Friuli 2 – Dai Paleoveneti ai Celti

Una delle maggiori vulnerabilità strategiche del Friuli, consiste nel fatto che a est, i passaggi attraverso le Alpi Giulie sono agevoli, facilitati dalle valli formate dallo scorrere dell’Isonzo, del Natisone e del Vipacco. Fin da tempi remoti è stata la strada delle invasioni, delle migrazioni e allo stesso tempo degli apporti culturali, per l’intera penisola.

Si concorda che attorno al 1.000 a.C. (in concomitanza con la diffusione del ferro) si stabilirono nel nordest dei popoli chiamati Venetici o Paleoveneti. Attraverso la scienza chiamata linguistica, si sa che erano indoeuropei. La linguistica si basa sul fatto che una lingua non muore mai del tutto. I popoli si succedono, ma raramente si curano di cambiare i nomi dei luoghi (toponimi) o delle acque (idronomi). Artegna, Cellina, Livenza sono venetici, tutti i paesi che terminano in -acco o -icco (Jalmicco, Pagnacco) sono di origine celtica, quelli in -ano (Manzano, Marano) romani. Secondo uno storico, in Friuli ci sono circa 200 toponimi pre-romani di origine incerta. Anche l’antica abitudine contadina di dare un nome ai campi, alle sorgenti, ai boschi, ai ruscelli può fornire strumenti di studio. L’incremento di fitonimi indoeuropei, veneti, celti, istri e illirici, dimostra una rivoluzione agricola unita a scambi commerciali.

L’immigrazione Paleoveneta interessò tutto l’arco orientale delle Alpi che si stringe attorno al Friuli e al Veneto attuali. Arrivarono dall’Oriente e conclusero il loro spostamento di massa attraverso il Centro-Europa. Come altri popoli italici prima di loro, che si erano diretti verso il centro della penisola, penetrarono attraverso le Alpi Orientali e si stabilirono su tutta la parte superiore dell’Adriatico scacciando gli Euganei (T. Livio). La loro cultura (soprattutto il corredo funerario) ha lasciato tracce non solo nell’Italia nordorientale, ma anche oltralpe, nella Germania Orientale, a est nella Carniola e nell’Istria. Dopo stabilitesi, andarono sviluppando una cultura evoluta, partendo dal suo centro più vivace, Ateste (Este) che venne denominata atestina. Svilupparono l’agricoltura e i traffici fluviali, marittimi, terrestri con i vicini Oschi e gli Etruschi, ma anche con i lontani popoli greci e asiatici. Fra il 300 e il 141 a.C. subirono una forte influenza celta e successivamente romana, fu il periodo della decadenza e dell’imbastardimento, che si concluse con la perdita dell’indipendenza.

 

Resti archeologici di una necropoli atestina (Este)

 

Stranamente le tracce della cultura atestina (corredi funebri, iscrizioni venetiche, resti di agglomerati ecc.) sono apparse in tutte le zone contigue al Friuli: nel Veneto orientale, a nord in Carinzia, nella valle dell’Isonzo (Tolmino, Caporetto) sul Carso e in Istria. Nessuna traccia è stata rinvenuta nel territorio dell’attuale Friuli, come se la loro cultura si fosse arrestata ai confini. Il Friuli è in questo periodo “ciò che non è Veneto” (Giacomo Devoto). Questo non significa che non ci siano stati passaggi o contatti. Soprattutto nelle aree contigue e nel periodo di massimo splendore dei Paleoveneti, in Friuli sono stati rinvenuti diversi reperti, soprattutto funerei, influenzati dalla cultura atestina. In una necropoli presso Cividale sono stati trovati oggetti attribuibili fra il secolo X e V a.C. con generici influssi paleoveneti, anche se intrecciati a non minori presenze di culture celtiche di Hallstatt e La Téne.

