Anatomia di un genocidio 3 – L’imposizione coloniale

Negli anni 1925 e 1926 il potere coloniale sconvolse tutto il sistema tradizionale rwandese. Venne epurata la precedente gerarchia di capi e sottocapi, per poter disporre di persone affidabili e il reclutamento fu successivamente uniformato su una scelta etnica. Nel 1959, 43 capi su 45 e 549 sottocapi su 559 erano tutsi. Il primato politico di poche grandi casate tutsi precoloniali, fece posto a un privilegio riservato alla totalità dei tutsi, considerati come i meglio dotati. Le dinnastie hutu che nel XIX secolo accedevano a posizioni di responsabilità o dirigenziali, vennero completamente escluse. I bianchi dominavano il Paese, ma l’ingranaggio dell’amministrazione indiretta venne affidata ai tutsi. I giovani tutsi ereditarono i vantaggi dell’aristocrazia tradizionale in funzione dell’insegnamento ricevuto, e furono scelti secondo il volere della Chiesa. Ad Astrida venne fondato un Gruppo scolastico per la formazione dei futuri quadri africani, nell’ambito della colonizzazione di Territorio su mandato, con specializzazioni in veterinaria, agronomia, medicale e la più importante quella amministrativa.

I numeri delle ammissioni scolastiche del 1946 (per l’insieme di Rwanda-Urundi) furono di 44 tutsi contro 1 hutu rwandese e 8 hutu burundesi. Nel 1954 le cifre furono 63, 3 e 16, evidenziando quanto la discriminazione in Rwanda fosse particolarmente marcata. Agli studenti usciti da questa scuola veniva data una casa in mattoni, avevano un posto riservato in chiesa e venivano soprannominati indatwa, “coloro che lodiamo”. L’elitarismo di questi nuovi dirigenti, contrassegnato dal sigillo della modernità urbana in stile europeo, non poteva non rafforzare il pregiudizio etnico, con la vanità dal lato tutsi e la frustrazione della gioventù hutu. Questa disuguaglianza venne avviata senza pudore dal potere coloniale.

 

Il Gruppo Scolastico di Astrida, 1950

 

Nel 1931 il mwami Yuhi V Musinga venne deposto da Monsignor Classe, Vicario del Rwanda, e sostituito con il giovane figlio Mutara III Rudahigwa, al quale aveva dato segretamente un’istruzione cattolica. Nel 1943 il nuovo mwami venne battezzato con il nome di Charles Léon Pierre (Charles come il re, Léon come lo stesso monsigneur Classe, Pierre come il governatore Ryckmans) e paragonato a un nuovo Costantino, che aveva consacrato il Paese al Cristo-Re. Regnò sul Rwanda fino alla morte, nel 1959. Il padre Yuhi V non si era mai voluto convertire, oltre al rifiuto di farsi battezzare, fu sempre contrario al cristianesimo. Inoltre nutriva ostilità contro missionari e belgi, in quanto si intromisero nelle faccende interne del regno, togliendogli diversi poteri, a differenza dei tedeschi.

Nel frattempo la discriminazione continuò quotidianamente sulle colline, dove l’amministrazione, ma anche i missionari,  arruolavano gli hutu per i lavori manuali con metodi discutibili, seguendo quello che la tradizione chiamava buletwa, gli arruolamenti forzati. I primi censimenti riguardanti la mano d’opera indigena (MOI) distinsero chiaramente i tutsi dagli hutu. Il delegato belga di Nyanza suppose che i tutsi non dovevano essere considerati MOI e quello di Gatsibu propose una tabella dove contare i tutsi come “mano d’opera non utilizzabile”. Gli onori, i vantaggi e le esenzioni da un lato con le discriminazioni, le esclusioni e le sanzioni dall’altro avevano creato una situazione perversa. Il rapporto di sfruttamento subìto da parte dei colonizzatori, era radoppiato ai danni degli hutu, ma la logica colonizzatrice si nascose dietro un mantello, dato che i capi che riscuotevano le imposte o infliggevano punizioni corporali erano tutsi.

