Anatomia di un genocidio 6 – La propaganda estremista

Gli slogan di pace, unità e sviluppo diedero l’immagine di un regime moderato e capace, mentre i rwandesi attribuirono ad Habyarimana il titolo rispettoso di padre (umubyeyi). Ma la facciata, già dal 1980, nascose una rete tentacolare politico-affaristica che, con le mani su finanze e banche, pesava sulla politica del governo. E non fu estranea ad assassinii mai chiariti, spesso dissimulati da incidenti. I suoi legami con il potere vennero spesso associati alla famiglia del presidente, con Agathe Kanziga,* moglie di Habyarimana, e i suoi parenti. Questa rete, precedentemente battezzata “le clan de Madame” ricevette il soprannome di “petite maison” (akazu), una casetta dai contorni elastici, in quanto inglobava la famiglia del presidente e gli amici più intimi provenienti dal nordovest del Paese, regione natale di Madame Agathe.

Nel 1990 la virtuosa economia rurale, tanto lodata a livello internazionale, sprofondò, e i paesani di alcune regioni morirono di fame. In diverse zone, la situazione diede inizio a molteplici violenze. Movimenti spontanei, di fronte alla penuria di terra da coltivare per sopravvivere, distrussero le piantagioni dello Stato, mentre altri emigrarono verso i Paesi confinanti. La Rivoluzione sociale apparve sempre più come un’illusione. Una ONG belga scrisse che: “nonostante precedenti successi nello sviluppo, nella democrazia e nel rispetto dei diritti umani, si poteva parlare di un regime totalitario, che aveva bloccato l’evoluzione democratica del Paese e instaurato la glorificazione del presidente”.

Lo stesso anno Habyarimana venne incalzato da pressioni internazionali inedite. Dopo la caduta del muro, i regimi autoritari africani si videro privare del ricatto contro la minaccia sovietica e le loro pratiche vennero esposte a pesanti critiche. Mitterand esortò i Paesi africani alla democratizzazione, se volevano continuare a ricevere aiuti, cosa che Habyarimana, pur infastidito, ottemperò rapidamente. Oltretutto nel mese di settembre, era attesa in Rwanda la visita di papa Giovanni Paolo II e il presidente aspirava a migliorare la sua immagine di capo di Stato cattolico e pacifico. La minima ribellione o violenza avrebbe potuto rovinare questa speranza, da qui l’interesse a dar prova di apertura.

 

Pescatori sul lago Kivu

 

I giornali belgi sottolinearono che fu in un clima di “fine regno” quando il regime dovette affrontare una rivendicazione democratica all’interno e il risveglio dei rifugiati all’esterno. Ma dopo una timida apertura, la risposta a questa sfida fu un ritorno al confronto etnico come agli inizi della Repubblica, aprendo la strada a una deriva razzista, che sarebbe culminata con il genocidio del 1994.

Il 5 luglio 1990, in occasione del quindicesimo anniversario della salita al potere, Habyarimana sorprese i rwandesi annunciando che era tempo di riflettere sulla riforma dello Stato. Trentatré intellettuali risposero subito, chiedendo l’apertura al multipartitismo. Venne formata la Commission nationale de synthese, e nel giugno 1991 fu varata una costituzione multipartitica, mettendo fine a 25 anni di partito unico. In tre mesi nacquero sette partiti in opposizione al MRND e tre di questi riscossero consenso a livello nazionale: il Mouvement Démocratique Républicain (MDR), il Parti Social-Democrate (PSD) e il Parti Libéral (PL).

Anche la questione etnica conobbe una svolta: erano trascorsi trent’anni dalla Rivoluzione sociale e una nuova generazione aveva sostituito la precedente. La società urbana accostò hutu e tutsi nella vita culturale ed economica, mentre contemporaneamente nacque un’opposizione interna che denunciava gli abusi e la corruzione attraverso piccoli giornali, ai quali si aggiunse il venerabile organo cattolico Kinyamateka. Hutu che criticavano altri hutu. L’accelerazione del cambiamento politico fu dovuta anche a una pressione militare esterna, il Front Patriotique Rwandais (FPR), che dall’Uganda attaccò le zone del nordest il primo ottobre 1990.

