Anatomia di un genocidio 4 – La Rivoluzione sociale

Attorno agli anni ’50 un’ondata di indipendentismo pervase l’Asia e l’Africa, e nei popoli colonizzati la prospettiva di emancipazione fece nascere la coscienza della propria identità. Tale identità in Rwanda si espresse in maniera molto contradditoria. La prospettiva dell’abolizione della Tutela, mise faccia a faccia due concezioni diverse di identità rwandesi e due modi per affermarle. La rivendicazione di emancipazione nei confronti della colonizzazione europea, venne accompagnata da una rivoluzione chiamata “sociale”, seguita dopo dieci anni da un’ulteriore cambiamento detto “rivoluzione morale”. Tutte le peripezie politiche si inserirono nel quadro dell’ideologia forgiata nel corso del mezzo secolo precedente. Il concetto della colonizzazione hamita su un popolo bantu, non rimase più solo un dibattito fra intellettuali, così la rinascita delle problematiche razziali, nel momento in cui cominciò il processo di ascesa al potere, condusse il Paese a sviluppare una via di decolonizzazione singolare.

All’alba della decolonizzazione, un sondaggio sul reddito familiare nell’intero Rwanda, constatò che, sull’insieme della società rurale, non c’era praticamente differenza fra la media del reddito delle famiglie hutu e quelle tutsi (allora il 18% della popolazione). Di fatto l’élite dirigenziale si limitava a quella uscita dalla scuola di Astrida o dai seminari. Questa, che faceva parte dell’amministrazione “indiretta”, pensò fosse giunto il momento di riprendersi le “chiavi di casa”. Il Consiglio Superiore del Paese, organo con a capo il mwami Mutara III Rudahigwa, compilò un elenco di richieste per lo sviluppo futuro del Rwanda indipendente. Pensava che dopo la parentesi coloniale, le strutture politico-amministrative sarebbero ripartite come prima.

Contemporaneamente un’altra élite, più popolare, voleva essere designata a guidare il paese post-coloniale. Così l’antica aristocrazia tutsi, appoggiata dagli amministratori e dai dirigenti, si vide fronteggiare da una contro-élite hutu di insegnanti, preti, infermieri, agronomi, con l’appoggio di artigiani, commercianti, camionisti. Il 24 marzo 1957 nove intellettuali hutu, aiutati dai padri bianchi, fecero pervenire al vicegovernatore la “Note sur l’aspect social du probléme racial indigéne au Rwanda“. Fra i firmatari Grégoire Kayibanda, caporedattore del giornale cattolico Kinyamateka (futuro primo Presidente del Rwanda) e Calliope Mulindahabi, segretario del vescovo (futuro ministro della Difesa).

 

Grégoire Kayibanda

 

Il documento, diffuso successivamente come “Manifeste des Bahutu“, scriveva che gli hutu erano vittime di discriminazione, affermava che un’élite non poteva far progredire una massa se non usciva dalla massa stessa, che i tutsi erano stranieri quanto gli europei, denunciando una colonizzazione su due piani: gli hutu dovevano sopportare contemporaneamente la dominazione hamita e le leggi degli europei che passavano attraverso i tutsi. Accusava i tutsi di fare da schermo fra loro e i bianchi, denunciava il rischio che alla partenza dei bianchi potessero trovarsi ridotti a una servitù peggiore dai tutsi. Inoltre che il problema non era una semplice disuguaglianza sociale, un problema fra ricchi e poveri, uno squilibrio fra governanti e governati, ma un antagonismo fra due razze biologicamente diverse. Gli incroci etnici dovevano essere evitati anche tramite procedure mediche.

Seguiva una richiesta per l’accesso al credito, alla scuola, al riconoscimento legale della proprietà, alla libertà di espressione, mettendo le basi su un razzismo istituzionalizzato, fondato sul numero (maggioranza verso minoranza) e le origini (autoctoni verso invasori). Per i militanti della causa hutu, tutti i tutsi erano coloni di origine hamita, per cui il documento dichiarava come premessa lo smantellamento di tale colonizzazione, prima della partenza degli europei. Il termine hamita appariva dodici volte nel testo e si trovavano già concepiti i concetti di “figli degli agricoltori” (Benesebahinzi) e “popolo maggioritario (Rubanda nyamwinshi) che si sarebbero ritrovati nel 1994. Infine, per proteggere il popolo “naturale”, sosteneva le due misure chiave, che successivamente avrebbero guidato la politica di giustizia sociale fino al 1990: il riferimento etnico nelle carte d’identità e il sistema delle quote.

