiesto di riconoscere come genocidio i bombardamenti su Dresda e Amburgo. In quell’occasione gli alleati rimasero increduli, di fronte alla realtà del massacro, avvenuto con logiche industriali.

 

Vendita di patate dolci nel distretto di Gakende

 

Ciò che si vuole sottolineare, è in che modo la retorica con una base pseudo-etnica, occulta un fatto essenziale: in Africa, allo stesso modo è stata un’ideologia delle razze che ha condotto all’ultimo genocidio del XX secolo. Il duo infernale hutu-tutsi è onnipresente da un secolo nel problema dei Grandi Laghi. A un rwandese viene sempre chiesto se è un hutu o un tutsi, come fosse una chiave per tutta la comprensione, ritenendo la domanda banale, ma procurando non poco disagio all’interlocutore. Un razzismo inconsapevole può provenire anche da domande di questo tipo, dopo decenni di marchiatura sulle carte d’identità, che ha funzionato come una stella gialla per i tutsi del Rwanda.

Eppure in Africa, come altrove, le identità di ciascuno sono molteplici (sesso, età, famiglia, salute, religione, professione, tenore di vita, istruzione…) i tutsi e gli hutu sono esseri umani, non caricature. Ereditano una antica categoria basata su un immaginario sociale che opponeva agricoltura e allevamento, i cui contorni, nella realtà, non erano solamente molto variabili nel tempo e nello spazio, ma anche porosi, vista la comunanza linguistica e culturale, intrecciati con strutture di clan diversificate a seconda dei Paesi. La disuguaglianza data dall’identificazione hutu-tutsi ha senza dubbio giocato fortemente in certi periodi. Ma questo valore sociale, la cui importanza meriterebbe maggior approfondimento, ha conosciuto fluttuazioni, sia in Rwanda che in Burundi.

La storia antica dei due regni è stata oggetto di violenze legate ai giochi di potere, ma questa è la condizione umana, Shakespeare è valido anche in Africa. Però il rapporto fra queste due “comunità” è sprofondato nell’odio per mezzo secolo, quando è stato investito, sotto lo sguardo autorizzato dei conquistatori europei, con una lettura razziale dai fantasmi e dai calcoli coloniali. Questa divisione totalitaria funse da specchio a nord e a sud. Per rwandesi e burundesi il discorso “etnico” ebbe una parvenza di autenticità visto la familiarità linguistica dei termini tutsi e hutu e il modello, apparentemente ancestrale, nel quale era stato affondato lo schema delle origini “hamita” e “bantu”. La teoria accademica, collegata a una rilettura biblica con tradizioni locali, ha plasmato un miscuglio mitologico di facile comprensione.

 

Essicazione del caffé nella cooperativa Musasa a Gakenke, una cooperativa nata e gestita da donne rimaste sole dopo il genocidio, nella quale si coltiva il Bourbon Arabica, uno dei caffé più pregiati al mondo.

 

Si è visto che a nord del Mediterraneo, dagli scritti di natura gobiniana del XIX secolo ai negazionisti del XXI secolo, la risonanza fra le correnti razziste è stata incessante. Dai missionari che chiamavano i tutsi “ebrei d’Africa”, ai saggisti che vogliono interpretare il genocidio del 1994 come semplice episodio di un complotto internazionale includendo Israele, la continuità è affascinante. Tanto le insinuazioni sulla presenza di diversi ebrei nelle associazioni di difesa dei Diritti Umani, con la loro partecipazione alle commemorazioni del genocidio rwandese, fino ad ipotizzare stretti legami fra il FPR e organizzazioni ebree o sioniste.

Anche la comunanza sull’origine razzista dei due genocidi e il diritto di incontrarsi su una memoria comune, è stato contestato. Giornalisti francesi hanno scritto che il genocidio rwandese non ha nulla di assimilabile alla Shoah. Al contrario sono state emblematiche le parole dell’avocat général Alain Winants, durante il processo ad alcuni génocidaires rwandesi a Bruxelles nel 2001, quando disse che studiando i dossier, era stato particolarmente colpito dalla similitudine con il genocidio degli ebrei. Stesso metodo di propaganda, stessa propaganda di incitamento all’odio, stesso condizionamento della popolazione, stessa designazione a tutti i livelli del nemico…

Il filosofo Tzevan Todorov la definì “memoria esemplare”, spiegando che non si doveva tagliare tutto sui ricordi della II Guerra mondiale, ma riferirsi a un evento come modello per comprendere situazioni nuove, con agenti differenti, come prendere l’esempio di un trauma vissuto in Europa, per aiutare in qualche modo coloro che si sono confrontati con esperienze simili in Africa. In effetti, tutto è accaduto come se le sorgenti dell’odio contro gli ebrei nella storia europea avessero trovato un eco nell’odio dei tutsi in Africa. Si è visto il ruolo di capri espiatori avuto dagli ebrei in Europa, dalla grande peste del XIV secolo, passando per i diversi conflitti che l’hanno accompagnato fino alla crisi sociale del 1930. Lo stesso ruolo è stato titolato ai tutsi ad ogni crisi politica, nel 1963, nel 1973 e negli anni 1990.