 

Il Sabyinyo (3545 m) nel “Volcanoes National Park”

 

I rifugiati si erano organizzati in associazioni che operavano in Uganda, in Kenya e in Burundi, dove veniva ricordata la cultura tradizionale per mantener viva la nostalgia della patria perduta. Il primo congresso internazionale dei rifugiati tutsi si tenne a Sacramento, in California, nel 1988. Ma una possibilità si aprì in Uganda: numerosi giovani esiliati rwandesi si arruolarono nell’esercito di Yoweri Museveni durante la guerra civile e la vittoria di Museveni del 1982 aveva ridato speranze per un ritorno.

Le associazioni a fini sociali s’erano mutate in movimenti politici e il Front Patriotique Rwandais (FPR) disponeva anche di una branca militare, gli Inkotanyi (Combattenti). Fu in questo contesto che avvenne l’attacco del 1990 nella speranza di abbattere un regime ormai marcio. Il programma del FPR menzionava esplicitamente il rimpatrio dei rifugiati, ma anche l’unità nazionale, la democrazia, la salute, lo sviluppo economico e le relazioni internazionali. Era un progetto di rinnovamento politico.

Di fronte a una guerra civile, il regime dovette decidere fra incrementare la via dell’apertura politica o la mobilitazione etnica. Invece di giocare la carta dell’innovazione, offerta dall’evoluzione della società, si lasciò investire dal sogno della purificazione, della quale s’è già descritta la logica e gli attori. Dopo l’attacco del FPR, migliaia di tutsi furono arrestati e ammassati nello stadio di Kigali, dove ci restarono per otto mesi, accusati di essere complici (ibyitso) degli aggressori. La popolazione fu invitata a denunciare i sospetti, e in certe zone non denunciarono, ma massacrarono. Riapparve la ricetta del 1963, dove i tutsi erano implicati in un complotto contro la nazione e gli oppositori hutu descritti come traditori corrotti dai tutsi.

 

Kangura (Svegliati!)

 

Per Habyarimana e il suo entourage, gli Inkotanyi non erano altro che gli inyenzi (scarafaggi) degli anni 1960. Sullo sfondo della guerra civile si aprì una battaglia politica interna, che vide opporsi coloro che rivendicavano la democrazia e l’apertura, a quelli del “popolo maggioritario” e il ritorno alle passioni etniche dei bei giorni della Rivoluzione sociale. Il confronto si giocò soprattutto sui media. L’apertura della libertà d’espressione si tradusse nel 1990 e 1991 con l’uscita di molti piccoli giornali, ma la stessa libertà fu utilizzata da organi estremisti legati al potere, una stampa dell’odio che contribuì in modo decisivo a rilanciare l’ideologia razziale e a forgiare la propaganda che condusse al genocidio.

Inizialmente questa campagna venne messa in atto attraverso un periodico bimensile dal nome Kangura (Svegliati!). L’idea era che gli hutu si erano assopiti e non si rendevano conto della minaccia che si stava profilando. Fu un vademecum dell’odio che uscì per quattro anni, con un totale di 10.000 copie, cifra enorme per il Rwanda di allora. I numeri circolarono di mano in mano con un successo demagogico evidente, martellando con ciò che fin dal XIX secolo, rappresentò la Storia del Rwanda. L’esistenza di una nazione rwandese passò in secondo piano, rispetto al primato dell’identità etnica, esprimendo il razzismo con la stessa certezza di un catechismo a pretesa scientifica, scrivendo che hutu, tutsi e twa erano identità primordiali, definite secondo le leggi della biologia, della natura e della storia.