Nell’agosto del 1957 un articolo del Kinyamateka sottolineò la ripartizione etnica fra aborigeni twa, invasori tutsi e “maggioranza” hutu, denunciando chi falsificava le carte d’identità e chi frequentava troppo i tutsi. Nello stesso anno, dal manifesto degli hutu nacque l’Aprosoma (Association pour la promotion de la masse) e nel 1959 il Parmehutu (Parti du mouvement de l’émancipation des hutu). Contemporaneamente il “Manifeste des Bahutu” venne discusso all’interno del Consiglio Superiore del Paese, dove parteciparono rappresentanti hutu, delegati bianchi dell’amministrazione tutelare e della chiesa cattolica. Un’iniziativa coraggiosa, ma delicata, dove per la prima volta i rwandesi si incontrarono assieme per parlare della loro identità.

 

Coltivazioni sulle pendici delle colline

 

Ma il mese successivo, un documento rappresentante la tradizione tutsi, accese la miccia e provocò, simmetricamente, altrettanto clamore che il manifesto degli hutu. Il documento scriveva che i rapporti fra hutu e tutsi erano fondati sulla servitù, per cui non esisteva alcun fondamento di amicizia. Poi, riferendosi ad una mitologica storia di conquista del paese e sottomissione degli hutu, rifutava ogni possibile disponibilità e che lo Stato rwandese, in quanto nazione, era stato fondato dai tutsi. Un testo provocatorio che, come quello del Manifeste des Bahutu, era impregnato della mitologia razziale sulle origini.

Stranamente non venne criticato dal re, il quale affermò che hutu e tutsi fossero un’eredità in via di estinzione e che secoli di convivenza, matrimoni e alleanze avevano cancellato differenze fisiche e morali e non poteva esserci un problema hutu, ma solo un problema di povertà nelle masse. A coloro che obiettarono per il disequilibrio nelle scuole, rispose che hutu e tutsi si trovavano assieme negli stessi clan e che con la sfida del progresso, non si dovevano più fare distinzioni, proponendo anche di togliere dalle carte d’identità l’appellattivo etnico. Una cosa inaccettabile dai leaders hutu, che fondavano la loro identità su uno stato di razza-vittima. Il re mise fine al dibattito negando ogni problema e minacciando coloro che lo ponevano, quando lo stesso governatore affermò in un discorso che in Rwanda c’era un problema hutu-tutsi. Indirettamente il pensiero del mwami confermò la supremazia tutsi e in questo modo si consumò la rottura fra il sovrano e i vertici hutu. Anche se allo stesso tempo abolì il buletwa, le culture obbligatorie e si prodigò in altre riforme, che i belgi fecero apparire come proprie.

Nel 1959 nacque l’UNAR, (Union Nationale Rwandese) un partito ispirato dallo stesso re, che simpatizzava per l’MNC di Patrice Lumumba e per questo inviso dai belgi, ma soprattutto dalla chiesa cattolica. Rappresentò anche la perdita di neutralità della monarchia, con la rottura fra questa e il suo popolo. Di fatto le élites rwandesi dell’epoca, sia hutu che tutsi, non sfuggirono alla trappola razziale, che anzi contribuirono a diffondere con la loro ostinazione, nonostante il pericolo nascosto in un simile confronto. Purtroppo nel contesto del Rwanda coloniale non sarebbe stato facile sfuggire a tale trappola.

 

Re Jean-Baptiste Kigeli V Ndahindurwa

 

