Anatomia di un genocidio 9 – La diffusione del virus ideologico in Burundi

Nell’ottobre 1994, il Segretario Generale dell’ONU constatò che: “degli atti di genocidio contro il gruppo tutsi, sono stati perpetuati da parte di elementi hutu in modo organizzato, pianificato, sistematico e metodico”. Nel 1996 venne creato un tribunale internazionale, l’ICTR (International Criminal Tribunal for Rwanda) ma la sua attività iniziò nel 2000, terminando il processo in prima istanza nel 2012.

Nel frattempo si sviluppò, da parte dei nostalgici una propaganda contro la “giustizia dei vincitori”. All’inizio del XXI secolo la logica dello sterminio, che era riuscita sul terreno, sembrò volersi infiltrare anche nell’opinione pubblica, tramite un miscuglio di giustificazioni e negazionismo. Si assistette a un prolungameno della propaganda del 1990, dissimulando un progetto razziale dentro un discorso dall’apparenza etnica, basato su un odio “atavico” fra hutu e tutsi. Una deriva razzista descritta in termini di “collera popolare” primitiva. Una specie di catastrofe naturale che aveva causato morti da ambo le parti.

Ci si sarebbe aspettati che la spaventosa e schiacciante realtà degli omicidi contro intere famiglie, sulle colline e nelle vie di Kigali, screditassero definitivamente la visione razziale che aveva condotto a quegli orrori e che i sui sostenitori venissero emarginati. Al contrario, diversi gruppi in Africa Centrale e nel mondo, si adoperarono per dimostrare che il genocidio provava la legittimità dell’ideologia che l’aveva prodotto. Il “lavoro” di sterminio venne invocato per appoggiare la tesi dell’inevitabilità di una classificazione “etnica” fra bantu e hamiti, come se Auschwitz avesse definitivamente provato l’esistenza delle razze semite e ariane. E la questione del genocidiò debordò largamente le frontiere rwandesi.

Dopo più di un secolo dalla sofisticazione ideologica da parte europea e mezzo secolo di gestione razziale del Paese, il filo di questo fantasma venne ripreso ancora, malgrado la catastrofe che aveva prodotto. Eppure dagli anni 1960 ci fu un cambiamento radicale, che dall’archetipo razziale hutu-tutsi, portò a studi più approfonditi delle realtà storiche, sociali e antropologiche della regione. Ci fu quindi una distorsione fra il corso del pensiero scientifico e quello delle passioni ideologico-politiche.

 

Burundi

 

La regione dei Grandi Laghi, pur essendo situata sul versante orientale del continente africano sia geograficamente che per i suoi antecedenti storici, con il Rwanda e il Burundi venne integrata in uno spazio francofono assieme al Congo e catturata dalle logiche dell’Africa Centrale, come se la regione dei Grandi Laghi arrivasse fino a Kinshasa. Il genocidio fu visto come un evento alle frontiere orientali del Congo e il ruolo di Uganda e Tanzania percepiti come un’ingerenza. Quindi la prosecuzione ideologica di questa crisi si è resa visibile soprattutto nel triangolo Rwanda-Burundi-Congo, dove sbocciarono una quantità di interpretazioni, facendo risorgere sul terreno africano i fantasmi coltivati in Europa dalla metà del XIX secolo, mostrandole come autentiche rivelazioni.

Inizialmente fu il Burundi, dopo il 1965, a presentarsi come un altro Rwanda, dove i tutsi ocupavano il posto tenuto dagli hutu nello Stato vicino, in un gioco di “specchi” fra i due Paesi, considerati come “gemelli”. Il contagio ideologico si espanse anche nel Congo dove i popoli frontalieri avevano legami storici fra loro. Le crisi del Rwanda e i problemi delle popolazioni del Kivu si incrociarono. Soprattutto l’arrivo nel 1994 di milioni di rifugiati, che crearono un vero e proprio secondo Rwanda all’estero, coinvolse suo malgrado il Congo (Zaire) in questa tempesta politica. E le passioni già ben assestate sulle “razze” bantu e nilotiche, si diffusero con una virulenza inaudita nel gigantesco Paese africano. Nel Congo del 2000, il pensiero di Gobineau fu più che mai all’ordine del giorno.

