Congo 19 – Oggi

In vista delle elezioni del 28 novembre 2011, Kabila cambiò la legge elettorale da proporzionale a maggioritario togliendo il secondo turno, con forti proteste delle opposizioni. Lo sfidante principale, il vecchio leader dell’opposizione e capo dell’UDPS, Étienne Tshisekedi, l’otto novembre si autoproclamò presidente in seguito alle numerose proteste e disordini contro Kabila in tutto il Congo. Le elezioni si svolsero in un clima difficile con violenze e rivolte in tutto il Paese che causarono ritardi, tanto da dover essere protratte di un giorno.

Sembra che oltre 5.000.000 di schede elettorali fossero già pre-spuntate con il n° 3 (Kabila) portando la popolazione a bruciarle. Nessuna azione venne intrapresa da parte della commissione elettorale, che il 9 novembre dichiarò Kabila vincitore con il 48,95% contro il 32,33% ottenuto da Étienne Tshisekedi. Il risultato fu messo in discussione dal Carter Center, dalle Nazioni Unite e dall’Unione Europea. Ma la Corte Costituzionale validò l’elezione di Kabila.

 

Congolesi in protesta nelle strade di Parigi nel febbraio 2012
Congolesi in protesta per le strade di Parigi

 

A causa dei brogli, la sua credibilità già scossa continuò a calare, aprendo una stagione di proteste in tutto il Congo. Fra il 2013 e il 2014, membri della maggioranza proposero una revisione della Costituzione per rivedere il numero di mandati del presidente. L’opposizione, la Chiesa Cattolica, la comunità internazionale e personalità di rilievo si opposero con forza tanto da far abbandonare il progetto. Nel 2015 Kabila promosse una legge che legò le successive elezioni del 2016 al censimento completo della popolazione. Un processo che durò fino al 2018, rimandando le elezioni e facendolo rimanere in carica altri due anni.

Si profilarono subito malumori e i capi dell’opposizione, in procinto di organizzare manifestazioni, venneroo preventivamente arrestati. Le proteste cominciarono lo stesso in tutto il Paese e Kabila incrementò la repressione, tanto che nel gennaio 2015 gli scontri provocarono più di 40 morti a Kinshasa. Gli oppositori si organizzarono anche in gruppi sui social network e Kabila fece bloccare internet, non solo, ogni qualvolta veniva organizzata una manifestazione dell’opposizione, internet non funzionava, tanto che otto ONG portarono in tribunale le maggiori compagnie telefoniche.

 

Scontri a Kinshasa, gennaio 2015

 

Il 15 marzo, a Kinshasa furono arrestati 26 attivisti, fra i quali musicisti, giornalisti stranieri (BBC, France-Presse e Radio-Télevision belge) un diplomatico americano, attivisti locali e senegalesi. Il 17 marzo a Goma, altri dieci finirono in prigione durante una manifestazione pacifica. Amnesty international, Human Rights Watch, l’Unione Europea e l’ONU chiesero il loro rilascio, ma il regime, al contrario, intensificò la repressione. Nel mese di giugno 2016, gli USA emanarono sanzioni contro il generale Célestin Kanyama, commandante della polizia di Kinshasa, congelando tutti i suoi beni all’estero con l’interdizione a viaggiare.

Già dal 2005 il Congo fu sottoposto a sanzioni da parte dell’ONU, vietando il commercio di armi, il blocco dei beni detenuti all’estero dei signori della guerra e l’interdizione di entrare in Svizzera. L’UE assieme alla Svizzera impose altre sanzioni nei confronti di sette persone a partire dal 12 dicembre 2016, in risposta all’ostruzione del processo elettorale e alle relative violazioni dei diritti umani e il 29 maggio 2017, nei confronti di altre nove persone di responsabilità nell’amministrazione e nelle forze di sicurezza, poi prorogate l’anno successivo, prima del voto, creando non poche tensioni fra l’UE e Kabila.

 

La MONUSCO pattuglia le strade di Kinshasa durante una manifestazione contro Kabila

 

Il 30 dicembre 2018 hanno avuto luogo le ultime elezioni presidenziali, legislative e provinciali contemporaneamente. Alle legislative si presentarono 15.355 candidati. Kabila non poteva candidarsi al terzo mandato, ma formò la coalizione Front Commun pour le Congo (FCC) candidando il suo ministro degli Interni, Emmanuel Ramazani Shadary. Gli altri sfidanti furono Félix Tshisekedi, leader dell’UDPS dopo la morte del padre Étienne Tshisekedi e un altro politico dell’opposizione, Martin Fayulu, nemico di Kabila.