La Chiesa ebbe un ruolo importante sugli avvenimenti, e dopo 10 anni, da quando aveva scelto i tutsi per evangelizzare il Rwanda, fece una nuova svolta. La chiesa cattolica contava circa un milione di fedeli sparsi nel Paese su 65 missioni e si occupava dell’educazione giovanile, gestendo una rete di scuole primarie e di strutture pedagogiche. Una funzione che le conferiva potere sui giovani e le loro famiglie. Le missioni erano centri pastorali, ma anche poli che oltre alla salute delle anime si occupavano degli indigeni in maniera più concreta, possedendo ambulatori, magazzini, e terre coltivate. I padri bianchi legarono sia con le autorità locali, che tutte le altre categorie popolari rwandesi, data la loro conoscenza della lingua e dei loro costumi. Inoltre la Chiesa aveva un potere d’influenza considerevole nei confronti delle élite letterate, alle quali si indirizzava attraverso un giornale, il Kinyamateka (Novelliere) il solo periodico in lingua rwandese e unico vettore del dibattito politico. In quegli anni rimise in discussione i suoi rapporti fra il potere centrale e la popolazione, riscoprendo la sua missione primaria, ma anche per non essere confusa con l’amministrazione coloniale, cominciò a mettere l’accento sulla giustizia sociale.

Sul Kinyamateka da vent’anni si potevano trovare la via dei santi, ma altrettanto regole per prevenire malattie o spiegazioni sulle norme amministrative, poi improvvisamente nel 1957 diventò un elenco di lamentele regolarmente aggiornato. Lamentele rivolte non verso la tutela coloniale, ma contro le autorità indigene, con articoli che riducevano la storia del Paese in una storia di conquiste, riportando la colonizzazione tutsi e il modello storiografico coloniale. La chiesa cattolica non solo offrì uno spazio di comunicazione, ma fece proprie le tesi socio-razziali e le divulgò come un atto di fede nel gioco politico locale.

I missionari belgi parteciparono alla crescita del partito estremista Parmehutu e misero in contatto i leaders hutu con il Partito Cristiano Sociale in Europa che, attraverso una garanzia morale e ideologica, elevò il movimento hutu al livello di un opera dell’Azione cattolica. D’altronde tutta la vita di Grégoire Kayibanda si era svolta all’interno della chiesa cattolica e non dissimulò mai la sua visione razziale ai partner europei cristiano-sociali. Nel 1959 uscì un articolo su un organo dell’Azione cattolica che, per descrivere le discriminazioni del paese, riprese tutta la formulazione razzista del problema, compreso la teoria della razza hamita (quindici anni dopo Auschwitz).

 

Ricostruzione del palazzo reale dei mwami a Nyanza

 

La posizione della Chiesa fu evidente quando nel 1962, il vicario apostolico Monsignor Classe scrisse che in Rwanda esistevano delle “razze” nettamente distinte alla base delle diferenze sociali, demonizzando in modo viscerale l’UNAR, denunciando che dietro il suo patriottismo si celava un nazional-socialismo con tendenze islamiche e comuniste, e allo stesso tempo criticò il partito Aprosoma, rivale di Kayibanda, definendolo con un’anima “razzista” dallo spirito poco cristiano. In realtà il sorprendente racconto che proiettò la sua ossessione anticomunista contro una categoria sociale considerata feudale, voleva solo nascondere il suo appoggio al Parmehutu e a Kayibanda, del quale conosceva la crociata anti-tutsi, facendolo così sembrare un garante delle tesi esposte nel Manifeste des Bahutu.

Non tutti furono presi dalla frenesia razziale, alcuni padri bianchi distinsero nettamente la critica sociale dal razzismo globale anti-tutsi, ma si dovette attendere il 1984 perché l’anziano governatore ammettesse la sproporzione del conflitto, dove due milioni di hutu contro non più di diecimila dirigenti e capi tutsi realmente dominanti e oppressori, si ritenevano “vittime”. Mentre altre centinaia di migliaia di tutsi non avevano privilegi da difendere, in quanto poveri e spesso estremamente poveri.

il 25 giugno 1959 morì re Mutara III Rudahigwa e il gruppo più tradizionalista della corte, nominò il fratello Jean-Baptiste Kigeli V Ndahindurwa suo successore, senza consultare i belgi. Kigeli V rappresentava una corrente reazionaria, desiderosa di sbarazzarsi dei belgi, quando in quel momento la corte avrebbe dovuto eleggere un re moderato e carismatico, capace di applicare le riforme sociali in grado di calmare gli animi dal suo lato e quello dei contestatori dall’altro. Così la cecità dell’aristocrazia, oltre ad essersi precedentemente allontanata dal popolo, si allontanò anche dai belgi.

