La minestra di pallandoli – parte 1

– Basta, non ce la faccio più

disse mio suocero posando la forchetta.

– come al solito hai esagerato con le porzioni, ma chi se la magna tutta sta lasagna?

Nonostante al pranzo della domenica fossimo in dodici tra parenti stretti e acquisiti, buona parte del pranzo sarebbe stato messo via per essere riciclato come cena, o come pranzo nei giorni successivi.

– E sticazzi, se avanza! Ho magnato troppa minestra di pallandoli, quando ero giovane… mò che me lo posso permette, cucino quanto me pare!

La vecchia padrona di casa, ancora arzilla e risoluta nonostante avesse quasi novant’anni, aveva parlato con il tono di chi non ammette contraddizioni. Lo sguardo risoluto era lo stesso del ritratto in bianco e nero appesa al muro dietro di lei, in cui c’era una giovane mora con il ventre piatto e il seno prosperoso in un castigato costume da bagno, secondo la moda degli anni ’50. Posava abbracciata ad un ragazzo, lo stesso che 60 anni dopo avrebbe dato forfait alle sue lasagne. Nella foto era languidamente chinata su un fianco verso il compagno, forse nel tentavo di nascondere che era più alta di lui. Ancora oggi, nel circolo delle comari che si riuniscono per la partita di briscola e tresette è la più alta di tutte. Era una bella donna, si intuisce la passata bellezza seppellita sotto le rughe profonde dell’età le dita delle mani deformate dall’artrosi.

Aveva nominato la famosa “minestra di Pallandoli”. Mi sembrava di aver già sentito nominare quel piatto da mia nonna, ma mi piaceva ascoltarla quando raccontava…

– Hai detto “minestra di pallandoli”? che roba è?

– I pallandoli… quei sassolini che trovi a mare, vicino agli scogli… hai presente?

– Si, e allora?

– Li mettevamo a bollire in una pila con l’acqua di mare

– E poi?

– E poi basta. Se eri fortunato, che trovavi qualche granchio, bene, ce lo mettevi, ma il più delle volte erano solo pallandoli. Davano all’acqua il sapore del mare, il profumo del mare, riempivi lo stomaco d’acqua e facevi finta che stavi mangiando pesce. Soffrivamo talmente la fame che eravamo ridotti a questo. Se chiudo gli occhi, mi sembra di sentire ancora quel sapore… ero una bambina, avevo 8 anni. Nei negozi non arrivava niente, si faceva la spesa con la tessera della fame. il comune dava una tessera a famiglia, era tutto razionato, non c’era da mangiare…

– Avevi otto anni quando c’è stato lo Sbarco di Anzio, no? Sicuramente ricordi qualcosa di quel periodo…

– Ricordo tutto! E chi se lo scorda… all’epoca sembravo una zingara, ero sempre sporca e giravo scalza, come quasi tutti gli altri ragazzini… andavo in giro sulla spiaggia a cercare qualcosa da mangiare.

Prendo il telecomando e abbasso la televisione. Siamo tutti intorno a lei, i nipoti ascoltano rapiti le storie della bisnonna. Comincia a raccontare, e ci sembra di rivedere un film…

 

Nettunia, 25 luglio 1943

I piedi nudi della bambina lasciavano piccole orme sulla battigia. Il secchio di latta le pesava sulle dita, ma erano i crampi allo stomaco a darle più fastidio. La sera prima avevano cenato mangiando solo bruschetta, quattro pomodori spalmati su qualche fetta di pane, tutto quello che la “tessera della fame” dava diritto di prendere alla bottega degli alimentari.

Ma perfino quella cena miserabile sarebbe sembrata un pranzo di nozze rispetto a quello che avrebbero messo in tavola quel giorno: una minestra con i pallandoli che aveva raccolto durante la bassa marea sotto le mura di Castel Sangallo. Risalendo gli scalini del Fontanone, la porta di ingresso che dal molo conduceva all’interno del borgo, sentì un rumore di martelli, come se ci fosse un cantiere edile.