 

Ritratti rwandesi

 

In un genocidio anche la partecipazione della gente comune ai massacri, rappresenta un’enorme sfida alla comprensione, quanto il numero dei morti. Diversi lavori hanno analizzato le logiche materiali e morali di questa forma particolarmente perversa di “servitù volontaria”. L’americano Daniel Goldhagen ha cercato di capirlo nel libro “I volenterosi carnefici di Hitler”, ma anche recentemente è stata analizzata la miscela di “consenso e coercizione” che ha caratterizzato i rapporti della popolazione tedesca con la Gestapo.

Lo storico Edouard Husson ha dimostrato che la decisione di portare a termine la Shoah fu presa nel novembre 1941. Di fatto si iscriveva all’interno di decisioni coagulate una sull’altra, con molti non detto o piuttosto non scritto e soprattutto riflettevano il cuore delle convinzioni dei capi del III Reich. Aggiunge che volendo eliminare gli ebrei, il regime voleva anche “eradicare la coscienza morale dell’Occidente”. Questa logica folle dell’ “uccideteli tutti” purtroppo si è vista altrove. Ma una mobilitazione tale sarebbe stata impossibile senza l’ardente attività di guide e dirigenti, pesando con la loro competenza e la loro autorità. Il ruolo di questi “ingegneri della razza”, spesso titolari di lauree e dottorati, inseriti fra i carnefici delle SS, che erano anche tecnici sul terreno, è stato ben analizzato. E ricorda sorprendentemente il ruolo degli intellettuali di Butare (universitari, medici, religiosi) in Rwanda.

La differenza più visibile fra la Shoah e il genocidio dei tutsi, è dato dall’aspetto “decentralizzato” e popolare di quest’ultimo. E’ stato commesso in un ambiente essenzialmente rurale, ma con la stessa logica burocratica. La democratizzazione del processo lo ha reso ancora più orribile, poiché tendeva a coinvolgere tutta una popolazione in un programma elaborato da un preciso gruppo. Anche se in ogni caso, il negazionismo che lo ha seguito, non può essere comprensibile senza un razzismo di sottofondo.

 

Ritratti rwandesi

 

I massacri del 1994 non sono stati una deriva aberrante senza utopia, come diversi giornali hanno scritto. I media estremisti di quella regione sono stati fautori di un progetto molto reale di regolamento definitivo della “questione tutsi”. Una situazione estrema dove l’ossessione identitaria è diventata omicida e il referente di questo programma di morte è stata la razza. Di fronte a difficili situazioni politiche, situazioni sociali senza uscita, ed eredità storiche complesse, si sono trovati con ideologie e politici, atti a riconoscere che era arrivato il momento di invocare le “differenze” ereditate dette “etniche”, per risolvere tutti i problemi.

Questa riduzione olistica e fuori dal tempo della complessità sociale, a una semplice questione di appartenenza alla nascita, non è stata altro che una gigantesca semplificazione razziale. L’identità detta “hamita” ha funzionato esattamente come l’identità “semita”, anche se in questo caso non aveva riferimenti religiosi, come nell’ebraismo. Prima di confrontarsi con una situazione di guerra civile, la società rwandese è stata impressa di un odio interno a carattere binario. Dentro le famiglie c’erano coloro che dovevano sopravvivere e quelli che dovevano morire.

Lungi dal dimostrare l’esistenza delle razze, come affermano senza dubbi i pensatori dell’estrema destra, questi massacri sono la dimostrazione più limpida della disumanizzazione alla quale conducono le ideologie razziali.

 

Le tipiche strade rosse del Rwanda

 

Il nazismo era radicato sul fascino della guerra, all’interno di una visione mondiale che si basava su un confronto eroico, fra le razze nordiche con quelle orientali e meridionali. In seguito l’africanismo coloniale si era compiaciuto in una litania che si oppose a questa natura. Ma una tale ossessione può prendere il fascino pittoresco della marcatura su tribù dette primitive, o sulle meravigliose origini di popoli detti conquistatori. Dopo che questo circola nelle scuole, nelle parrocchie, nella letteratura e nella stampa, ciò che potevano essere amabili sciocchezze, possono diventare un vero arsenale di morte. Ed è ciò che è successo in Rwanda.

Si è visto che da Gobineau a Mao, dal cristianesimo sociale Belga alla sovranità francese, filosofi, saggisti, esperti, umanitari, politici, non hanno mancato di liberare fantasie di tutti i colori, su un terreno dove non si voleva vedere la realtà da più vicino. C’è voluto mezzo secolo, tra il 1633 e il 1682, affinché la giustizia francese rinunciasse a considerare la stregoneria come un delitto. Apparentemente sembra più difficile convincere i nostri contemporanei, che gli abitanti africani della regione dei Grandi Laghi sono esseri umani, guidati da interessi e passioni che conosciamo anche noi e non da misteri etnografici.