Nel 1991, quando Habyarimana annunciò, pressato dalla Francia, la sostituzione delle carte d’identità senza la dicitura etnica, Kangura insorse. Lo considerò un atto dannoso per lo sviluppo della democrazia e la coesione sociale. Contro ogni evidenza, la propaganda di Kangura voleva far credere agli hutu che il mondo circostante era illusione e che i tutsi avevano ripreso il controllo della società, snocciolando false cifre.

Per il suo contenuto e la sua violenza, Kangura ricordò i toni dell’estrema destra nella stampa francese degli anni 1930.

 

Umurwanashyaka (Il militante)

 

Non si trattava di un banale litigio etnico, ma di un discorso moderno, già conosciuto sotto il cielo europeo. L’organo del partito MRND, Umurwanashyaka (Il militante) batteva il tasto sulla purezza razziale. L’ideologia che ispirava la propaganda, era il modello razziale che aveva opposto gli hamiti ai bantu risalente all’inizio del XX secolo. Kangura alzò il tono e si rivolse a tutti i bantu dell’Africa per scacciare il perfido hamita assetato di sangue, e fondare un’alleanza di tutti i bantu, osservando un decalogo dell’odio in dieci comandamenti. Un elenco di nefandezze razziste scritte da hutu, esponenti dell’estrema destra che studiavano a Bruxelles. Un hutu che avesse perseguitato un suo fratello a causa di queste ideologie, sarebbe stato trattato come un traditore. Nella propaganda le donne tutsi furono particolarmente bersagliate: come portatrici di un gene particolare, fungevano da cavallo di troia piazzato nel letto degli hutu. Non avrebbero mai sposato un hutu per amore, solo per calcolo. Le ragazze tutsi venivano chiamate ibizungeresi, “coloro che danno le vertigini” e pretendeva che nei matrimoni misti non venissero fatti figli.

La propaganda toccò abilmente le preoccupazioni sociali dell’epoca. Ai ragazzi descolarizzati e ai loro genitori preoccupati diceva che i tutsi avevano occupato tutti i posti nell’educazione. Ai disoccupati e coloro che trovavano difficoltoso aprire una piccola attività, che i tutsi avevano il comando dell’amministrazione pubblica e delle banche. Ai paesani che lavoravano duramente nei campi senza acqua, né elettricità dicevano che i tutsi avevano occupato tutte le città. Alle donne hutu, che le donne tutsi avevano stregato i loro uomini. Il pregiudizio razzista era rivolto alle persone ordinarie, sottomesse a deprivazioni ed umiliazioni, dando un senso alla loro condizione, spiegare la loro miseria proiettando la colpa verso un capro espiatorio. Seguirono anche le teorie del complotto, che vedevano la guerra del FPR intenzionata ad assoggettare tutta l’Africa Centrale, con un piano di colonizzazione e sterminio.

Tutto il discorso dell’odio razziale rispose anche a una logica politica, quella del “totalitarismo etnico”. La propaganda insisteva nel sensibilizzare contro il pericolo di una divisione fra hutu, favorevole ad un successo dei tutsi. In questa prospettiva il multipartitismo veniva presentato come una piaga del nemico. Nonostante la costituzione multipartitica, tutti gli appartenenti ai partiti di opposizione vennero considerati estremisti, traditori del popolo maggioritario (rubanda nyamwinshi) e tutti gli hutu invitati ad unirsi al MRND, con il loro “padre” Habyarimana. Alla fine del 1991 un articolo si lamentò che nei partiti di opposizione c’erano hutu e tutsi, gridando al tradimento verso il “popolo maggioritario”. All’inizio del 1992 Kangura presentò un nuovo partito, il “Parti Démocratique pour la Révolution” (PDR) e chiese alla “Santa Famiglia” un’intercessione presso Dio, affinché gli hutu del mondo intero si fossero uniti.

 

Il cratere del vulcano Visoke (3711 m) appartenente alla catena dei monti Virunga, nel Parco Nazionale dei Vulcani.