Forse in quei secoli il Friuli restò zona di movimento, più che di assestamento, forse la terra non offriva condizioni favorevoli per stabilirvisi, forse le diradate popolazioni indigene dei castellieri, non si lasciarono sopraffarre dai nuovi venuti. Resta il fatto che le testimonianze mostrano un Friuli semideserto, impoverito, pur aperto agli scambi commerciali e culturali a Nord, attraverso la valle del Tagliamento con il valico di Monte Croce, il Canale del Ferro (la cui denominazione probabilmente risale all’epoca) con il valico di Coccau, e le valli del Natisone e dell’Isonzo.

 

Ipogeo celtico – Cividale del Friuli

 

Poi, verso il 400 a.C. arrivarono i Celti. I Celti erano una costellazione di tribù tenute insieme da una lingua comune, forme artigianali, strutture militari e credenze religiose che occuparono gran parte dell’Europa, dall’Irlanda alla Pianura Padana. Alessandro il Grande, nel 335 a.C. incontrò una delegazione di Celti e il cronista affermò che erano originari dell’Adriatico. Venivano chiamati Keltoi dai greci, da alcuni Galati (si tingevano i capelli di calce in combattimento e gala gàlaktos in greco significa latte, sinonimo di bianco) dai Romani Galli. Erodoto li collocò sul Danubio, ma alla prima età del ferro, seguì un’ulteriore loro migrazione, quando si stabilirono a nord delle Alpi, nella Baviera, Austria e Boemia (il Norico dei Romani) con la cultura che venne chiamata Hallstatt, dopo i ritrovamenti nella zona di Salisburgo, e si diffusero in tutta Europa.

Alcuni storici hanno definito la loro discesa in Friuli come “catastrofe”, altri una sistemazione pacifica, per cui ci resta solo il campo delle supposizioni. D’altronde esistono solo fonti romane sui Celti, giudizio per niente imparziale, perché l’arrivo dei Galli a Roma non ha certamente lasciato un buon ricordo. E’ stata sottolineata l’esiguità di parole celte nella lingua friulana, a differenza dei numerosi toponimi e idronimi. Un’ipotesi potrebbe arrivare dal fatto che i Romani generalmente si sono sempre comportati con lungimiranza nei confronti dei popoli conquistati (anche se le fonti sono esclusivamente romane), ma non fu così con i Celti, verso i quali agirono con grande violenza sradicatrice. Ciò ebbe un grande effetto, in quanto quei popoli avevano una cultura essenzialmente orale, affidata alla casta dei druidi, anche se applicarono ingegnosamente il latino alla loro lingua (c’è un’epigrafe celta del III secolo d.C. a Zuglio).

Probabilmente i Romani non dimenticarono mai il terrore del sacco di Roma nel 387 a.C. dovuto alla loro incursione e il riscatto pagato in oro. Impiegarono decenni a piegare i Celti dell’Italia Settentrionale ed erano terrorizzati dal loro modo di combattere, dalle grida di guerra e dalla “simpatica” abitudine di portarsi in combattimento le teste dei nemici imbalsamate e conservate con cura.

 

Alcuni fiumi citati

 

A differenza degli stereotipi, ultimamente gli archeologi hanno dimostrato che i Celti furono fra le civiltà più progredite del mondo antico. Oltre alle grandi capacità di combattimento, erano bravi tecnici, lavoravano il bronzo e il ferro con abilità e sensibilità artistica. Un’arte che per secoli venne considerata minore o di interesse puramente documentario, e che solo negli ultimi decenni è stata considerata fortemente espressiva e per niente inferiore, anche se diversa, da quella greca o romana.

Erano all’avanguardia nella tecnica agricola. La cultura di Hallstatt ci ha mostrato che dalle officine e dalle fonderie dei Celti (poco oltre il valico di Monte Croce Carnico, allora sconosciuto ai romani) uscivano aratri dall’aspetto e struttura rivoluzionari per l’epoca. Per i Celti alpini, gli aratri di pianura, fatti per terreni morbidi, non sarebbero riusciti a scalfire il duro terreno avvolto nel ghiaccio per lunghi mesi, così progettarono un aratro a ruota con vomere in ferro. In questo modo svilupparono un’agricoltura basata su cereali resistenti al freddo, come orzo, avena, ma anche grano. Le falci in ferro permisero raccolti rapidi e fienagioni abbondanti, così da evitare gli alpeggi e allevare il bestiame vicino ai villaggi. Lavoravano anche lo stagno (furono i primi a scoprire la stagnatura) l’argento e l’oro, ricavando oggetti d’ogni tipo.