Rumore insolito di domenica, ancora più insolito considerando che negli ultimi tre anni nessun cantiere edile era stato aperto, tutti i muratori del paese erano al fronte, o morti, o convalescenti, o prigionieri di guerra chissà dove .Il rumore proveniva dalla Porta di Levante del Borgo Medioevale, la parte vecchia della città, c’erano dei ragazzi e un paio di uomini anziani che con dei martelli che stavano abbattendo le lastre di marmo con le insegne del fascio. Lei credeva che fossero antiche come lo stemma dei Colonna, non poteva sapere che erano state messe poco prima che lei nascesse.

Gli uomini erano eccitati, e parlavano a volte alta, come se non avessero paura delle spie dell’OVRA.

– Vaffanculo, era ora che arrestassero il Duce! basta levarci il pane di bocca per darlo ai soldati., la guerra è finita!

– Finita un cazzo – diceva un altro – secondo voi adesso il Re che farà? Chi ci metteranno al posto di Mussolini?

– E che vuoi che faccia? Farà la pace, gli americani sono già sbarcati in Sicilia, stanno arrivando a Roma, tra poco sono qui… e finita la guerra, finta ti dico… basta razionamento, basta tessera della fame! me vojo magnà na gallina intera!

Nina (diminutivo di Rossanina) continuò verso casa stringendo il secchio di pallandoli. Pensava a come deve essere mangiare una gallina. Lei non ricordava di averla mai masticata. Si, una volta avevano mangiato un brodo di pollo, ma non aveva mai visto qualcuno masticare carne di pollo, a parte quel cane davanti alla caserma Donati che aveva trovato ossa di pollo nella spazzatura, e le rosicchiava sul marciapiede. Lei si era avvicinata e il cane gli aveva ringhiato. Mandò giù la saliva. Il secchio di pallandoli pesava, lo appoggiò per terra, e guardò nel secchio… poi lo prese con l’altra mano, e prosegui verso casa. Poi tornò giù in strada a giocare vicino alla fontana del Dio nettuno con gli altri bambini, scalzi e smagriti come lei.

 

Nettunia, 8 settembre 1943

L’estate stava finendo, e siccome il carbone da riscaldamento era razionato come il cibo, voleva dire che presto alla fame si sarebbe aggiunto il freddo. La risacca lambiva i piedi di Nina mentre camminava a testa bassa, spiando il movimento rapido dei granchi quando che si seppelliscono sotto la sabbia quando ti sentono arrivare. Mancava poco al tramonto, l’ora migliore per raccogliere i granchi, che la sera camminano sulla spiaggia. Non che avesse una passione per i granchi: la loro polpa era insipida, ma sempre meglio dei pallandoli. Si girò di scatto. Una voce gridava da dentro a una delle barche da diporto tirate in secco sulla spiaggia.

– La resa, la resa!– era Peppe, il guardiano.

Peppe era figlio di comunisti, al padre gli avevano fatto bere l’olio di ricino e si era cagato addosso per una settimana. Lavorava come garzone nella rimessa, insieme al “professore”, detto così perché dicevano fosse un professore di Roma, che insegnava in una scuola importante, dove vanno i figli dei ricchi, ma era stato cacciato per motivi politici, e sopravviveva facendo il guardiano alle rimessa delle barche. Le barche erano dei signori, che le usavano d’estate quando venivano in villeggiatura. Erano gli anni della Belle Époque, quando le estati in paese erano animate dalle ragazze dell’alta borghesia romana, che venivano in spiaggia con gli ombrellini da sole e i costumi da bagno a righe.

C’era stato un tempo quando tra i signori che prendevano il sole sui loro motoscafi c’era anche il Duce, e principi, e principesse straniere, ma da quando era iniziata la guerra si erano visti sempre meno, fino sparire del tutto.

Il Professore e Peppe avevano installato una radio dentro una delle barche in rimessaggio, usando l’albero delle vela per camuffare l’antenna; da quella radio clandestina ascoltavano stazioni proibite, di quelle che se ti scoprivano ti arrestavano, come Radio Londra; e si mettevano le cuffie per ascoltare la radio senza farsi sentire dagli spioni del fascio. Quella sera si erano sintonizzati su Radio Algeri. Peppe non aveva capito niente, perché la trasmissione era in inglese, ma secondo il professore, che qualcosa di inglese la capiva, sembrava che l’Italia sarebbe uscita dalla guerra, una resa tra Italia e Alleati era stata firmata giù in Sicilia

-Nina, vieni qui! Ho da darti una notizia importante!