 

Parallelamente un gruppo di studenti universitari, esclusivamente del nord, si riunì nel “Cercle des republicanes progressistes” pubblicando una nota detta “strategia per una vittoria”, dove veniva spiegato che gli Inkotanyi erano usciti dagli inyenzi del 1960, ma più pericolosi grazie a elementi giovani e dinamici addestrati in Europa e in America. Che la democrazia pluralista avrebbe rischiato di smembrare la Repubblica e che serviva un’unità salvatrice di fronte al nemico, come negli anni 1960. Questi Circoli avrebbero successivamente contribuito alla nascita dell’Hutu Power.

Agli inizi del 1992 gli estremisti non forzarono più l’ingresso nel MRND, ma proposero un raggruppamento di partiti, a condizione fosse etnicamente puro. Così nacque la “Coalition pour la Défense de la République” (CDR) un nuovo partito estremista, formato da dirigenti del governo in carica, che raggruppava come obiettivo la somma di tutti i clichés del razzismo antitutsi. Il CDR permise al MRND di sdoganarsi da posizioni estremiste, pur se contemporaneamente quest’ultimo creò al suo interno un movimento giovanile, che sarebbe diventato una milizia con il nome di interahamwe (“coloro che attaccano insieme” o “coloro che marciano allo stesso passo” o “coloro che hanno lo stesso scopo”) resa tristemente famosa durante e dopo il genocidio. Inquadrati da militari in abiti civili, gli interahamwe, spesso organizzati in cortei di motociclette, iniziarono saccheggi e violenze che sarebbero degenerate in massacri di tutsi.

Fra gli amici stranieri, si trovavano in linea con il MRND e il governo, l’Internationale Démocrate Chrétienne (IDC) e i social cristiani belgi, soprattutto l’IDC criticò duramente ogni compromesso con il FPR.

Habyarimana su pressione internazionale, della guerra e dalle voci di strada, il 16 aprile 1992 cambiò governo, mettendo al comando un primo ministro dell’opposizione, che immediatamente prese contatti con i ribelli del FPR, siglando con loro un accordo per entrare al governo. Per gli estremisti fu un tradimento, lasciando esplodere tutto il loro odio.

 

Coffee farm

 

Fu così che il Segretario generale del MRND, diffuse una nota relativa alla propaganda e agli arruolamenti, che sintetizzava tutti i concetti di Goebbels e Tschachotin sulle strategie di propaganda e contro-propaganda, dove consigliava di ricorrere all’accusation en miroir (reversed-accusation in inglese) consistente nell’imputare agli avversari le intenzioni che si hanno nei loro confronti, al fine di far credere alle persone comuni che di fronte a tali avversari, la gente onesta si sarebbe trovata in una condizione di legittima difesa. Una manipolazione adottata lungo tutta la crisi.

Contemporaneamente il capo di stato maggiore preparò una nota sull'”identificazione del nemico”, che non si limitò solo al FPR, ma anche agli oppositori politici “che deviavano l’opinione dal problema etnico a quello socio-economico fra ricchi e poveri”. La lista menzionò i rifugiati tutsi, i tutsi interni, gli hutu malcontenti del regime, gli stranieri sposati con donne tutsi, i popoli hamito-nilotici della regione, i disoccupati e i criminali in fuga.

Parallelamente alla ricerca della pace e agli sforzi della comunità internazionale, si sviluppò una teorizzazione del conflitto, come prolungamento della Rivoluzione di trent’anni prima. All’interno di questa strategia ci si è posti la domanda sul ruolo avuto dai militari francesi. Dopo un attacco simulato a Kigali, che servì per giustificare l’intervento francese, questi diventarono una missione di appoggio duratura, di consulenza e formazione dell’esercito rwandese. Con l’aiuto della cooperazione militare francese, venne anche creato un servizio di polizia giudiziaria chiamato: “Centre de recherches criminelles et de documentation“.