 

Valli del Natisone

 

Il nome druido significa “sapienza della quercia” (druì-druad-dryw) in quanto i sapienti si riunivano sotto le querce per dibattiti, giudizi, divinazioni e controversie. I druidi erano anche astronomi, tanto da aver diviso il tempo con un complesso calendario composto da cicli di 5 anni solari, divisi in 62 mesi di 30 e 29 giorni. Svilupparono complessi ragionamenti culturali ed erano ossessionati dalla magia e dai riti. All’inizio della stagione calda accendevano dei fuochi dove facevano passare il bestiame per proteggerlo dalle malattie e dalle influenze malefiche. In Irlanda c’è ancora questa festa chiamata Beltine, parola nettamente celta che significa fuoco e si collega con il dio Beleno, poi romanizzato in Belenus, venerato nella Gallia sud-orientale, in Italia settentrionale e nel Norico. Ogni festa era collegata con i lavori di campagna o di pastorizia. Residui di tali tradizioni sono ancora visibili, nonostante lo sforzo d’estirpazione da parte del cristianesimo, che le ha trasformate in feste religiose. Alcune sono rimaste anche in Friuli e in Carnia, come i fuochi sulle colline la sera dell’Epifania, detti “pignarùi” o il lancio di piccoli dischi di faggio arroventato dalla cima dei monti o dalle colline, chiamate “cìdulis”.

Con la violenza o meno, quando scesero in Friuli i Celti respinsero i Paleoveneti oltre il Livenza e cominciarono ad erigere una città nella pianura. I Paleoveneti si attestarono attorno a Este e chiesero l’aiuto dell’esercito romano. Tracce della presenza celtica in Friuli si trovano in tombe tipo La Téne e le monete celte rinvenute in molte località della regione. Tralasciando vari bronzetti e ceramiche, va ricordato il suggestivo monumento di Cividale, l’Ipogeo celtico che risale a epoca preromana e destinato a scopi funerari, con i mascheroni scolpiti nella roccia che ricordano l’arte celtica della Francia meridionale. Ma anche la larghissima diffusione di iscrizioni votive ad Aquileia e nel Friuli romano, dedicate al culto del dio Beleno associato al fuoco, che divenne il protettore della città. Sembrano anche attribuibili alla popolazione preromana, la troncatura delle desinenze, la s finale nel plurale, compresa la seconda persona dei verbi e i gruppi consonantici formati da una muta più l (gl, tl, cl ecc.) tipici del friulano.

 

Monete gallo carniche trovate ad Aquileia (Collezione privata) e presso le pieve di S. Pietro di Carnia (Tolmezzo, Museo Carnico delle Arti e Tradizioni popolari)

 

La penetrazione celtica dovette avvenire per gradi, così si spiegherebbe l’attribuzione del Friuli a quel popolo, con il nome di “Carnorum Regio” da parte di storici greci e romani. Fu Strabone che li chiamò Carni e affermò che vivevano nel territorio di Aquileia con punte fino a Trieste. Plinio il Vecchio scrisse un elenco di fiumi: Tagliamento, Stella, Varmo, Ausa, Natisone, Torre per poi specificare: “questa è la terra dei Carni, confinante con i Giapidi”. Anche il geografo Tolomeo li situò fra il Tagliamento e il Natisone. Scesero dai monti, dove tutt’oggi il nome delle regioni al di qua e al di là dei confini, mantengono il prefisso celtico karn- (roccia): Carnia, Carniola in Slovenia e Kärnten (Carinzia) in Austria.