 

I tamburi del Burundi

 

Il Burundi ebbe una storia diversa da quella del Rwanda, ma venne influenzato, nelle parole e nei fatti, dal suo vicino del nord, fin dalla gestione coloniale che li aveva riuniti con il Rwanda-Urundi. La politica di mezzo secolo fu contraddistinta da un’amministrazione comune, in particolare dall’applicazione della stessa lettura razziale, inquinata dalla divisione fra hutu e tutsi. Dopo l’indipendenza, ma soprattutto dopo l’assassinio del principe ereditario Rwagasore (simpatizzante di Lumumba) che aveva saputo unificare il popolo, qualunque fosse l’appartenenza sociale o religiosa, si fece sentire l’eco della Rivoluzione sociale rwandese, focalizzato sull’antagonismo dei modelli “popolo hutu” e “feudali tutsi”, con ambizioni e paure inedite per il Burundi.

Qui, come in Rwanda, hutu e tutsi non si distinguevano né per la lingua, per la cultura, per la religione e neppure per lo stereotipo della differenza fisica. La divisione, ereditata per via patrilineare, in Burundi presentava la particolarità che l’ambiente nobile, legato alla famiglia reale, costituiva un quarto gruppo a parte, quello dei ganwa. Gli hutu occupavano posizioni molto influenti, ma soprattutto tutti quanti avevano lo stesso stile di vita, gli stessi doveri e soprattutto le stesse solidarietà (agro-pastorali, giudiziarie, militari, matrimoniali) sulle colline o fra colline adiacenti. Era l’accesso al potere reale il punto cruciale del potenziale antagonismo. Inoltre, sotto la colonizzazione, la Chiesa fu molto diversa dal vicino Rwanda. Il vescovo del Burundi non ebbe mai posizioni estremiste, come i due monsigneurs Classe e Parraudin a Kigali. Documenti del 1959, europei o burundesi, scrivevano chiaramente che il problema delle relazioni fra tutsi e hutu, come esisteva in Rwanda, non c’era in Burundi. Il problema proveniva piuttosto dagli abusi della classe dirigente, dai ganwa.

 

Bujumbura sul lago Tanganica

 

Nonostante ciò, il Burundi fu il primo esportatore dell'”ideologia rwandese”, che diventò parte della politica locale. Dopo l’indipendenza del 1962, re Mwambutsa alternò dei Primi ministri di diverse origini: un principe ganwa, poi un hutu, un tutsi e di nuovo un hutu nel gennaio 1965. Ma la Rivoluzione sociale rwandese non poté non influenzare il Burundi, soprattutto con l’arrivo di migliaia di rifugiati tutsi. L’inquietudine nell’ambiente tutsi andò parallelamente con le ambizioni politiche hutu, provocando una frattura nel partito nazionalista Uprona (Union pour le progrès national) con due tendenze divergenti, una progressista a maggioranza tutsi e l’altra pro-europea a dominanza hutu.

Si formò quindi, come in Rwanda, un’ossessione contro i “tutsi bolscevichi”, con la differenza di una dimensione internazionale. Mentre il Congo diventava un fulcro della guerra fredda, il Burundi venne visto come una base pro-cinese in appoggio ai ribelli muleisti, così CIA e servizi belgi cominciarono a interessarsene, e il fattore etnico, già ben riuscito in Rwanda, venne strumentalizzato anche in Burundi. Il leader hutu Mirerekano si fece portavoce delle tesi belgo-americane, mentre i tutsi progressisti, tennero una politica di non allineati. La mescolanza di rivalità fra fazioni, di intrighi stranieri e di inquietudine dovuto ai massacri in Rwanda, creò un’atmosfera molto pesante a Bujumbura.