 

Re Mutara III Rudahigwa (Charles Léon Pierre)

 

Nel novembre 1925 l’ufficio del governatore di Usumbura (l’attuale Bujumbura) si interrogò sul miglior modo per controllare la popolazione. Dapprima pensò alle impronte digitali, metodo già rodato nelle Indie britanniche dalla fine del XIX secolo. Non fu escluso di dotare tutti gli indigeni di un bracciale metallico di identificazione, ma secondo il rapporto, l’obiezione consistette nel poter riconoscere i neri, tanto si assomigliavano tutti (osservazione che svela la natura di come venivano guardati gli africani dagli europei, oltre a comprendere il piacere dei commenti superficiali e offensivi nei loro confronti).

Nel 1927 la Residenza di Kigali chiese al governatore l’invio di 1.500 libretti di identità, simili a quelli usati in Congo, che vennero spediti da Leopoldville e contemporaneamente un direttore postale obiettò che non stava da nessuna parte una legge o un qualsiasi testo, dove diceva che i rwandesi dovevano essere muniti di un documento di identità. Lo stesso, dalla fine 1927 si instaurò la pratica di identificare i rwandesi. Sulle prime carte d’identità adattate da quelle congolesi, l’etnia (tutsi, hutu o twa) veniva riportata, poi nel 1950 le nuove carte furono stampate in base ai requisiti razziali rwandesi, da scegliere obbligatoriamente al rilascio. Il processo di identificazione si svolse parallelamente alla riforma amministrativa e alla costruzione di una gerarchia sociale intesa sulla divisione razziale. Il paesaggio umano del Rwanda, iniziato con la fascinazione di una nuova Etiopia e aristocratici dipinti di bianco, prese la strada di un’altra Africa del Sud, quella dell’apartheid.

 

Documento di identità contrassegnato con l’etnia

 

Ci furono studi, con metodologie alquanto discutibili, atti a confermare la differenza etnico-razziale dei tre gruppi che componevano la società rwandese, dando sempre per assodata la visione iniziale, con gran confusione fra la parte concernente l’eredità della società storica tradizionale, da quella della costruzione ideologica e politica in opera nel Paese, durante il mezzo secolo di dominazione europea. Nel 1954 Jacques J. Maquet (ricercatore dell’IRSAC, Institut pour la Recherche scientifique en Afrique centrale di Astrida) pubblicò a Londra la tesi: “Le systéme des relacions sociales dans le Rwanda ancien” che nel suo titolo inglese: “The premise of inequality“, rifletteva il contenuto essenziale: la premessa della disuguaglianza fra tutsi e hutu. Il libro fu assiduamente citato e utilizzato come referenza base della società rwandese (l’ultima riedizione è del 2018).

La “premessa” in oggetto voleva dare una risposta logica sulla feticizzazione dell’apparenza fisica, sulla convinzione di una superiorità innata, sulla salvaguardia di un modello di vita agiato e sul paternalismo nei confronti degli hutu da parte di un potere conservatore. Presentò il sistema gerarchico del Paese in termini di caste, più che feudale e si chiese se l’ideologia delle caste fosse presente prima che i tutsi invadessero il Rwanda o riflettesse la loro conquista (considerandola come evidenza storica) aggiungendo che “la teoria razzista è la sola compatibile con la struttura delle caste”. In questo modo la sua teorizzazione sul funzionamento della società rwandese, riprese e approvò la lettura razziale sviluppata dal pensiero coloniale. In un intervista Maquet dichiarò: “l’interesse dell’antropologia è dovuto all’eterogeneità razziale del Rwanda e anche al dovere di civiltà degli occidentali”. Così tutta la montatura dell’ideologia hamita elaborata da un secolo, venne a trovarsi giustificata scientificamente e la premessa di disuguaglianza, con il suo profumo di immortalità, si appoggiò su un’ipotesi storica, concepita alla luce di una convinzione razziale.

In pratica, la visione aperta dall’immaginazione di John Speke un secolo prima, si era rinchiusa in un ufficio di antropologia dell’IRSAC.

 

 

Il geografo Pierre Gourou al contrario, rimase con i piedi per terra, fuori dalla visione razziale, prendendo in considerazione il legame fra la densità di popolazione e il potere fortemente centralizzato al fine di difendersi da aggressioni esterne, come quelle che avevano colpito il bacino del Congo e l’est africano nel XIX secolo.