Nel 181 a.C. dopo la richiesta d’aiuto dei Paleoveneti, Roma fece entrare le sue legioni in Friuli allontanando i Carni, distrusse la città che stavano costruendo e vi eresse quel campo fortificato che successivamente diventò la città di Aquileia. Anche il finale -eia è di origine celtica (Noreia, Cereia) e potrebbe essere interpretato come “città del (fiume) Aquilis”, idronimo derivato da aqu- “oscuro” “fiume oscuro”. Per cui si presume sia stata eretta sopra uno stanziamento celtico, corroborato dal fatto che alla quota di due metri sotto i resti romani, sono stati ritrovati selciati in pietra.

Non si possiedono informazioni sul grado di organizzazione sociale e politica raggiunto dai Gallo-Carni in epoca preromana o se esistesse un luogo accentrato di potere. Un’ipotesi potrebbe venire dalla scelta e dal nome del foro alpino romano denominato Iulium Carnicum (Zuglio) quasi ad attestare la continuità di una precedente struttura amministrativa indigena. Infatti scavi archeologici hanno rivelato manufatti preromani e lo stesso tempio, dedicato al dio Belenus, posa su un edificio preromano. Il ruolo di struttura centralizzata di Zuglio in epoca preromana, sembra sottolineato anche dal cospiquo numero di monete gallo-carniche rinvenute, tanto da far pensare all’esistenza di una zecca locale. Secondo Livio i Carni mantennero stretti legami con i consanguinei Celti transalpini, come i Norici, gli Istri, i Giapidi e i Catubrini dell’alto Piave. Ma intrecciarono rapporti anche con i Paleoveneti e i Romani già prima del II secolo a.C. come confermano i corredi delle tombe, dove sulla dominante celtica, si trovano influenze venete e latine.

 

Insediamenti dei Paleoveneti e dei Carni in epoca preromana

 

Nonostante sia stato scritto che i Romani intervennero chiamati dai Paleoveneti, nessun popolo impiega una grossa forza militare per andare in aiuto a dei “vicini” senza una contropartita. I Romani, che erano pragmatici, avevano soprattutto degli interessi strategici, ovvero rendere sicura la colonizzazione della val Padana, dopo aver sconfitto i Galli e occupato la loro capitale Mediolanum (222 a.C.). Quindi vollero rinforzare i passi e i valici solitamente percorsi dai popoli che entravano in Italia, e capirono per primi il significato strategico nel possesso del Friuli (in seguito lo capirono anche gli imperatori tedeschi e i veneziani). Sempre secondo Livio, i Carni si ritirarono sui monti senza combattere, dopo che il Senato di Roma rivendicò (non si sa a quale titolo…) il possesso della pianura friulana. Se si fossero ritirati in pace o meno, non è sicuro, ma certamente difesero con i denti i canali (in Carnia le valli si chiamano canali) delle loro montagne, quando i Romani avanzarono con il consueto sistema di strade e punti fortificati in posti chiave, fino al passo di Monte Croce Carnico.

In seguito da lì altre legioni scesero nel Norico, passarono la Drava, fortificarono Emona (Lubiana) raggiungendo il Danubio. I Carni sconfitti si fusero con altri popoli, ma lasciarono un segno indelebile nel carattere del popolo che si sarebbe formato. Lo strato gallico che sta alla base della parlata friulana, con la struttura neolatina, è rimasto uno degli elementi costitutivi della lingua e della cultura in Friuli. Non è stato l’unico, forse neppure il primo, ma sarebbe riaffiorato con forza alla caduta di Roma e avrebbe contribuito a formare il popolo friulano. Si aggiunge un’altra considerazione: il netto distacco fra l’area veneta da quella friulana, determinato dal fiume Livenza, un confine dal punto di vista naturale praticamente inesistente, può essere spiegato solo su basi culturali, consolidatesi già nel periodo preromano.

 

Fonti:

Gian Carlo Menis: Storia del Friuli
Gianfranco Ellero: Storia dei friulani
Tito Maniacco: Storia del Friuli
Tito Maniacco: I senzastoria

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