La ricetta del Biancomangiare alle Mandorle

Ovvero: Come devastare l’organizzazione della cena dell’Antivigilia.
Devastare l’organizzazione di una cosa complessa come la cena dell’Antivigilia è impresa relativamente semplice, in quanto è sufficiente trascurare di seguire un paio di fondamentali regole di vita, di quelle, per intenderci, alla Westlake (non avere a che fare con gli Scorpione; non portare un divano su per le scale da soli; non discutere con un pazzo. E non me ne vogliano i nativi dello Scorpione: queste regole son di Westlake, mica mie!).
In questo caso le regole che andrebbero tassativamente rispettate sono: mai collaudare una ricetta nuova il giorno dell’Antivigilia e mai immischiare l’omo col menù della cena; basta, quindi, chiedere consiglio a the marit pel menù e provare una ricetta per la prima volta in occasione della fatidica cena, ed il gioco è fatto: l’organizzazione verrà devastata completamente ed irreparabilmente, ed ora vi illustrerò gli accadimenti che m’han condotta a cotanto risultato.

Qualche tempo prima del giorno preposto alla cena consulto the marit sull’importante tema del dessert, che non è mai pandoro o panettone o assimilabili, ma è molto spesso invece un dolce al cucchiaio.
Gli propongo una panna cotta, senza infamia e senza lode, d’accordo, ma nobilitata da uno sciroppino alle rose, ma l’uomo si ritrae sdegnato da cotal prospettiva affermando che la panna cotta non gli piace e suggerendo invece qualcosa con le mandorle.
All’uopo mi propone, dopo una ricerca on line, la ricetta del Biancomangiare, che ad un attento esame da parte mia non mi pare presentare scogli particolari ad una prima esecuzione in occasione della cena.
Ohimemì, stolta e sconsiderata! Quanto dovevano costarmi questi due errori!

La ricetta prevedeva l’ammollo per una notte in latte e zucchero di un congruo quantitativo di mandorle tritate, la filtrazione del liquido eppoi l’elaborazione del medesimo per mezzo di operazioni semplici.
Dopo aver ammollato per il tempo previsto le mandorle opportunamente tritate mi accingo quindi, la mattina dell’Antivigilia, all’elaborazione successiva, non senza aver prima imbarcato the marit per il lavoro.
Piccola parentesi: qualsivoglia siano le situazioni contingenti ed il menù prescelto, condizione necessaria per la riuscita della cena dell’Antivigilia è che l’omo non sia in casa mentre preparo da mangiare, eqquindi è sempre necessario che ci sia qualcosa che, il giorno fatidico, lo tenga ben lontano dalla cucina ed impegnato.
Bene, dopo aver spedito l’uomo alle sue faccende mi accingo al dessert, senza sapere che mi stavo imbarcando in un’avventura di tipo kafkiano con interessanti digressioni nel campo della fisica applicata.

Eran le nove del mattino e, in base alla ricetta ed a mie precedenti esperienze nel campo dei dolci al cucchiaio, contavo di cavarmela in mezz’ora, tre quarti d’ora al massimo, e principio allegramente posizionando, come da ricetta, un panno all’interno di una ciotola, in cui verso la massa amorfa proveniente dal notturno ammollo.
Capisco subito che il panno, ancorchè scelto in base alle indicazioni fotografiche della ricetta, non è certo il più acconcio ad ottenere una filtrazione efficace e soprattutto celere: il flusso, infatti, si assesta quasi subito su valori attorno ad una goccia ogni dieci secondi, e se pensate che dieci secondi siano poco più di un attimo, fate la prova con un cronometro eppoi mi direte…
Inoltre, strizzando il malloppo nel tentativo di accelerare il procedimento, incontro le prime avvisaglie della spiccata tendenza delle mandorle tritate ad esplorare il mondo che le circonda, tendenza che, pur essendo in un certo qual senso encomiabile in quanto segno di curiosità e di vivacità intellettuale, va comunque impietosamente repressa per evitare di ritrovarsi poi con particelle solide appuntite nel dessert, oltre che, ovviamente, con infiltrazioni mandorlesche fin dentro al letto.
Dopo qualche tentativo, peraltro infruttuoso, di velocizzare la filtrazione senza sguinzagliar le mandorle per l’universo mondo, decido di passare dal panno ad una garza e provvedo quindi al trasferimento (a rate, chè la garza è assai più piccola del panno) della recalcitrante massa eppoi alla sua filtrazione non trascurando, come suggerisce la ricetta, di strizzare bene.
Quest’ultima operazione, resa piuttosto agevole dall’Apesca muscolatura sviluppata coll’intensivo uso di vanga e piantabulbi, viene tuttavia turbata dal fatto che, mentre strizzavo, ho tralasciato per un attimo di tener ben chiusa la sommità del malloppo, cosa che ha immantinente provocato l’entusiastica fuoriuscita di una cospicua quantità di mandorle tritate che si son subito sparpagliate per l’ambiente circostante in cerca di avventure.
Unica cosa positiva in tanto sommovimento l’opportuna colonna sonora che avevo scelto: l’Andantino dell’amato concerto per Flauto ed Arpa di Mozart mi permette di conservare una parvenza di serenità in tanto sfacelo e m’impedisce di buttare il tutto nel più vicino fosso.