Tshisekedi vinse le presidenziali con 38,57 %, contestate per brogli da Fayulu che prese il 34,83%, mentre il candidato di Kabila 23,84%. Anche i dati degli osservatori internazionali davano Fayulu vincitore e si è subito pensato a un accordo pre-elettorale fra Tshisekedi e Kabila, il quale, conscio di non poter vincere, voleva mantenere il controllo. Dopo numerose contestazioni, la vittoria di Tshisekedifu fu confermata dalla Corte Costituzionale e il 24 gennaio 2019 prestò giuramento, diventando il quinto presidente del Congo. Alle legislative il partito di Kabila prevalse con 341 seggi, contro 112 di Fayulu e 47 di Tshisekedi, che si accordò con Kabila, il quale ottenne 42 fra ministri e viceministri (primo ministro compreso), contro i 23 di Tshisekedi, continuando così a influenzare il potere.

Anche stavolta, come d’uso, uno dei primi decreti approvati andò a proprio beneficio con l’attuazione di un vitalizio per tutti i deputati, senatori e membri del governo (prima ricevevano solo sei mesi di indennità alla fine del mandato). Kabila, come “buonuscita” pare abbia ricevuto 650.000 dollari.

 

Campo di sfollati installato presso l’ospedale di Bunia nella provincia di Ituri, marzo 2018.

 

Dal luglio 2010 la MONUC era stata sostituita dalla MONUSCO (Mission de l’Organisation des Nations Unies pour la Stabilisation en République Démocratique du Congo) rinforzando le risorse con un budget di 1,4 miliardi di dollari l’anno, impiegando 19.461 soldati, 1.090 agenti di polizia, 937 civili internazionali, 476 volontari dell’ONU e 462 osservatori, coinvolgendo 60 Stati. La missione è tutt’ora operativa in Congo, dove le notizie, aggiornate ad agosto 2020, restano sempre simili a un bollettino di guerra, perché in realtà la guerra per l’accaparramento delle risorse non è mai terminata.

Nella regione aurifera dell’Ituri le violenze sono ricominciate nel 2017 e hanno recentemente avuto un’escalation. Diverse milizie, con vari acronimi, continuano a massacrare centinaia di civili e almeno 300.000 persone sono sfollate. Mentre da parte dei ribelli dell’ADF, Allied Democratic Forces, un gruppo jihadista legato allo Stato Islamico, sono state massacrate 668 persone dall’avvio, nell’ottobre 2019, dell’offensiva da parte delle forze armate congolesi, che dopo quattro mesi hanno conquistato il loro quartier generale. Nonostante ciò, continuano le loro incursioni dall’Uganda con violenze e rapimenti fra la popolazione civile.

Le feroci milizie mai-mai sono state assoldate dalle compagnie minerarie occidentali e cinesi, che operano nell’est del Congo e in Katanga, per difendere i loro giacimenti, continuando la loro brutalità.

Nel Kivu del Nord i bracconieri, spesso legati ai signori della guerra, diventano sempre più violenti. Nel parco nazionale di Virunga, minacciato da interessi legati all’estrazione di minerali, petrolio e alla redditizia industria del carbone che utilizza gli alberi del parco, nel maggio 2018 furono uccise cinque guardie forestali con il loro autista e altre 12 nell’aprile di quest’anno. (Sono 200 i ranger uccisi negli ultimi vent’anni).

Un conflitto etnico fra banunu e batende, nella provincia di Mai-Ndombe a ovest, ha provocato nel dicembre 2018, ottocentonovanta morti, 150 feriti, 465 fra case e scuole distrutte e 16.000 persone sono fuggite. Mentre nel nordest diverse milizie armate sudanesi controllano il traffico dell’avorio.

 

Donne in lutto che piangono centinaia di persone innocenti uccise dall’ADF nei territori di Mambasa, Djugu, Irumu e Mahagi. Le fasce bianche sono un segno di speranza per la pace.

 

In Kasai nel 2016, ribelli luba, in gran parte bambini soldato, sono insorti contro le istituzioni statali e le forze di sicurezza, saccheggiando e bruciando uffici governativi e case, uccidendo presunti simpatizzanti del governo. L’esercito di Kabila ha reagito con raid porta a porta massacrando donne e bambini. I combattimenti sono proseguiti per un anno causando 5.000 morti e la fuga di circa 1,5 milioni di persone, con l’ONU che ha accusato entrambi gli scheramenti di crimini di guerra. A questo si aggiunge una crisi umanitaria causata dall’Angola, che sta rimpatriando a forza dalla provincia confinante tutti i congolesi fuggiti dalle guerre e dalle dittature degli ultimi decenni. Circa 400.000 persone sono state espulse nel solo mese di ottobre 2018 e altri 20.579 nuclei familiari lo scorso anno.

Nel Tanganyika, dal 2013 è in atto un conflitto fra pigmei e luba. Alla base delle violenze sembra ci sia il razzismo dei bantu nei confronti dei pigmei. I twa subiscono da sempre una sorta di apartheid, vivono ai margini della vita sociale ed economica. Ma dopo decenni di angherie e soprusi, hanno deciso di reagire formando delle milizie.

