La fuga

Giorni fa mi è stato chiesto di raccontare un'avventura. Questa non ci stava in un post, per cui ne ho scritto un articolo. Non è stata l'unica (fuori dall'Europa, ogni imprevisto diventa una peripezia) ma la più "apprensiva" non per i fatti, ma dovuta al Paese in cui si è svolta.

 

In Arabia Saudita ci sono arrivato giovanissimo (avevo 22 anni) quando a Jeddah non esisteva il nome delle vie, si usava il P.O. Box (cassetta postale) il telex, le strade non erano asfaltate e non c’erano i grandi grattacieli, che ora ne fanno una delle città più moderne del Paese. All’epoca il lavoro per il quale fui assunto da un’impresa italiana, come giovane tecnico inesperto, era importante: una strada di 180 km. Stavamo nel nord, in pieno deserto, nel Nafud, presso il confine giordano (per “presso”, da quelle parti si intende un centinaio di km).

Strada verso Amman
La strada verso Amman

 

Poi un giorno l’impresa crollò e chiuse. (Se oggi ci si scandalizza perché un licenziamento viene comunicato tramite WhatsApp, lì non ci venne comunicato nulla) abbandonando una sessantina di italiani, un centinaio di thailandesi e molti arabi (yemeniti, libanesi, pakistani e altri) in un campo nel mezzo del deserto. Stavamo già in ansia per gli arretrati dello stipendio, poi l’ultimo responsabile amministrativo (al corrente del disastro) ci diede la conferma, quando scappò di notte con tutti i soldi della cassa, lasciandoci praticamente senza cibo, acqua e soldi.

Naturalmente contattammo subito l’ambasciata italiana e quella thailandese (gli arabi si erano già dileguati) le quali mandarono i loro rappresentanti. Nel nostro caso arrivò il segretario dell’ambasciata, che provvide ad inviarci una somma in denaro per acquistare acqua e cibo. Mentre il funzionario dell’ambasciata thailandese disse che non poteva fare nulla, perché non avevano soldi. (Comunque gli operai thailandesi mangiarono alla nostra mensa)

Deserto del Nafud
Deserto del Nafud

 

Allo stesso tempo la situazione era precipitata e le autorità saudite avevano messo sotto sequestro tutto il cantiere, compreso macchinari e mezzi, innalzato una guardiola con la sbarra all’ingresso del campo e guardie armate a cui dovevamo giustificare ogni spostamento in uscita. In pratica eravamo un po’ ostaggi in attesa di sviluppi. Nel campo, oltre agli operai, c’eravamo rimasti un giovane collega contabile e io, entrambi inesperti tecnici, a prendersi le responsabilità (tutti i capi erano andati in “ferie” e poi scomparsi). Contemporaneamente, avendo ormai libero accesso agli uffici per recuperare soprattutto i passaporti, ci accorgemmo che per entrambi il visto di lavoro era scaduto, nessuno l’aveva rinnovato, eravamo in pratica dei clandestini in Arabia Saudita e lì la cosa diventava grave.

Nel frattempo il segretario della nostra ambasciata ci consigliò di imbarcare all’aeroporto (che distava un centinaio di km) due o tre persone alla volta per non dare nell’occhio (visto la diffidenza che ormai si era insidiata da parte dei sauditi) e farle arrivare a Jeddah per il rimpatrio. Così, con il collega amministrativo, cominciammo a organizzare i viaggi. La cosa paradossale fu che mentre si cercava di rimpatriare gli italiani senza tanto rumore, l’impresa rimandava indietro coloro che erano partiti in ferie. E qui il funzionario dell’ambasciata si infuriò, fece rapporto al ministero degli esteri, il quale inviò una diffida ufficiale alla società, imponendole di non inviare ulteriore personale in loco.

Ma restava in sospeso il nostro caso, perché negli aeroporti sauditi veniva richiesto biglietto e passaporto anche sui voli interni e rischiavamo l’arresto… in un carcere saudita. Non potevamo imbarcarci, così ci organizzammo per la fuga in macchina. Nel campo restavano ancora diversi italiani, ma c’erano anche tutti i thailandesi abbandonati a sé stessi, ai quali, con gli ultimi soldi rimasti della nostra ambasciata, gli fu lasciato un camion di riso, polli e acqua. (Negli anni seguenti ebbi notizie, e mi fece piacere sapere che tutti se l’erano cavata e avevano trovato un altro lavoro).

