Congo 15 – Saccheggio

Il 28 maggio 1997 Laurent-Désiré Kabila prestò giuramento nel nuovo stadio di Kinshasa, in presenza dei presidenti di Ruanda e Uganda (che lo avevano messo al potere). Inizialmente sembrò che le cose cambiassero. Gli abitanti di Kinshasa videro raccogliere dopo anni le montagne di rifiuti, la città venne dotata per la prima volta di un camion dei vigili del fuoco, furono ripulite le fogne, i corridoi dei ministeri odorarono di pulito e anche lo scalo dell’aeroporto, il più caotico al mondo, venne riorganizzato. Soldati, agenti, insegnanti e impiegati cominciarono a ricevere regolarmente lo stipendio. Non vennero più stampate banconote e l’inflazione scese al 5%. Scomparve lo zaire sostituito dal franc congolais, subito accettato nell’intero Paese e celebrato dai grandi della musica.

Ma non durò molto. La gente che lo aveva inizialmente accolto festosamente, diffidò subito quando cominciò a uscire il vero volto del nuovo regime. L’opposizione democratica che aveva combattuto contro la dittatura, sperava che le risoluzioni prese dalla Conferenza Sovrana Nazionale venissero finalmente applicate. Ma Kabila non le prese neppure in considerazione, la Costituzione, il Parlamento e il governo di transizione scomparvero nei rifiuti. I sostenitori dell’UDPS, che lo avevano festeggiato per la liberazione, finirono imprigionati e Tshisekedi esiliato. Abolì il sistema multipartitico trasformando l’AFDL in partito di Stato e si sbarazzò dei suoi tre co-fondatori. Il sistema politico di Kabila, degenerò in poco tempo in un regime autoritario, con lui solo al vertice.

Varò una nuova Costituzione concentrando su di lui tutti i poteri, mettendosi alla testa del potere legislativo, esecutivo, giudiziario, dell’esercito, dell’amministrazione e della diplomazia. Scelse i ministri fra katanghesi come lui, ignorando tutti gli oppositori di un tempo, che eliminò accusandoli di “mobutismo”, imbavagliando la stampa. Fra giugno 1997 e gennaio 2001 vennero arrestati 160 giornalisti. Il FAZ di Mobuto fu sostituito dal FAC (Forces Armées Congolaises) un’accozzaglia di ex FAZ, ex Tigres katangais, kadogo, banyamulenge e tutsi ruandesi, con a capo James Kabarebe. Gestì il Paese con molta disinvoltura, solo l’informazione lo interessava, dove mise a capo l’ex responsabile della propaganda di Mobutu, Sakombi Inogo.

 

Laurent-Désiré Kabila

 

Si inimicò la comunità internazionale, cominciando dalle Nazioni Unite, quando inizialmente rifiutò e poi boicottò, l’inchiesta sui massacri dei rifugiati hutu. Qui non poteva incolpare il Ruanda, perché significava ammettere che la liberazione non era dovuta a lui. Ma neppure addossarsene le colpe. Privo di diplomazia, si mosse in modo grezzo. Accusò la Francia di neocolonialismo e il Belgio di essere uno Stato terrorista, agì grossolanamente anche con diversi capi di Stato africani. Fu uno dei pochi uomini che riuscì a far arrabbiare Mandela.

Intanto nel Paese cresceva la protesta contro le ingerenze straniere. Gli ufficiali tutsi nell’esercito, che parlavano solo inglese, swahili e kinyarwanda, cominciarono ad essere odiati e il Ruanda divenne agli occhi del popolo uno Stato invasore. Uscì la voce che voleva annettersi il Kivu, e non aiutò quando il Ruanda chiese una nuova Conferenza di Berlino, per rivedere i confini coloniali. Rapidamente montò l’odio fra i due Paesi. Molti ruandesi accusavano i congolesi di essere dilettanti, caotici e parassiti, presi da danze, musica e cibo più che dal lavoro e l’ordine. I congolesi consideravano il Ruanda un Paese di parvenu altezzosi, freddo, severo dove venivano vietate le buste di plastica e obbligavano i caschi ai motociclisti.

Kabila capì subito il clima, così il 26 luglio 1998, dichiarò alla radio che tutti gli stranieri dovevano abbandonare la RDC, rompendo definitivamente con Kigali e Kampala. James Kabarebe, l’uomo che aveva conquistato il Congo per lui, venne ringraziato e rientrò a Kigali molto arrabbiato. Non ci rimase a lungo, meno di una settimana dopo il Ruanda invase il Congo. Il 2 agosto 1998 scoppiò la Seconda Guerra del Congo, conosciuta anche come Great African War. Non durò sette mesi come la prima, ma cinque anni ufficialmente, ufficiosamente molti di più.