Nel gennaio 1965 venne assassinato il Primo ministro da un rifugiato rwandese, in maggio le elezioni diedero una maggioranza di due terzi agli hutu, in settembre re Mwambutsa varò un governo con 7 ministri hutu su 12, presieduto da un ganwa. In ottobre un segretario di Stato hutu organizzò un putsch contro il re, costringendolo a fuggire. Il giorno seguente vennero massacrati centinaia di tutsi, che provocò un’immediata reazione di repressione anti-hutu, con migliaia di arresti e centinaia di morti. Nel novembre 1966 i promotori della repressione proclamarono la Repubblica, instaurando un “modello” inverso a quello rwandese. Il regime militare tutsi che ne seguì, durò 27 anni cambiando tre presidenti. Da quegli avvenimenti la vita politica del Burundi fu caratterizzata, come in Rwanda, da un antagonismo etnico descritto come “naturale”.

 

Re Mwambutsa

 

Fra il 1969 e 1972 le leve del potere politico, militare, amministrativo furono progressivamente controllate da una fazione estremista tutsi del sud (che ricordava, in modo speculare, gli estremisti hutu del nord in Rwanda). Si liberarono di tutta l’opposizione, dai leaders hutu ai tutsi liberali. Fu in questo contesto avvelenato che scoppiò a fine aprile 1972 la tragedia chiamata ikiza, un termine riservato a gravi crisi epidemiche o di fame. Dei gruppi armati provenienti dalla Tanzania attaccarono alcuni paesi del sud, massacrando i tutsi, perché “non erano burundesi e dovevano tornare in Egitto”. Scoppiò il panico fra i tutsi e il potere politico-militare lanciò una rappresaglia contro tutti i notabili hutu. Presero di mira funzionari, militari, commercianti, studenti. In due mesi furono uccisi circa 100.000 hutu. Una tragedia che rappresentò una pietra miliare nella storia del Burundi: l’odio etnico entrò nel cuore della società, mentre prima le differenze erano vissute in maniera molto più placata che in Rwanda. Centinaia di migliaia di rifugiati hutu fuggirono, invadendo il Rwanda e la Tanzania, vivendo un’esclusione inversamente simile ai rifugiati tutsi rwandesi e svilupparono una vera religiosità etnica sui bantu contro gli hamiti.

Tutta la popolazione divenne ostaggio di questo antagonismo, il dibattito politico e sociale si focalizzò sull’appartenenza e la nascita. Si installò nel Paese un’ossessione sulle origini e tutta la storia del Burundi venne rieditata come quella di un altro Rwanda. Una vera regressione per quel Paese, anche lui caduto nella piaga del razzismo contrapponendo “bantu” e “hamiti”. Questa ricaduta si espresse nuovamente nel 1988, con il massacro di altri tutsi da parte di hutu provenienti dal Rwanda. Nacque un partito che si ispirò alle idee estremiste del Parmehutu rwandese degli anni 1950, il Palipehutu (Parti pour la libération du peuple hutu). La descrizione caricaturale ispirata dalla storia razzista e i cliché in voga, trovarono spazio anche sui giornali internazionali. Il Washington Post nel 1988 descrisse gli hutu come bantu, piccoli di taglia e gli hutu alti di origine nilotica, Le Monde come “signori” e “schiavi”.

Tuttavia dopo la crisi del 1988 il presidente Buyoya tentò di calmare gli animi con una nuova politica, venne adottata una legislazione, approvata da referendum, dove veniva condannato ogni tipo di discriminazione. Ma la deriva etnica dopo vent’anni aveva concentrato il potere su una minoranza tutsi, per cui si temeva che tutto il malcontento nei confronti dello Stato avrebbe potuto sfociare sui tutsi, come capri espiatori del malessere. Fortunatamente una nuova generazione, cosciente dell’abisso in cui il Paese avrebbe potuto sprofondare, espresse palesemente la volontà di cercare un’unità nazionale.