Per evacuare gli italiani rimasti c’era un arabo locale di fiducia a cui affidare le pratiche, così, in un attimo di follia ed incoscienza giovanile, ci appropriammo di una delle Toyota (era tutto sotto sequestro, quindi l’abbiamo rubata, nel Paese della Sharia…) mimetizzammo i bagagli e nel cuore della notte uscimmo dal campo, dichiarando alle guardie insonnolite all’ingresso che dovevamo telefonare in Italia con urgenza.

Fra i tre percorsi, scegliemmo quello più a ovest (perché ricordo il mare)
Fra i tre percorsi, percorremmo quello segnato in grigio più a ovest (ricordo il mare) perché non volevamo passare da Medina.

 

Qui cominciò l’avventura verso Jeddah, Circa 1.400 km quasi tutto deserto. Fu un lungo viaggio, anche perché nella maggior parte dei Paesi arabi ci sono diversi posti di blocco, e l’Arabia Saudita non fa eccezione, mentre noi guidavamo un’automobile rubata con le insegne di una società sotto sequestro. Ad ogni blocco, contando le automobili che venivano fermate e i tempi, infilandoci in mezzo, riuscimmo a passarli tutti senza controllo (non so come, ma ci siamo riusciti) nonostante l’ansia, la stanchezza e il sonno. Ma pure la paura perché ci si rendeva conto del rischio che stavamo correndo. Nonostante ciò, abbiamo attraversato metà dell’Arabia Saudita da nord a sud e durante quel viaggio, probabilmente per allontanare tutti gli avvenimenti, perché la tensione era alta, mi sono innamorato del deserto che stavamo attraversando con i suoi splendidi paesaggi. (Diversi anni dopo, in Yemen ho avuto le stesse sensazioni nei confronti del Rub’ al Khali).

Arrivammo a Jeddah infilandoci subito dentro l’Ambasciata italiana, dove ci siamo presi una notevole ramanzina dal segretario (ignaro della nostra iniziativa) il quale ordinò immediatamente che la macchina fosse riportata indietro. Poi restammo ospiti nell’Ambasciata, sempre a causa della mancanza di visto, perché l’ambasciatore era in Italia e solo lui avrebbe potuto risolvere l’inghippo presso le autorità locali. E dato che su, al campo c’erano ancora italiani da rimpatriare, ci venne chiesto di dare una mano. Ovvero prenotare i voli, comprare i biglietti presso Alitalia, accoglierli e “spedirli” in Italia.

E finalmente iniziò il bello di tutta la storia perché ci serviva una macchina e l’unica disponibile era quella dell’ambasciatore assente: una Fiat 130 con le bandierine italiane ai lati, guidata da un autista somalo. Le prenotazioni, i voli e il resto non richiedevano molto tempo, così facemmo diverse gite per conoscere la città, con la complicità del conducente. Qualche giorno a scorrazzare in giro per Jeddah sull’ammiraglia dell’ambasciatore (ricordo ancora l’orgoglio e la fierezza) ed eravamo in piena confidenza con l’autista, il quale, dopo che l’abbiamo messo al corrente dei nostri problemi di visto, ovvero di clandestinità, ci disse semplicemente che sua sorella aveva sposato un saudita che lavorava all’ufficio visti e avrebbe potuto risolvere il problema.

Così fu, per il concetto che ogni mondo è paese (anche dove non te lo aspetti).

Terminato gli ultimi rimpatri, dopo una settimana di vacanza a spese dello Stato italiano, eravamo a casa.

Jeddah, oggi
Jeddah, oggi

 

Ma non finì qui: prima della fuga, con il collega ragioniere avevamo fatto il conteggio delle buste paga non riscosse di tutti gli italiani e di tutti i thailandesi. Le abbiamo riunite in un faldone che (senza speranza) è stato lasciato in mezzo al tavolo dell’ufficio amministrativo. Diversi anni dopo mi sono visto recapitare a casa un assegno con tutto il montante dei miei stipendi non percepiti da parte del ministero lavori pubblici saudita che, tramite l’ambasciata italiana, aveva trasmesso al nostro ministero degli esteri.

P.S. Nonostante i continui pianti e lamenti dei miei compatrioti nei confronti dello Stato italiano, all’epoca la nostra ambasciata mi ha riportato a casa e con me le altre decine di connazionali. E non tutti gli Stati lo fanno.