 

Bambini rwandesi

 

L’esperienza coloniale ha giocato un ruolo significativo in questo blocco intellettuale. Il successo dello schema razziale che ha opposto hutu e tutsi, e per decenni è servito sia come chiave etnografica per gli opinionisti, che come attività politica nella regione dei Grandi Laghi, si spiega per una cultura legata a una situazione fondamentalmente di disuguaglianza, ma anche dal manicheismo radicale. Tutto ha condotto a un modello binario e fissista, ai limiti di un vero dimorfismo: bianchi e neri, colonizzatori e colonizzati, civiltà moderna e barbarie primitive, cristianesimo e paganesimo, urbano e rurale, ordine e disordine, ecc. Si sono viste le immagini inquietanti che ne sono derivate: hutu e tutsi, nativi e conquistatori, signori e servi, grandi e piccoli, chiaro e scuro, snello e tozzo, ingannevole e ingenuo, ozioso e laborioso. Tutta la realtà sociale percepita in bianco e nero, non nella varietà di colori dell’arcobaleno. Una vera messa in scena dell’essenza razziale prestata all’Africa.

Negli anni 1950-1970 gli intellettuali furono chiamati ad allinearsi con il “senso della storia”, quello delle “lotte di classe”. Oggi sono spesso invitati a posizionarsi rispetto a entità nazionali o etniche, etichettate qualitativamente per definizione. Queste classificazioni, care ai media, hanno l’apparente merito di evitare le analisi dei processi, degli intrecci di logiche e responsabilità, di eredità e opzioni che formano il tessuto della Storia. E l’Africa appare spesso come il terreno ideale per questa regressione intellettuale.

 

Mercato congolese nell’ovest del Rwanda

 

L’interpretazione storica rappresenta la lettura del tempo basata su un principio di incertezza, fatto di rotture, abbandoni o innovazioni. In questo contesto la storiografia dell’Africa si confronta con due discorsi mitologici: la leggenda d’oro di una meravigliosa Africa antica la cui eredità sarebbe stata “rubata” dall’Occidente o dalla leggenda nera di un’Africa contemporanea, dove la dominazione coloniale avrebbe spazzato via il suo passato, per determinarne il destino alla Conferenza di Berlino. In entrambi i casi, le numerose dinamiche contraddittorie delle società africane vengono cancellate, a favore di una visione fissa, agganciata una volta per tutte a un momento fondante. E ciò costruisce tutti i cliché sull “Africa tradizionale “.

Lo storico non è un notaio incaricato di autenticare un determinismo. È piuttosto un investigatore, sensibile alle logiche collettive, ma anche ugualmente a rotture e contraddizioni. Da qui il genocidio del 1994 in Rwanda non può essere né ridotto a un conflitto atavico tra un “popolo hutu” e un “popolo tutsi”, né al gioco dei dadi di un complotto internazionale. Non è sulla base di questo tipo di “eventi” che può essere costruito il futuro del popolo rwandese, né può svilupparsi una riflessione delle scienze sociali, degna di questo nome. Si è vista l’importanza che ha avuto nel XX secolo la trasformazione sociale di questa zona d’Africa. Si è visto che ogni generazione ha ripreso questa eredità a suo modo e secondo la sua convenienza e che sono state perse molte occasioni per districare e disinnescare l’equivoco razziale. Il peso della trappola ideologica, in questo caso, è certamente dovuto allo scambio disuguale di discorsi e pratiche, ma la società africana interessata non era plastilina inerte nelle mani di un demiurgo europeo. Ed è questo incrocio di visioni e di responsabilità reciproche, al netto di ogni esoterismo, che questa storia ha cercato di esplorare.

 

I libri dello storico Jean-Pierre Chrétien, nonostante i premi ricevuti, hanno sollevato 
non poche controversie in Francia, come in Canada e nella stessa Africa, da parte di 
altri storici, giornalisti e politici. Le sue tesi sulle responsabilità coloniali e 
quelle francesi, non sono state ben digerite da una certa parte francofona, soprattutto 
nazionalista e dai negazionisti. Inoltre parte degli storici continua a considerare hutu 
e tutsi due gruppi etnici differenti, ed è in disaccordo sul fatto che l'odio razziale 
fra loro sia un prodotto del colonialismo.  

Sul ruolo avuto dalla chiesa cattolica, nel 2017 papa Francesco ha chiesto perdono.

 

“È accaduto, quindi potrebbe accadere di nuovo…” – Primo Levi

 

Fonti:
Réquisitoire de l’avocat général Alain Winants
Starbucks stories: Hingakawa coffee co-op, FORGIVENESS IS A CHOICE
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien et Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique
Allan Thompson, © 2007. Statement by Kofi Annan, © 2007: The Media and the Rwanda Genocide