 

Lago Tanganica

 

Ma la vicinanza del Rwanda si fece ancora sentire, nel 1991 bande armate attaccarono le periferie di Bujumbura, facendo strage di tutsi e di hutu che volevano una riconciliazione, considerati traditori. Le milizie provenivano tutte dal Rwanda e l’aggressione venne pubblicizzata a Kigali dal giornale estremista Kangura. Sembrò che il regime di Habyarimana, all’epoca in crisi per la nascita del multipartitismo e una guerra civile in corso, cercasse di trasferire nel Paese vicino le sue difficoltà, rianimando la violenza etnica. Fu sintomatico che contemporaneamente volontari e umanitari legati al movimento cristiano-sociale belga, vicino al regime rwandese, si interessassero al Burundi, denunciando i malesseri del Paese.

Dal 1992 ci fu un macrabo gioco di specchi fra i due Stati: la conclusione degli accordi di pace di Arusha beneficiò il Burundi con l’ascesa al potere di un presidente hutu e un parlamento a maggioranza del suo partito. Ma la tensione crebbe in funzione della non applicazione degli accordi di Arusha e l’esasperazione degli estremisti in Rwanda, fino a portare nel 1993 all’assassinio del presidente Melchior Ndadaye da parte di un tutsi, seguito da un colpo di stato. Il dramma si riflettè in Rwanda aumentando la tensione, che poi sarebbe sfociata con l’esplosione del genocidio del 1994.

Ma il Burundi merita una riflessione a parte, per chiarire la sua posizione particolare, rispetto all’ideologia delle razze di cui si sono visti gli effetti in Rwanda. Il giorno seguente all’assassinio del presidente, fu lanciata una vera caccia ai tutsi ritenuti tutti responsabili della morte del “loro presidente”, invocando un pensiero di “autodifesa” di chiaro stampo razzista, come ad esempio sulle colline sopra Bujumbura fu massacrata una famiglia tutsi dove il padre faceva l’operaio, la madre coltivava l’orto, con tre piccoli bambini. Solo un figlio di 12 anni sopravvisse dalla fossa comune dove, ferito, era stato gettato. Una situazione che si ripetè in tutto il Paese, a dimostrazione che vennero uccise persone semplici, per la sola “colpa” di appartenere a una etnia (razza) giudicata “maledetta”. C’era tutto l’aspetto genocidario, quello che il Rwanda avrebbe conosciuto sei mesi dopo. La logica razzista fu la stessa.

 

Donne twa burundesi
Donne twa in Burundi

 

E nell’aprile 1994, quando il nuovo presidente (sempre hutu) morì assieme ad Habyarimana nell’aereo abbattuto dal missile, ci si sarebbe potuto aspettare in Burundi una reazione simile a quella poi avviata in Rwanda. Ma non fu possibile che gli ideologi del massacro rwandese, avessero considerato un’estensione del progetto genocidario al Paese vicino, per cui non ci fu genocidio in Burundi nel 1994. Tre autorità si prodigarono a diffondere la calma: il presidente dell’Assemblea nazionale (diventato costituzionalmente il nuovo presidente) il ministro della Difesa e il rappresentante speciale dell’ONU, che svolse una grande opera di mediazione. La stessa sera si incontrarono tutte le autorità, sia hutu che tutsi e lanciarono un appello alla calma sulle onde radio nazionali e presso le istanze amministrative e militari. Dimostrando ancora una volta che in Rwanda il genocidio fu minuziosamente preparato e che solo un’orda di rabbia popolare non avrebbe potuto provocarlo.

Episodio significativo per ciò che successe in seguito, quando nel 2000 e nel 2003, i colloqui finirono per accordare i diversi partiti in un compromesso di pace. Il Burundi, primo esportatore dell’ideologia razzista rwandese, reso fragile dalla sua vicinanza, invaso per più di trent’anni da una deriva interna che lo aveva portato alle situazioni più estreme, ferito nella carne e nella memoria, trovò una via di uscita minimizzando il concetto “a priori” dell’ideologia hutu-tutsi nel dibattito politico interno, rivelando l’aspetto ingannevole di questa opzione ideologica.

 


Fonti:
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien et Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique