Friuli 27 – L’Italia

Nel 1789 lo spettro della Rivoluzione si levò sull’Europa e la vecchia Europa venne spazzata via da un popolo scalzo. Il giovane Napoleone era sottile e magro (fu il potere che lo ingrassò). Mentre i suoi sostenitori raccontavano che dormiva nei bivacchi dell’Armata d’Italia, avvolto nel suo mantello, quando arrivò in Friuli è certo che dormì in un comodo letto (che viene mostrato tutt’oggi ai turisti) nella villa Manin di Passariano, residenza dell’ultimo Doge, dove trattò con gli austriaci la cessione di quella che un tempo era stata la Serenissima Repubblica di Venezia, e in seguito in un altrettanto comodo letto di palazzo Antonini Belgrado a Udine. Quando se ne andò nessuno lo compianse, anche se nessuno si rallegrò del cambio.

 

Basilica di Aquileia – Antilope

 

Concludendo la fulminea campagna italiana, Napoleone entrò in Friuli nel marzo 1897 muovendo la sua armata per affrontare l’arciduca Carlo che ne aveva già conquistato una parte, stabilendo il suo quartier generale a Udine. Lo scontro avenne sul Tagliamento e l’esercito francese, guidato dal generale Bernadotte (che successivamente sarebbe diventato re di Svezia e di Norvegia, assicurando il suo legname e il suo ferro all’Inghilterra) ebbe il sopravvento. Il 18 marzo i francesi entrarono in Udine, inseguirono gli austriaci fino all’Isonzo e a nord, attraverso la val Canale attraverso Tarvisio, fin nel cuore dell’Austria, costringendoli all’armistizio di Leoben.

Terminò così miseramente il dominio veneziano nel Friuli, lasciandolo ancora una volta saccheggiato e devastato da popoli stranieri. Il 2 maggio, l’ultimo Luogotenente della Serenissima, Alvise Mocenigo, lasciò il Castello di Udine, mentre alcuni leoni alati di San Marco furono abbattuti. I francesi si accinsero a introdurre le riforme democratiche, ma con la pace, stipulata fra il conte Johann Ludwig von Cobenzl, rappresentante dell’Imperatore Francesco II, e Napoleone il 17 ottobre 1797, detta di Campoformido, il Friuli, con gran parte del territorio veneziano, venne ceduto all’Austria, in cambio della Lombardia e dei Paesi Bassi.

Il Friuli sotto il controllo austriaco, ritrovò la sua unità politica con Gorizia, ma perse la sua autonomia amministrativa, venendo inserito in una nuova provincia veneta, su modello degli altri Stati austriaci, con un consiglio di governo residente a Venezia. Venne abolito l’antico statuto e la millenaria autonomia, mentre il Parlamento si riunì per l’ultima volta il 10 agosto 1805. Nel novembre dello stesso anno, la terza coalizione formata in Europa contro Napoleone, portò nuovamente i Francesi in Friuli (1805 – 1813) che venne aggregato al regno d’Italia napoleonico.

 

Passariano – Villa Manin, camera di Napoleone

 

La regione fu contesa durante questi otto anni fra Napoleone e l’Austria, con trattati e scontri armati che ne mutarono più volte le frontiere. Nel 1809 fu nuovamente diviso per motivi militari secondo i vecchi confini fra Venezia e Austria: il Friuli ex veneziano fece parte del Dipartimento di Passariano, mentre quello ex austriaco venne annesso alla Provincia Illirica. Durante questo breve periodo napoleonico i francesi costruirono la terza cerchia di mura di Palmanova, circondando così la fortezza da tre ordini di fortificazioni. Abolirono i privilegi della nobiltà, introdussero il codice civile napoleonico e soppressero le congregazioni religiose.

Dopo la caduta di Napoleone, nel 1813 il Friuli tornò (assieme a Veneto e Lombardia) sotto il dominio austriaco, inserendolo nel periodo della “restaurazione”. L’Austria ripristinò i confini napoleonici, unendo il Friuli veneziano al nuovo regno Lombardo Veneto, creato nel 1814 e ratificato nel 1815 al Congresso di Vienna. Mentre le contee di Gorizia e di Gradisca entrarono a far parte del regno d’Illiria, costituito nel 1816, assieme alle province della Carinzia, della Carniola e il cosidetto Litorale (Trieste e Istria). Gli austriaci rimasero fino al 1866, saldi al principio che era meglio non muovere ciò che stava fermo, anche se a volte agirono sulla base della legge che è stata formulata nel romanzo “Il gattopardo”.