Dall’agosto 2018, ebola ha causato nei due Kivu e nell’Ituri 2.185 morti su 3.274 casi confermati e sembra finita, anche se gli operatori restano cauti. Nel giugno 2020 è iniziata una nuova epidemia di ebola (l’11° focolaio) nella provincia dell’Equatore. A questa si è aggiunta una delle più gravi epidemie di morbillo, che al 20 febbraio 2020, con 335.413 casi, aveva ormai raggiunto tutte le Province con oltre 6.300 morti, per tre quarti bambini sotto i 5 anni. Nei 2017 e 2018 il colera, con circa 30.000 casi/anno in 20 Province su 26, ha provocato molte centinaia di morti. Mentre nel Kivu del Sud, già martoriato da epidemie e conflitti, gravi innondazioni dovute ai cambiamenti climatici, lo scorso aprile hanno fatto evacuare circa 100.000 persone, lasciandone 200.000 senz’acqua.

Alla malaria, ormai endemica, che nel 2019 ha registrato 16,5 milioni di casi con 17.000 decessi, ora si sta aggiungendo il covid-19, riguardo al quale a Kinshasa c’è una caccia alle streghe contro l’untore bianco. Ma non tutto è nero nelle continue emergenze sanitarie. Grazie alle ONG internazionali, oltre ad aver debellato l’ebola nell’est ed affrontato morbillo e colera, sono in corso altri progressi: nel 2017, delle circa 370.000 persone affette da hiv, il 50% hanno avuto accesso ai trattamenti antiretrovirali, contro il 10% del 2010. Nello stesso anno il 70% delle donne gravide hanno usufruito dei metodi preventivi di trasmissione madre-figlio, contro l’8% del 2010.

 

 

Le condizioni economiche in cui il Paese è ridotto, si possono capire dai fatti avvenuti nelle carceri di Kinshasa, dove nei primi due mesi del 2020, sono morti di fame 30 detenuti e un centinaio in fin di vita, perché il governo non ha saldato i debiti con i fornitori dal mese di ottobre e i commercianti hanno bloccato gli approvvigionamenti.

I rapporti con la Cina restano buoni, a questi si sono aggiunte relazioni con il Giappone e la Corea del Sud, che hanno incrementato la loro presenza motivati dalle materie prime. Mentre le relazioni con l’Europa, soprattutto Belgio e UE, con Kabila si erano raffreddate a causa delle sanzioni, ma appianate da Tshisekedi nell’ultimo anno, il quale ha ripreso anche le relazioni con il FMI, interrotte da Kabila.

Nella classifica di Transparency international 2019, come indice di corruzione l’RDC si trova al 171° posto su 183 Paesi valutati, perdendo 2 posti rispetto al 2018. Ma la corruzione è talmente spudorata, a cielo aperto, che non servono statistiche. Secondo un rapporto del Carter Center, fra il 2009 e il 2014 la Gécamines (l’azienda mineraria di Stato) avrebbe guadagnato 262 milioni di dollari l’anno, ma solo il 5% è finito nelle casse statali, con 750 mln di dollari “volatilizzati”. Le stesse conclusioni, con cifre simili, sono state pubblicate anche da una ONG britannica, la Global Witness (GW). L’ipotesi più plausibile è che tali somme vengano dirottate verso un piccolo gruppo di potere nel quale il clan Kabila non sarebbe estraneo.

Il Pil Procapite del 2017 era terzultimo al mondo per la Banca Mondiale e penultimo per l’FMI. Si importa il 90% e si esporta il 10%, quasi solo materie prime. Le miniere di uranio sono ufficialmente chiuse, ma l’uranio viene comunque estratto e contrabbandato verso Iran e Corea del Nord. Il franco congolese vale 0,00050 dollari e l’economia è “dollarizzata” per oltre il 90%.

 

Donne e bambini che cercano oro nell’Ituri.

 

Nel 2019, secondo l’OMS, 167 bambini su 1.000 non raggiungevano i cinque anni (quasi 17 su 100) nel 2014 il 12% soffriva di malnutrizione acuta, con rischio di perdere la vita, mentre il 25% di malnutrizione cronica (con percentuali più alte nelle province dell’Ituri e del Kasai a causa dei conflitti) mentre fra il 2009 e il 2014 la manioca ha avuto un aumento di prezzo del 60%. Secondo l’UNICEF 33 milioni di abitanti non hanno accesso all’acqua potabile, solo il 28,7% dei congolesi ha accesso a servizi sanitari adeguati, il 75% dei bambini non viene registrato alla nascita e sei milioni di bambini soffrono di malnutrizione cronica o ritardi nella crescita. La speranza di vita media è di 57,7 anni e quasi un quarto dei congolesi al di sopra dei 15 anni è analfabeta.