 

Le vacche reali

 

Mentre fino allora l’etnicismo pre-esistente si poteva descrivere come una barriera immaginaria segmentata in tre entità, presentate come omogenee e definite “caste” “razze” o etnie”, dal 1959, sotto l’impulso del Parmehutu, queste frontiere immaginarie presero connotati sempre più concreti sotto l’effetto della propaganda, che invocava allo stesso modo la giustizia sociale e l’identificazione “della razza”. Alla vigilia di Ognissanti del 1959 lo schema razziale non aveva ancora raggiunto tutta la popolazione, ma quel giorno aprì una sanguinosa ricomposizione politica, quando i militanti del Parmehutu, battezzato dalla chiesa cattolica, misero a ferro e fuoco il Paese, bruciando migliaia di capanne e uccidendo centinaia di tutsi, senza distinzioni, fossero ricchi o poveri.

Nonostante dai vertici fosse stata fatta passare come un’insurrezione spontanea popolare, in realtà fu un’operazione programmata e coordinata dal partito di Kayibanda. Venne recentemente scritto da padre Leon Saur che Kayibanda e i suoi luogotenenti trasformarono una lotta sociale in una guerra etnica per impadronirsi del potere. Quella che avrebbe potuto essere una vera lotta dei poveri contro i ricchi, la tramutarono in una opposizione fraticida fra hutu e tutsi. In definitiva fecero una rivoluzione etnica da quella che poteva essere una vera Rivoluzione sociale.

 

Paesaggi rwandesi

 

Dal Congo vennero inviati paracadutisti belgi al comando del colonnello Guy Logiest, estimatore dell’apartheid, nominato Residente speciale di Kigali con pieni poteri. Inesperto dell’Africa, tutto ciò che conosceva del Rwanda lo aveva letto nel libro di padre Pagés: “Un royaume hamite au centre de l’Afrique” del 1930 e prese subito le parti degli hutu. I vertici vennnero “disgregati” rimpiazzando la metà dei capi e 300 vicecapi su 500, con capi e borgomastri hutu e grazie a ciò, le elezioni comunali del giugno 1960 assegnarono una travolgente maggioranza al Parmehutu.

Venne subito formato un governo autonomo belgo-rwandese presieduto da Grégoire Kaybanda, mentre l’ONU lasciò fare. Kayibanda, consigliato dai cristiano-sociali belgi e sostenuto dal colonello Logies, organizzò un colpo di stato e il 28 gennaio 1961 fu proclamata la Repubblica. Il mwami fuggì a Leopoldville (Kigeli V morì a Washington nel 2016, lasciando la corona al nipote Yuhi VI) e le elezioni legislative di settembre confermarono il cambiamento di regime a vantaggio del Parmehutu e di Kayibanda, diventato presidente della Repubblica, ancor prima della proclamazione di indipendenza. L’orientamento razzista del Parmehuto, invitò subito i tutsi a tornare in Abissinia e restituire il Paese ai suoi proprietari.

 

Gishwati-Mukura National Park

 

Il paradosso della Rivoluzione sociale rwandese, tanto vantata in Europa sia da destra che da sinistra, fu quello di consolidare le realtà “etniche” basate sull’ordine razziale degli anni ’30, invertendo i loro valori invece che abolirli, trattando suoi cittadini come “hamiti”, debitamente registrati sui documenti di identità. Da “preferiti” dei colonizzatori, i tutsi divennero da un giorno all’altro semplicemente tollerati nel loro stesso Paese. Inoltre centocinquantamila di loro dovettero fuggire negli Stati limitrofi, raggiunti da altre ondate nel 1964 e nel 1973, che alla fine degli anni ’80 contavano circa settecentomila profughi. Una diaspora che rappresentò i primi rifugiati africani, ma la loro sorte rimase repressa per 30anni. Descritti dalla propaganda di Kigali con il nomigliolo di “cliché feudali”, i tutsi diventarono capri espiatori per tutti i peggiori ricordi del passato, inclusa l’oppressione coloniale. Quelli rimasti in Rwanda vennero trattati con sospetto a priori, costretti alla discrezione sulla loro sorte. Durante tutta una generazione, qualunque vessazione a loro carico fu gestita come risentimento popolare e alcun omicidio venne punito. La decolonizzazione in Rwanda venne quindi accompagnata dalla rottura sociale del Paese.

 


Fonti:
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien et Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique
Université Nationale du Rwanda: Histoire du Rwanda – Des origines a la fin du XX siecle