 

In fuga dai combattimenti.

 

La Grande Guerra Africana fu un conflitto alquanto complesso, coinvolse nove Paesi africani e circa trenta milizie locali, con il Congo teatro principale delle operazioni. In termini di vittime diventò il conflitto più sanguinoso avvenuto dopo la II guerra mondiale. Vi morirono dai tre ai cinque milioni di persone per conseguenze dirette e indirette, come denutrizione, diarrea, malaria e altre malattie, che per colpa della guerra non poterono più essere curate. I morti continuarono anche dopo: nel 2007 il Congo aveva ancora un tasso di mortalità superiore del 60% rispetto a tutti gli altri Paesi dell’Africa Sub-sahariana. L’aspettativa di vita media, durante la guerra scese a 42 anni.

In questa guerra dimenticata, il numero dei morti fu superiore al totale di Bosnia, Iraq e Afghanistan, maggiormente coperti dai media. Sparì dall’attenzione del mondo perché si presentava confusa e inesplicabile, non riuscendo a capire chi erano i buoni e i cattivi. Nel complesso tutte le fazioni non avevano la coscienza pulita e ognuno trovava l’altro più colpevole, senza riuscire a cercare un compromesso. Cosa pressoché impossibile in un Paese poverissimo, con una popolazione giovane e non istruita, che aveva conosciuto solo la dittatura.

Nella prima fase della guerra, agosto 1998 – luglio 1999, Ruanda, Uganda, con l’aiuto del Burundi e un esercito di ribelli cercò di rovesciare Kabila, fallendo. Terminò con l’Accordo di pace di Lusaka che non cambiò nulla. La seconda, luglio 1999 – dicembre 2002, Uganda e Ruanda, controllando la metà del territorio congolese, sfruttarono le materie prime locali. Fu una fase molto caotica e turbolenta che terminò con l’accordo di pace di Pretoria, entrato in vigore nel giugno 2003. Uganda e Ruanda si ritirarono e l’ONU rafforzò la sua presenza. Teoricamente la guerra era finita, ma continuò nei due Kivu, al confine con il Ruanda e nell’Ituri confinante con l’Uganda.

Tutto il conflitto fu segnato dagli strascichi del genocidio ruandese, dalla debolezza della RDC, dalla supremazia militare del Ruanda, dalla sovrappopolazione nelle regioni dei Grandi Laghi, dalla facilità di attraversamento delle frontiere, dall’inasprirsi delle tensioni etniche, dalla presenza di ricchezze naturali, dalla militarizzazione dell’economia informale, dalla domanda mondiale di minerali, dall’offerta di armi, dall’impotenza delle Nazioni Unite e altro ancora…

 

Prima fase della guerra, 1998

 

 

I combattimenti iniziarono il 2 agosto da parte del Ruanda. Goma e Bukavu caddero subito e la conquista venne attribuita al Rassemblement Congolaise pour la Démocratie (RCD) con a capo Ernest Wamba dia Wamba, ex professore di storia. Un movimento simile all’AFDL degli anni precedenti, con soldati addestrati dai ruandesi.

All’aeroporto di Goma, James Kabarebe sequestrò alcuni aerei, li riempì di truppe e costrinse i piloti a volare fino alla base militare di Kitona, sull’Atlantico, 400 chilometri da Kinshasa. Il 5 agosto prese Kitona, convincendo i militari presenti a ribellarsi contro Kabila. Il 9 agosto cadde Matadi, porto principale del Congo e l’11 agosto si impossessò della centrale idroelettrica di Inga. Tolse la corrente a Kinshasa e bloccò la fornitura di viveri, lasciando per molte notti la capitale con milioni di abitanti affamati al buio. L’esercito congolese non era all’altezza delle truppe di Kabarebe, per cui Kinshasa sembrava già conquistata.

Il 19 agosto 1998 quattrocento soldati dello Zimbabwe entrarono in Congo e il 22 agosto l’esercito angolano varcò il confine, cominciando a liberare il Basso Congo. Mugabe, Dos Santos e Kabila erano legati ideologicamente da quello che gli africani chiamavano le marxisme tropicalisé. E non si esclude essere stato Castro a suggerire Dos Santos di inviare l’esercito. Si unì la Nabibia a Sud, mentre a nord Kabila trovò alleati la Libia, il Sudan e il Ciad. A quel punto Kabila dispose di 85.000 soldati, mentre i ribelli erano circa 55.000, uno schieramento enorme. l’RCD si ritirò dall’ovest, ma mantenne il controllo su tutto il Congo orientale e il nord del Katanga.