Dopo aver provveduto a pulire ogni superficie nel raggio di un metro e mezzo ed aver finito di filtrare, procedo bravamente nell’esecuzione della ricetta sciogliendo nel liquido la colla di pesce, dopodichè dovrei attendere che il tutto si raffreddi in modo da poter incorporare la panna montata senza che questa si conturbi.
Capisco quasi subito che ho appena messo a punto un fluido dotato di un’eccezionale capacità di trattenere il calore, dal momento che l’infame non si vuole raffreddare nè per amore nè per forza; mentre medito di brevettarlo e di venderlo per riscaldare gli hangar in Groenlandia, per ottimizzare i tempi mi dedico a sbucciare i consueti tre chili di carote, cosa che mi consente interessanti digressioni nel campo della balistica (perchè le bucce delle carote non van mai a cadere dentro al piatto di raccolta, indipendentemente dalla posizione del piatto e della carota e dall’inclinazione del coltello?).

Alla fine riesco ad ottenere un raffreddamento perlomeno accettabile del malevolo fluido e lo incorporo alla panna montata, non senza provocare comunque un certo turbamento nella suddetta, eppoi mi dedico a riempire le 12 coppette di vetro destinate alla bisogna, chè non sono così ingenua da usare uno stampo unico, ben sapendo che la naturale malignità delle cose mai e poi mai m’avrebbe consentito di estrarre il dolce alla fine senza provocarne la quasi totale demolizione.
Nel corso del riempimento vengo conturbata da dubbi amletici (basterà o non basterà il composto per dodici coppette?) che risolvo col ben noto sistema scozzese: riempio le coppette più alla svelta che posso, in modo da finire il lavoro prima che finisca la roba; alla fine, noto con gioia che il fluido, ancorchè recalcitrante, m’ha permesso di ottenere 12 belle coppette piene, che però adesso devo posizionare tutte dentro al frigorifero.
E a questo punto non mi bastan più le doti tipiche di ogni Vera Fanciulla, che all’occorrenza sempre sa andar contro al Principio di Esclusione di Pauli (ve lo ricordate? E’ quello che dice che dove ci sta una cosa non ce ne può stare un’altra, ma ogni Vera Fanciulla sa che ciò non corrisponde necessariamente a verità), devo anche ricorrere alle finezze della geometria applicata per ottimizzare gli spazi (12 coppette 12 a forma di mezza mela, accidenti a loro, e tutte col loro bravo picciolo, poi!) e senza trascurare la meccanica dei fluidi, chè la massa non ancora solidificata tendeva entusiasticamente a tracimare dai contenitori…

Una volta convinta l’ultima coppetta ad accomodarsi nel frigorifero mi concedo una standing ovation sotto l’opportuna forma della sontuosa Messa dell’Incoronazione di Mozart, ma il mio giubilo sarà di breve durata, perchè m’accorgo che son le 11 e un quarto…
Ecco, il soave ritardo di quasi due ore sulla tabella di marcia ha fatto sì che a sera, quando son arrivati gli ospiti, non solo non ci fosse ancora la tavola apparecchiata (nè, d’altro canto, pure io fossi pronta o perlomeno pettinata…), ma neppure fossero approntati gli aperitivi nella stanza preposta, cosa che ha provocato l’ingresso degli ospiti, venuti a prendersi i bicchieri, in cucina, con conseguente visione dei cibi preparati, e questo va contro l’antica tradizione di questa cena, il cui menù dev’essere una sorpresa…

Vi chiederete forse, a questo punto, se almeno il dessert valesse tutto quel lavoro e quello spreco di tempo…
Eh, se ci fosse giustizia al mondo avrei potuto rispondervi che sì, quel Biancomangiare era venuto talmente buono da compensarmi di tutto, ma siccome in questo mondo la giustizia latita un tantinello non posso che dirvi che quel dessert era niente di più e niente di meno che una panna cotta con un lontanissimo sentor di mandorle, la cosa migliore del quale eran senz’altro la scorza d’arancio candita ed i biscottini (lingue di gatto) con cui l’ho accompagnato.
Ecco, meglio avrei fatto a preparare una banale panna cotta con dentro una fialetta d’aroma alle mandorle…

Pubblicato da Bee

Ape per scelta e antigrillista per DNA, ama parlare di sé in terza persona, spargere serenità e buffezza e raccontare le meraviglie del mondo che ci circonda.