 

San Daniele del Friuli

 

Il sistema feudale era crollato, ma i diritti feudali in Friuli erano talmente aggrovigliati da creare confusione attorno alla proprietà e i ricchi proprietari terrieri ne approfittarono. In un rapporto della Camera di commercio e d’industria della provincia di Udine si lesse: “domina tutt’ora fra noi la vecchia presunzione veneta del 13 dicembre 1586, in forza della quale tutto ciò che esiste nel perimetro della giurisdizione del feudatario, si considera feudale”. Ciò determinò l’immobilità di grandi estensioni del territorio. I nobili cominciarono a litigare, a cercare negli archivi vecchie carte che dessero prova scritta dei loro diritti. Il governo austriaco, stanco, ordinò che ognuno facesse valere i propri diritti entro un determinato termine (1862). All’arrivo degli italiani (quattro anni dopo) le pratiche da 10 erano passate a 240.

Nel mese di luglio 1866 l’esercito italiano entrò in Udine e i soldati, scrutando i volti dei friulani assiepati ai bordi delle strade, notarono sbalorditi la completa mancanza di entusiasmo. Lo stesso Quintino Sella fece notare le differenze d’accoglienza fra Treviso e Udine, concludendo con l’osservazione: “i friulani sono freddi!”. I militari, man mano che penetravano nella Bassa friulana, si resero conto che la mancanza di ostilità, tendeva a trasformarsi in notevole antipatia. Ma nobili e preti, con l’esperienza ereditata da secoli, ritennero che tanto valeva adattarsi al vincitore, mentre la borghesia agraria diede rapidamente alle stampe un opuscolo dal titolo: “Dialogo fra il padrone e il fittaiuolo”. Il senso era che il padrone, diventando un buon italiano, rassicurava il contadino sulla religione, la proprietà, l’ordine, le leggi e raccomandandogli di votare “sì” al plebiscito (senza alcun cenno sull’abolizione dei vincoli feudali). L’adattamento al vincitore di preti e nobili fu così rapida che (nonostante i dubbi da parte del governo italiano) su poco più di centomila votanti, l’Austria della nostalgia raccolse solo 36 voti, mentre i “sì” per l’Italia furono 104.988.

 

Udine, piazza Patriarcato – Palazzo Antonini-Belgrado (sede della ex Provincia) XVII sec.

 

La questione del confine orientale fu molto dibattuta: il ministro Ricasoli  (1809 – 1880) propose una neutralizzazione dell’Istria e la trasformazione di Trieste in città libera, mentre Pacifico Valussi (giornalista e politico, 1813 – 1893) suggerì uno Stato cuscinetto fra Italia e Austria. C’erano anche molte perplessità sui confini naturali. Mazzini nel 1857 voleva il confine “al cerchio delle Alpi, fino a Trieste”, ma nel 1860, nel libro: “Doveri dell’uomo”, pensò all’Isonzo come “il confine che Dio vi dava“. Nel “Vademecum per l’ufficiale italiano in campagna” del 1866 c’era scritto testualmente: “la geografia indica essere l’Isonzo il vero confine dell’Italia dalla parte del Friuli”. Per ragioni pratiche, lo stato maggiore di Carlo Alberto individuò il futuro confine lungo una linea di forza dal punto di vista militare: dalla sella di Lubiana fino al monte Bitoraj, al di là di Fiume. Nello stesso periodo il patriota Cesare Cantù (1804 – 1895) a proposito delle funzioni di Venezia e Trieste, le definì: “il porto della vecchia Italia e quello della futura Slavia”.

E’ in questo contesto che nel 1863 nacque il nome di “Venezia Giulia”, per opera di Graziadio Ascoli, glottologo goriziano, a sostituzione di “Litorale austriaco”. Un nome di pura invenzione culturale, derivante dalla “decima regio” romana, privo di ogni ragionevole collegamento geografico, storico, economico e sociale. Il processo di coscienza “italiana”, cioè di far parte dello Stato italiano, fu piuttosto lento nella zona di Trieste. Coloro che vennero chiamati “irredentisti” erano una piccolissima minoranza dentro Trieste, isolata dalla “campagna” composta da piccoli e piccolissimi proprietari, contadini di origine slava. Secondo stime prudenti gli irredentisti erano assenti nell’aristocrazia, nel grosso ceto mercantile e negli uomini d’affari. Abbastanza numerosi fra gli impiegati e molto numerosi fra gli intellettuali. Non più di 5.000 in una città di 250.000 abitanti. Anche contadini e operai non condividevano tale sentimento.