 

Offensiva straniera

 

A novembre, dopo il ritiro del Ciad, l’area occupata venne conquistata da un nuovo movimento filo-ugandese, il MLC (Mouvement pour la Libération du Congo) con truppe composte da veterani del DSP, lo spietato esercito privato di Mobutu. Lo comandava Jean-Pierre Bemba, figlio dell’uomo d’affari più ricco all’epoca di Mobutu. Poi la guerra ebbe un periodo di stallo. In realtà non ci furono grandi scontri frontali, né un fronte principale, nessuno era disposto a rischiare i propri uomini, perché in Africa l’esercito rappresenta una ricchezza strategica. I combattimenti si svolsero all’interno fra vari fronti, da parte di numerose milizie, oltre agli eserciti regolari, coinvolgendo centinaia di migliaia di civili.

Nelle città occupate del Kivu, l’amministrazione passò in mani ruandesi e cominciò la pulizia dei dissidenti con rapimenti e sparizioni. Vennero uccise centinaia di persone fra giornalisti, intellettuali, attivisti e oppositori. L’RCD controllava le città, ma nell’entroterra, interahamwe e forze armate hutu cominciarono a ricevere armi da Kabila, con un ribaltamento inverosimile, dato che solo due anni prima aveva appoggiato i massacri contro di loro. Ma in Congo contava solo l’opportunismo militare e, in seguito, quello pecuniario. Kabila fornì armi anche ai mai-mai, subappaltando la guerra ad un’alleanza singolare fra interahamwe, hutu ruandesi responsabili del genocidio e i mai-mai, ipernazionalisti congolesi.

Su pressione di Francia e Stati Uniti, nel luglio 1999 si arrivò a un accordo, a Lusaka, capitale dello Zambia. Gli eserciti stranieri si impegnarono a ritirarsi, l’ONU avrebbe inviato 500 uomini con la Mission de l’Organisation des Nations Unies en République démocratique du Congo – MONUC per organizzare un periodo di transizione, l’ennesima transizione. Dal 1990 il Congo viveva in uno stato di transizione permanente.

 

Seconda fase della guerra, 2001-2003

 

La guerra non terminò, ma si trasformò assumendo un aspetto più sporco, caotico e violento. A differenza delle guerre occidentali, onerose e dalle conseguenze disastrose per l’economia, in Congo la guerra era relativamente a buon mercato: senza tecnologia, armi leggere a prezzi bassi dall’ex URSS e i bambini soldato, autorizzati a saccheggiare, non costavano niente, con la prospettiva di lauti guadagni, ricavati dallo sfruttamento delle materie prime. Così la guerra divenne un business, economicamente interessante.

Fallito il comune obiettivo di conquistare Kinshasa, la meta diventò Kisangani, centro dell’industria diamantifera, così Kampala e Kigali ruppero l’alleanza e l’amicizia Kagame-Museveni si frantumò. Inizialmente l’Uganda controllava la città, ma il Ruanda pretendeva la sua parte e si scontrarono tre volte. L’ultima, la Guerra dei sei giorni, nel giugno 2000, fu la più violenta. Gli ugandesi a nord e i ruandesi a sud usarono l’artiglieria pesante e le granate sorvolarono la città. Gli abitanti rimasero senza luce e acqua, rifugiandosi nelle cantine al buio per sei giorni. Finì con centinaia di vittime civili, feriti e case distrutte.

Con la rottura fra Uganda e Ruanda, anche l”RCD si spaccò in RCD-G (Goma) pro-ruandese e RCD-K (Kisangani) pro-ugandese, designato anche come RCD-ML (Mouvement de Libération) o RCD-K/ML. Dall’RCD-G si staccò una parte che si chiamò RCD-N (National). I ribelli si stavano sfagliando in un caos di acronimi. Successivamente quelli pro-Uganda smisero di combattere contro il Ruanda e contro i congolesi, iniziando a scannarsi fra loro, per accapparrarsi i territori più redditizi.

 

Miniera d’oro di Kibali nell’Ituri

 

Nelle miniere d’oro di Bomili, nel nord-est, i soldati divennero imprenditori e gli assassini mercanti, organizzandosi in maniera gerarchica. Con l’attrezzatura fatiscente distrutta, tutto il lavoro veniva fatto a mano da giovani, con zappe e picconi. Erano imprenditori che versavano una parte di oro alla persona più alta gerarchicamente, e sempre più su, con uno schema piramidale i cui vertici arrivavano a Kampala, dove il fratello del presidente Museveni ne divenne una figura chiave. Le miniere di Kilo-Moto vennero sfruttate direttamente dall’esercito ugandese e i cercatori scavavano senza protezioni, senza paga e spesso senza attrezzi, con i fucili puntati contro. Gli incidenti non si contavano (nel 1999 il crollo di una galleria fece 100 morti), Nel 1999 e nel 2000 l’Uganda esportò 95 milioni di dollari d’oro l’anno, il Ruanda 29 milioni. Cifre elevate, dato che entrambi non possiedono giacimenti.