International Right Advocates ha recentemente denunciato e intrapreso una class action, contro lo sfruttamento dei bambini nell’estrazione del cobalto da parte della compagnia anglo-svizzera Glencore, con un appello a Microsoft, Tesla, Apple, Alphabet, Dell che sono gli acquisitori finali, in quanto il cobalto viene utilizzato nelle batterie al litio. Nella regione di Lualaba, da cui proviene più del 60% della fornitura mondiale di cobalto, si sta verificando un alto tasso di decessi di bambini di età compresa fra i sei e gli otto anni, a causa delle infime condizioni lavorative a cui vengono sottoposti.

Anche se fuori dall’attenzione dei media, il numero di persone in fuga dalla violenza provocata dalle crisi che hanno continuato a succedersi, sono superiori a Siria, Yemen e Iraq, secondo la direttrice di NRC (Norwegian Refugee Council). Infatti il Congo detiene il maggior numero al mondo di rifugiati interni che, secondo OXFAM, conta 5,5 milioni di persone, quattrocentomila in più del 2019.

 

Donne stuprate e poi abbandonate in quel che resta della tendopoli di Mugunga 3 presso Goma

 

Human Rights Watch è stato il primo a puntare i riflettori sugli stupri con il rapporto A War Within War, ma non è facile capirne la reale portata a causa della reticenza. Nel 2010 l’inviata speciale delle Nazioni Unite per le vittime di violenza sessuale nei conflitti, Margot Wallström, visitando il Nord Kivu, ha definito Goma come “la capitale mondiale dello stupro” e la Repubblica Democratica del Congo come “il peggior paese al mondo in cui essere una donna”. Una statistica pubblicata sull’American Journal of Public Health ha portato a più del 12% il numero di donne congolesi violentate durante il conflitto e ad almeno 434.000 il numero di coloro che hanno subito violenza sessuale solo nel 2006. Medici Senza Frontiere afferma che in alcune zone del Kivu, tre donne su quattro hanno subito violenza.

Le violenze sessuali sono state usate come arma di guerra non solo contro le donne, anche sugli uomini, ma in un Paese dove l’omosessualità è tabù, c’è riluttanza a parlare, causa l’enorme stigma nei confronti dei maschi abusati per cui risulta difficile stabilirne il numero. Molti bambini soldato sono stati oggetto di violenza sessuale, ma anche civili adulti. Ricercatori americani hanno pubblicato sul Journal of the American Medical Association (JAMA) che nell’est del Congo, quasi il 40% delle donne e oltre il 23% degli uomini intervistati, ha riferito di aver subito violenze sessualii.

Secondo le Nazioni Unite nel solo 2015 sono state stuprate 15.000 donne, molte di esse bambine, le quali, successivamente ripudiate dai mariti e “marchiate” dalle comunità, restano abbandonate a sé stesse. L’ultimo rapporto del giugno 2020 documenta 1.409 casi di violenza sessuale legata ai conflitti, con un incremento del 34% rispetto l’anno precedente. Sempre le Nazioni Unite hanno stilato un rapporto dove risulta che Kinshasa è al terzo posto come città più pericolosa al mondo per le donne, mentre la Fondazione Thomson Reuters mette la RDC al 7° posto fra i Paesi meno sicuri per una donna.

 

La miseria nella Repubblica Democratica del Congo.

 

Il Congo resta il 1° produttore al mondo di cobalto (circa il 20% proviene da miniere artigianali) il 2° di diamanti (gran parte dei quali vengono estratti in miniere controllate da guerriglieri e bande armate ribelli, che non aderiscono a nessuno standard per il lavoro o per i diritti umani e i lavoratori sono trattati come schiavi) il 4° per il rame, il 1° come riserve di tantalio, ma l’economia sale lentamente e la miseria rimane. Un rapporto del FMI del 14 ottobre 2015 scriveva che il tasso di persone che vivevano sotto la soglia di povertà assoluta (1,25 dollari al giorno) era dell’82%. Otto persone su dieci.

Termino questa tragica storia con una notizia del 2017, dove l’agenzia Bloomberg ha rivelato che il clan Kabila, composto da 13 membri della famiglia, possiede 80 società in diversi settori, le quali dal 2003 hanno realizzato centinaia di milioni di dollari. Nell’ottobre del 2019 la ONG Association Congolaise pour l’Accès à la Justice (ACAJ) ha presentato alla Corte Costituzionale la richiesta di aprire un’indagine sul patrimonio di Joseph Kabila, tutt’ora sconosciuto.

 

 

 

Le fonti sono tratte da articoli di giornali africani ed europei in lingua inglese, francese e italiana, dai siti delle organizzazioni internazionali, ONG, wikipedia e dal sito di radio Okapi delle Nazioni Unite.