Degli stessi anni va citato l’abate Alexis Kagame, poeta, filosofo, storico, professore universitario rwandese di fama internazionale, che diede un grande contributo sulle tradizioni orali e sui miti del suo Paese, ma anche lui nella sua opera sulla storia del Rwanda, riprese la visione dei pregiudizi razziali e tradusse senza esitazione tutsi con hamita, pure insegnandolo ai suoi allievi.

Fu solo più tardi e lontano dal Rwanda che la ricerca storica cominciò a deviare dal cliché originale. In particolare il sociologo e antropologo francese George Balandier, immaginò un esperimento di antropologia marxista, contribuendo a rimettere in primo piano una visione economico-sociale al posto di quella razziale. Ribaltando i concetti di razze e di caste in classi di ispirazione marxista-leninista o maoista, riapparve il modello feudale, nel senso di periodo storico, mettendo l’accento più sulla terra, che sull’allevamento delle vacche. Immaginando questo contesto, la successiva Rivoluzione sociale del 1959-1961 si trovò giustificata in un ipotetico paragone politico con un 1789 africano o come pietra miliare di una grande rivoluzione rurale, secondo il pensiero di Mao. In questo modo il passaggio da razze etniche a classi sociali poteva ricordare la storia europea del XIX secolo.

 

Vignetta raffigurante lo stereotipo del tutsi

 

Le recenti tragedie hanno dato al duello hutu-tutsi un’alone di eternità e inevitabilità, mentre il processo storico conosciuto è stato costruito seguendo tradizioni reinventate. I tutsi e gli hutu esistevano da secoli, ma la loro appartenenza è stata ripensata e vissuta secondo criteri diversi da quelli dell’antico Rwanda. L’eredità era quella di una società patriarcale, percorsa da molteplici suddivisioni sociali, dinastie e clan, incluso una specie di rango calcolato sul numero del bestiame. L’insieme si sviluppò in modo contrastante a seconda delle regioni, rimanendo all’interno dell’area di coloro che parlavano kinyarwanda, con ricomposizioni, mobilità e intrecci, secondo logiche di potere. Una società specialmente politica, che conobbe l’ascesa di un’aristocrazia di antica discendenza, proprietaria di numerose mandrie di bestiame. Ma la situazione non era la stessa al centro, a nord o all’ovest del Rwanda in espansione. La sua storia sociale e politica aveva ritardi, ma anche contraddizioni e mobilità fra le appartenenze.

Mentre nel XX secolo si assistette a una falsificazione autoritaria e autorizzata scientificamente di un modello razziale, fondato su tipologie somatiche e caratteriali provenienti dal XIX secolo e su una finzione storica che fece sognare i bianchi, escludendo l’interesse dei neri. La perversità del colonizzatore fu nell’ottenere la collaborazione degli indigeni sulla base di una interiorizzazione dei pregiudizi razziali, al fine del controllo sociale. Le relazioni fra tutsi e hutu non rimasero più nel tessuto sociale delle colline, ma diventarono urbane, entrando nelle scuole e nella burocrazia. I tutsi non furono più i capi, ma autorità ordinarie che sapevano leggere, scrivere e pregare meglio degli altri e vennero percepiti come una casta politico-burocratica.

Il Paese doveva partorire una rivoluzione, che poteva essere liberale, populista, proletaria, nazionalista. Ma fu razziale, perché i suoi attori erano ormai incapaci di pensare in altri termini, oltre quelli inculcati dalla nuova cultura, e sfociò nella “Rivoluzione sociale” del 1959-1961.

 


Fonti:
Jean-Pierre Chrétien: L’Afrique des Grands Lacs – Deux mille ans d’histoire
Jean-Pierre Chrétien et Marcel Kabanda: Rwanda – Racisme et génocide – L’idéologie Hamitique
Université Nationale du Rwanda: Histoire du Rwanda – Des origines a la fin du XX siecle
Jan Vansina: L’évolution du royaume Rwanda des origines à 1900-1962
Jan Vansina: Le Rwanda ancien – Le royaume nyiginya