Le esportazioni di diamanti dell’Uganda passarono da duecentomila dollari a 1,8 milioni e il Ruanda, privo di miniere, ne esportò per 40 milioni di dollari l’anno. Il Ruanda triplicò le esportazioni di cassiterite, da cui si ricava lo stagno, usato in tutto il mondo per fabbricare lattine. La differenza proveniva dalle miniere del Kivu, dove le merci passavano la frontiera senza controlli. Partivano oltrefrontiera anche legno tropicale, té e caffé. Il Congo era diventato un grande self service.

 

Miniera di coltan

 

Poi c’era il coltan del Kivu. Un minerale sotto forma di ghiaia nera molto pesante che si trova nella melma. Diventò nel 2000, ciò che la gomma lo era stata nel 1900. (Il Congo ne possiede circa l’80% delle riserve mondiali). E per il Ruanda diventò il primo interesse economico. Il coltan è composto da colombite (niobio) e tantalio. Il primo usato nell’acciaio inossidabile, il secondo nell’industria missilistica e nei condensatori dell’industria elettronica. Nel 2000, con la richiesta di Nokia, Ericsson e Sony, il prezzo decuplicò. Tutte le miniere erano controllate dal Ruanda, che nel 1999 e 2000 ne esportò 240 milioni di dollari l’anno.

Tuttavia Ruanda e Uganda non furono i soli beneficiari del saccheggio. Gli Stati non stavano in cima alla piramide, ma erano anch’essi anelli intermedi, in una rete commerciale internazionale complessa. A trarre profitto dalla ricettazione furono soprattutto alcuni gruppi minerari internazionali, oltre a trafficanti d’armi, oscure compagnie aeree e uomini d’affari corrotti in Svizzera, Russia, Kazakistan, Belgio, Paesi Bassi e Germania, che operavano in un mercato senza regole.

Dall’altro lato diventò occasione di guadagno anche per la gente comune. I contadini dei due Kivu disertarono i campi, i ragazzi lasciarono le scuole, anche gli insegnanti e gli uomini disoccupati poterono recuperare l’autonomia finanziaria, raccogliendo il coltan.

 

I lingotti insanguinati dell’Ituri.

 

La guerra non iniziò a scopo di lucro, ma dopo che tante persone cominciarono a guadagnare, venne portata avanti. La militarizzazione dell’economia andò di pari passo con la commercializzazione della violenza: i soldati offrivano i loro servigi ovunque fosse richiesto. L’economia dei kalashnikov portò ad una estrema violenza come fenomeno comune e l’odio tribale si mescolò alla concorrenza commerciale. A Mongbwalu, città aurifera nella provincia dell’Ituri, gli hema e i lendu si disputarono i filoni uccidendosi a vicenda. Alla base ci fu l’attrito tribale indirettamente legato al genocidio ruandese, ma incrementò quando l’Uganda e l’RCD-K nel 1999 nominarono governatore un hema e i lendu non lo sopportarono. Il conflitto smorzò temporaneamente alla fine dello stesso anno, lasciando in sei mesi 7.000 uccisi, 200.000 sfollati, un numero imprecisato di morti a causa della malnutrizione e un tasso di mortalità del 15% dovuto a due gravi epidemie di morbillo.

Anche il bracconaggio dilagò. I gorilla di montagna del parco Kahuzi-Biega da trecento si dimezzarono. Nel parco Virunga, dei 20.000 ippopotami solo 1.300 sopravvissero alla guerra. E come un secolo prima, tornò anche il commercio di avorio, nella riserva di Okapi, dei seimila elefanti presenti, più della metà venne uccisa per l’avorio e la carne. La natura intera subì un contraccolpo dal conflitto, con una popolazione che consumò annualmente da 1,1 a 1,7 milioni di tonnellate di carne selvatica e bruciò settantadue milioni di metri cubi di legna l’anno, non esistendo più l’energia elettrica. Nei mercati si vendeva carne di scimmia, antilope e persino elefante.

Nel turbinio di guerriglie, stupri, assassinii, fuggirono due milioni di civili per rifugiarsi dentro la foresta vergine. Molti restarono talmente isolati dal mondo, da non avere più vestiti per sostituire i vecchi stracci, vagando nudi nella foresta in cerca di cibo, come un secolo prima.

 

Fonti:

Congo” di David Van Reybrouck – Feltrinelli Editore

Storia del Congo” di Fortunato Taddei

“Wikipedia