– tranquillo, non lo dico a nessuno, non lo dico nessuno…. Fa conto che non ti ho visto che sentivi la radio proibita!

– ma no, tranquilla, dillo pure a tutti, tanto tra poco la notizia sarà ufficiale… la guerra è finita! L’ho sentito adesso alla radio!

– ah si?

– si, me l’ha detto il Professore. Il Re ha firmato la resa!

Nina, dimenticandosi dei granchi, corse a dare la notizia in paese, ma nessuno gli dava retta. Più tardi, quando il sole era tramontato dietro Porto d’Anzio, dall’apparecchio a valvole in legno della Phonola nel bar della piazza del paese gracchiò quello che gli storici avrebbero chiamato il “Proclama di Badoglio”. La madre di Nina era li, accanto a lei, scesa in strada come gli altri

– Nina, hai sentito? È finita le guerra!

– Lo sapevo già, mamma, me lo ha detto Peppe mentre ero giù in spiaggia. E allora?

– E allora torna tuo padre, e poi si mangia, è finito il razionamento!

Nel frattempo qualcuno altro non condivideva l’ottimismo generale. A due passi dal bar di Piazza Umberto I, lungo la via S. Maria, che conduce al cimitero, nella caserma Donati, che ospitava il reggimento di artiglieria addetto alla difesa costiera, c’era molto nervosismo. Non erano per niente contenti, perché i loro ufficiali gli avevano spiegato che la guerra non era finita affatto. C’erano i tedeschi, chiamati apposta per aiutarci a difenderci dagli americani… come l’avrebbero presa? Non bene sicuramente, perché quelli di arrendersi non ne volevano sapere. Due erano le alternative: combattere contro gli ex alleati, o combattere con gli ex alleati. In ogni caso combattere: di festeggiare la pace, non sembrava il caso. Oppure…

– Farsi ammazzare proprio adesso, che la guerra è praticamente finita, sarebbe proprio da coglioni – si lasciò scappare il Colonnello Toscano, comandante della guarnigione, confabulando con il Professore davanti al bar.

– E adesso che farete?

– Non lo sappiamo ancora, siamo in attesa di ulteriori ordini da Roma.

– Ma cosa vi hanno detto stasera?

– Niente, ho chiamato il quartier generale, mi ha risposto un piantone, dicendo che negli uffici dello Stato Maggiore non c’era più nessuno. Domattina riprovo.

Intanto la gente affollava le osterie, bevevano sui i tavoli in strada, si festeggiò fino a tardi. In periferia avevano tirato fuori le damigiane di vino nascoste da anni in cantina, e si cantava “osteria numero uno… paraponziponzipo….” . Una camicia nera della milizia territoriale passò tra i tavoli, e li apostrofò dicendo: “aò, non ve mettete er cappello in testa, che la festa non è mica finita” e prosegui impettito, inseguito dal coro dei “mavvaffanculo-te-e-la festa”.

A notte fonda Nina era ancora affacciata in finestra, non riusciva a dormire dopo che la mamma gli aveva detto che sarebbe tornato suo padre, e quando vide le ombre dei militari camminare giù in strada pensò che fosse davvero il papà che tornava dal fronte orientale (non sarebbe tornato mai più, ma lei non lo sapeva ancora)

– Mamma, mamma, è tornato papà!

La madre si precipitò alla finestra, guardò sotto, e la richiuse piano.

– Non è tuo padre, vai a dormire. – bisbigliò.

Quello che aveva visto la donna erano i soldati della caserma Donati che stavano rubando i panni stesi ad asciugare, e li indossavano dopo aver buttato per terra le loro uniformi. saltellavano su un piede infilandosi calzoni di qualche taglia più piccola, il vicolo era invaso da divise buttate per terra.

(continua)