 

Paesaggi rwandesi

 

All’interno del contesto ideologico rwandese, apparentemente sconosciuto dai partner stranieri dell’epoca, gli estremisti condussero la popolazione civile ad appropriarsi del diritto alla violenza contro i tutsi e questa deriva portò al peggio. Le prove generali avvennero già nel 1991 con il massacro dei Bagogwe, una popolazione semi-nomade tutsi povera, che viveva sulle montagne del nordovest da secoli e non aveva mai avuto a che fare con il potere. Gli furono incendiate le capanne, ucciso il bestiame, saccheggiati i beni e massacrate fra mille e millecinquecento persone, compreso donne e bambini.

Nel 1992 Bugesera, una regione del sudest dove vivevano numerosi tutsi, fu isolata telefonicamente, vennero bloccate le strade di accesso, e gli interahmwe, appoggiati da elementi della Guardia presidenziale in abiti civili, bruciarono case, violentarono e massacrarono. Fra l’indifferenza degli stranieri presenti, solo una missionaria italiana, Antonia Locatelli, ebbe il coraggio di denunciare l’accaduto, lanciando un appello su Radio France Internationale. Fu assassinata. Il suo corpo è sepolto ai piedi della chiesa dove i sopravvissuti da quella violenza, furono massacrati due anni dopo. Nessuno venne mai giudicato.

 

La tomba di Antonia Locatelli a Nyamata

 

Nei quattro anni che precedettero il genocidio, la reazione dei tutsi fu contrastante, da un lato la ripetizione ossessionante del loro massacro li portò a non crederci, se non come una provocazione o uno scherzo di pessimo gusto, altri agirono come gli ebrei nel 1940, cercando di mettere in salvo almeno i figli.

Durante la primavera del 1993, la ripresa dei massacri antitutsi in diverse regioni, provocò un nuovo attacco del FPR a nord del Paese e una commissione d’inchiesta internazionale cercò, invano, di mettere in guardia le opinioni pubbliche, sulle logiche genocidarie che stavano covando in Rwanda. Le violenze continuarono (centinaia di morti, migliaia di feriti, proprietà distrutte, famiglie sfollate) e divenne sempre più evidente che il contesto non fu quello di una dittatura in caduta, ma piuttosto quello di un regime ben consolidato da un’appoggio straniero (leggi francese) che si poteva tradurre in una fredda determinazione politica.

Furono particolarmente illuminanti i metodi che portarono all’orrore del 1994, in particolare i meccanismi calcolati per condizionare la popolazione: false notizie, creazione di un clima di panico, provocazioni, tutto ciò che uscì dalla tecnica della propaganda già citata “en miroir“. Il Rwanda tornò alla cultura del machete, già sperimentata trent’anni prima, ma pure a un inganno particolarmente moderno, che non aveva nulla a che vedere con la peculiarità etnografica.

 

* Nel 1994, Agathe Kanziga è stata portata in salvo a Parigi dai militari francesi e tutt’ora vive irregolarmente in Francia. A causa del suo presumibile ruolo nel genocidio come capo dell’akazu, i tribunali francesi non le hanno mai concesso l’asilo politico, nonostante i suoi ripetuti Appelli. Ma non è mai stata espulsa e sono state rigettate tutte le richieste di estradizione del Rwanda, il quale ha emesso nei suoi confronti un mandato di arresto internazionale. Suo fratello, Protais Zigiranyirazo, considerato uno delle menti e dei principali responsabili del genocidio, condannato dall’International Criminal Tribunal for Rwanda, venne rilasciato in Appello per “vizi di forma” nelle prove. E’ stato anche interrogato dall’FBI, dopo l’accusa di alcuni testimoni per aver ordinato l’omicidio della primatologa Dian Fossey nel 1985.

 

Fonti:
L’OBS: intervista a David Servenay in seguito alle sue inchieste sul ruolo avuto dalla Francia.
Wikipedia: Ruolo della Francia nel genocidio del Rwanda
BBC NEWS: Rwanda seeks ex-first lady arrest
All Africa: Agathe Kanziga Appears Before French Court Over Links to French Mercenary
Le Parisien: Le responsable du meurtre de l’amie des gorilles écroué
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien et Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique
Université Nationale du Rwanda: Histoire du Rwanda – Des origines a la fin du XX siecle