 

Codroipo – Parco delle risorgive

 

Per quanto credere nella fatalità sia del tutto privo di logica, il Friuli entrò nel regno d’Italia in un pessimo momento. Il Patriarcato l’aveva fatto allontanare dalla nascente borghesia italiana. Venezia ne aveva sfruttato il territorio, l’Austria aveva governato cinquant’anni con il principio di non toccare niente di quel che stava fermo. Il mondo friulano era arcaico, soggetto a conseuetudini medievali antichissime, a una classe dirigente miope, conservatrice e poco incline alle innovazioni. L’isolamento era la caratteristica centrale di tale tipo di società, aggravato dai pessimi mezzi di comunicazione (a fine ‘800 erano in esercizio solo 200 km di ferrovie). Centro dell’universo restava il piccolo appezzamento, per chi ce l’aveva, e la miseria della sua superfice (o della sua scorza di humus) impedì ogni divisione del lavoro, bloccò ogni tentativo d’innovazione tecnologica, ogni collegamento sociale. L’autosufficienza della famiglia contadina era la regola che si appoggiava al campo e alla casa. Vi era un maggior rapporto con la dura natura che con gli esseri umani. Mentre la filossera mandava in malora le viti e la malattia del gelso rovinava la bachicoltura, l’autosufficienza della miseria voleva dire aver stabilito con questa un’amichevole, anche se pur triste, rapporto.

Nello stesso periodo il regno d’Italia stava affrontando una profonda crisi. Prima delle ostilità, il 4 giugno 1966, la Rendita Italiana (com’erano chiamati allora i buoni del tesoro) quotata sei mesi prima, 65 lire alla Borsa di Parigi, precipitò, passando da 46,15 a 36,10. Ne derivò una grossa svalutazione della moneta e chi potè fece incetta di monete d’oro e d’argento, tanto che il governo fu costretto a coniare monete di bronzo e tagli di carta di 1 o 2 lire. Così l’indice dei prezzi prese a salire: nel 1866 era 89,7, nel 1868 andò a 95,8, mentre nel 1873 arrivò a 105,1. Fu in questo contesto che il contadino friulano si trovò a essere italiano e il Friuli finì con il diventare il Mezzogiorno del nord.

 

I confini orientali dopo il 1866

 

Su questa Regione  ci sarebbe molto altro da raccontare dopo l’annessione all’Italia, sulla Grande Guerra, la seconda Guerra e la successiva militarizzazione del territorio durante la guerra fredda, tanto che, molti anni fa, quando l’Einaudi dedicò venti volumi alla storia delle Regioni italiane dall’Unità a oggi, il FVG (unica) uscì con un cofanetto di due volumi. Ma ci vorrebbe troppo e come prefissato, mi fermo alla sua unificazione, spendendo ancora due righe sugli anni recenti.

Dopo le due guerre mondiali, che produssero altri danni e altre devastazioni, per quanto il Friuli non ne avesse avute abbastanza da secoli, nel 1947, secondo i trattati di Parigi, nacque la Regione Friuli Venezia Giulia, che comprendeva la provincia di Udine (precedentemente parte della Venezia Euganea) e la provincia di Gorizia (parte della Venezia Giulia). Furono soppresse le provincie di Trieste, Pola, Fiume e Zara; a Trieste venne previsto il Territorio Libero di Trieste (TLT), uno Stato autonomo mai costituito, “provvisoriamente” suddiviso in due: la zona A (gestita dagli anglo-americani) e la zona B (gestita dagli jugoslavi). Nel 1954, in seguito al Memorandum di Londra la zona A venne annessa all’Italia, mentre la zona B alla Jugoslavia.

La guerra fredda, che portò la costruzione di innumerevoli caserme (un terzo delle Forze Armate Italiane era dislocato in questa piccola Regione, con un impatto enorme) e l’altrettanto gran numero di “servitù militari” che occupavano vasti territori, impedì un vero sviluppo, conservando una società agricola figlia diretta di quella feudale raccontata fin’ora. Qui il tempo si era fermato. D’altronde per secoli era sempre stata una Regione di frontiera, e la cortina di ferro non fece altro che incrementarne l’importanza strategico-militare. Anche la questione di Trieste, si risolse (de jure) molto più tardi a Osimo, nel 1975, per cui non c’erano interessi (se non militari) da parte dello Stato italiano per disporre finanziamenti atti allo sviluppo, fosse esso economico che sociale.

 

Foci dello Stella, laguna di Marano – Casoni

 

La svolta avvenne con il terremoto del 1976, per il quale arrivò una valanga di soldi, non solo da Roma, che creò modernizzazione, nuove infrastrutture, sviluppo economico e culturale (l’università di Udine fu fondata nel 1978), conseguentemente ricchezza. Successivamente la caduta del muro influi non poco, dissolvendo la Jugoslavia con l’allargamento all’UE, ma soprattutto l’adesione a Shengen, di Slovenia e Austria, portando il FVG da Regione depressa di confine, a centro mittel-europeo, incrocio storico fra le tre grandi culture che hanno formato l’Europa moderna: latina, germanica e slava.

 

Fonti:

Tito Maniacco: I Senzastoria
Tito Maniacco: Storia del Friuli